L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 13 novembre 2010

la società civile + Vendola = Giuliano Pisapia


Primarie di Milano, torna la politica pulita

sabato, 13 novembre 2010

di Gad Lerner


Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Domani Milano potrebbe riservare una grossa sorpresa alla politica italiana.
Qualcosa è cambiato in città, e lo misureremo dal numero dei cittadini che si recheranno alle urne per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra in quella che da quasi vent’anni viene considerata la roccaforte inespugnabile del berlusconismo, del leghismo e dell’affarismo. Nell’aria si respira passione civile, voglia di partecipare e, per la prima volta, anche la speranza di farcela. La sfida, resa appassionante dall’esito incerto, è fra “uomini nuovi” ma conosciuti e rispettati (Boeri, Onida, Pisapia) che si contendono i voti in un clima unitario, pronti a sostenersi l’un l’altro fin da lunedì prossimo. Con loro si è confrontata una galassia di comitati di quartiere, associazioni civiche, movimenti del volontariato sociale, galvanizzati dalla possibilità di rispecchiarsi in una leadership di cui condividono valori e programmi. Niente più soluzioni di ripiego da votare tappandosi il naso, figure tecniche o comunque sbiadite, “inventate” per adeguarsi alla cultura dominante.
Il gran borghese Guido Rossi saluta queste primarie addirittura come “un punto di svolta per un nuovo illuminismo ambrosiano”. Ma stavolta a risvegliarsi non pare solo la Milano élitaria dei salotti, nauseata dall’illegalità diffusa e dai litigi che paralizzano i gruppi di potere locali. E’ nelle periferie a lungo dimenticate che gli appuntamenti con Boeri, Onida e Pisapia hanno registrato la partecipazione di migliaia di elettori, molti dei quali fino a ieri propensi all’astensione. Gli stessi comitati di sostegno alle candidature sono stati animati dall’impegno di giovani alla loro prima esperienza politica.
Naturalmente solo il numero dei partecipanti al voto di domani potrà confermare che non si tratti di un’illusione ottica. Furono 72 mila nell’ottobre di due anni fa i partecipanti alle primarie del Partito democratico. Misureremo se, e di quanto, aumenteranno. Ma se questo sussulto civico non è un’impressione, allora Milano potrà rivelarsi laboratorio politico nazionale di un’opposizione che finora non è riuscita a capitalizzare consensi proporzionati al plateale fallimento del centrodestra. Forse davvero la crisi istituzionale e la disistima nei confronti della classe politica possono trovare un antidoto nella rinascita di una democrazia dal basso che si nutre di partecipazione e ascolto.
Il braccio di ferro tra potentati che ha paralizzato l’Expò 2015, lo scandalo dei rifiuti tossici mai smaltiti, il crac degli immobiliaristi cui la politica locale si è legata mani e piedi, la falsa emergenza rom, gli insulti al cardinale Tettamanzi, la rissa nelle Asl e l’infiltrazione della criminalità organizzata, suscitano un moto di ripulsa generalizzata nella cittadinanza. Neppure negli anni di Tangentopoli Milano si era mai ritrovata preda di un tale degrado culturale, pagato con la crescita delle disuguaglianze sociali e l’impoverimento del suo tessuto urbano. Lo sanno bene anche Berlusconi, Bossi, Formigoni e La Russa che, se potessero, indicherebbero volentieri un candidato sindaco alternativo all’impopolare Letizia Moratti. Lo ha capito anche Fini, che non a caso ha convocato il primo congresso di Futuro e Libertà proprio a Milano nel prossimo mese di gennaio, sognando nel frattempo di convincere l’ex sindaco Gabriele Albertini a una candidatura “terzista” che difficilmente giungerebbe al ballottaggio, ma che potrebbe sancire la sconfitta di Berlusconi e Bossi nella loro capitale.
Milano scopre così di non essere necessariamente terra straniera per la sinistra. Al contrario, ricorda di essere stata la culla del socialismo riformista che l’ha amministrata con giustizia sociale nei decenni della modernizzazione grazie a sindaci della levatura di Antonio Greppi, Aldo Aniasi, Carlo Tognoli. Del resto già nelle ultime elezioni provinciali e regionali la destra vi ha prevalso solo per poche migliaia di voti, anzi, nel perimetro comunale nel 2008 Filippo Penati sopravanzò il berlusconiano Guido Podestà.
Ora i milanesi delusi dal fallimento della destra, in quella che avrebbe dovuto diventare la sua città modello, scoprono la possibilità di un’alternativa dal basso. Si chiama democrazia partecipata, ha già dimostrato di saper promuovere personalità autorevoli e indipendenti. Domani Milano potrebbe lanciare un segnale di riscossa della politica pulita, alla quale ci eravamo disabituati.

tratto da http://www.gadlerner.it/2010/11/13/primarie-di-milano-torna-la-politica-pulita.html

venerdì 12 novembre 2010

come i ministri Giulio Tremonti e Renato Brunetta nella crisi data attaccano il mondo del lavoro per difendere gli Interessi Consolidati.


300.000 impiegati pubblici in meno: troppi o troppo pochi? È questione di "bene comune".

Stiamo ovviamente parlando dei trecentomila dipendenti in meno (-8,4%) che lavoreranno nelle amministrazioni pubbliche nel 2013, secondo le dichiarazioni fatte da Brunetta qualche giorno fa. Si tratta, come subito precisato, non di licenziamenti, ma di blocco del turnover, di regolamentazione dei contratti atipici, di pensionamenti: ma comunque è una bella cifra seppure frutto di cinque anni di provvedimenti. È troppo grande o troppo piccola questa riduzione? Gli statali sono troppi o troppo pochi?

È chiaro che alla mia domanda è impossibile rispondere, nonostante ahimè molti ci abbiano provato con reazioni non molto meditate in un senso o nell’altro, senza rispondere prima alla domanda su quale sia la PA che vogliamo. Comincerò quindi da questa risposta, a rischio di essere noioso, poi prometto di tornare alla domanda iniziale.
Io credo fermamente che l’amministrazione pubblica di un Paese democratico vada considerata come un “bene comune” e da questa convinzione farò discendere alcune conseguenze spero non banali.

Per sostenere che la PA di un Paese è un “bene comune” è necessario definire insieme questo concetto che avevamo già accennato in un precedente editoriale. Nella tradizione giuridica anglosassone vengono definiti “commons”- beni comuni - quei beni che sono proprietà di una comunità e dei quali la comunità può disporre. La nozione di “beni comuni” identifica, perciò, tutti quei beni materiali e immateriali: l’ambiente, le foreste, il mare come ecosistema e come territorio di pesca, le acque interne, le infrastrutture e i servizi di pubblica utilità, ma anche immateriali: la fiducia sociale, la solidarietà, la sicurezza, la conoscenza che costituiscono un patrimonio collettivo di una comunità e il cui uso deve essere regolato per impedire che queste risorse comuni siano preda di soggetti o organizzazioni singole che, attraverso un uso indiscriminato ne producano nel tempo l’impoverimento. Alla fine degli anni sessanta uno studioso, Garret Hardin, in un famoso articolo intitolato “La tragedia dei beni comuni” propose la tesi secondo la quale questi beni sarebbero destinati all’esaurimento perché preda sempre e comunque degli egoismi individuali; un più equilibrato e moderno studio che a partire dagli anni ’90 si è svolto soprattutto negli Stati Uniti (Elinor Ostrom ne è stata paladina) propone invece una tesi opposta. I beni comuni possono essere beni “sostenibili” ed essere un risorsa fondamentale per le comunità e le nazioni a patto che le comunità coinvolte nel loro utilizzo definiscano e condividano regole per la loro “sostenibilità” e cioè garantiscano la possibilità della rigenerazione naturale o sociale dei beni comuni stessi.

Come vedete questa metafora è feconda per la PA e ci pone subito alcuni principi che sono punti cardinali del nostro ragionamento:

  • la PA per essere bene comune deve essere svincolata da interessi di parte…

  • …nello stesso momento per poter essere “sostenibile”, e quindi perché non si estingua nei conflitti, deve essere regolata…

  • …e tali regole devono essere ampiamente condivise e non dettate da una o l’altra parte politica,

  • infine, last but not least, la PA e i suoi dipendenti non possono essere giudicati o valutati se non sulla base dell’effettiva disponibilità che di essa hanno i membri della comunità, quindi, in altre parole, sulla base dell’incremento della qualità e della quantità della “restituzione di valore” che la PA è tenuta a garantire ai cittadini contribuenti secondo quello che è il primo principio del patto sociale.

Abbiamo quindi, tramite il ricorso al concetto di commons, introdotto un orientamento nel nostro percorso: la nostra stella polare, nel prendere le misure alla PA, sarà data dal “bene comune” e i nostri punti cardinali, su cui ci orienteremo, saranno tre presupposti deontologici che appartengono alla amministrazione pubblica e che vanno contemperati: la sua autonomia da interessi di parte (per altro garantita al massimo livello dalla Costituzione), la sua responsabilità di fronte ai cittadini (ma anche ai loro rappresentanti politici… e qui la cosa non è banale) , la sua trasparenza e accountability.

Diremo, quindi, che la PA che vogliamo è caratterizzata da “autonomia, responsabilità, trasparenza”. Si tratta per altro di principi costituzionalmente garantiti e come tali “non a disposizione” di una o l’altra parte politica.
Su questa base torniamo alla nostra domanda iniziale: è una cosa buona o cattiva per il Paese che la PA dimagrisca in modo così significativo?

Mi lascia molto freddo la preoccupazione che misure del genere accrescano la disoccupazione, non perché sottovaluti il tragico problema della mancanza di posti di lavoro e, soprattutto, della scarsa percentuale degli occupati in Italia, ma perché credo che non sia compito dell’amministrazione pubblica quello di creare lavoro purché sia. La mia risposta quindi nascerà solo dalle considerazioni precedenti.

Su questa base, a mio parere, è un bene se la PA si riduce, e quindi costa meno (contribuendo così alla tenuta dei conti pubblici), SE e solo SE non si riduce il suo valore di “bene comune” del Paese, quindi…

  • SE questa riduzione non pregiudica il suo orientamento all’interesse della comunità nazionale, e quindi non riduce la quantità e la qualità dei servizi forniti ai cittadini ed alle imprese. E’ ovvio che perché questo succeda deve aumentare e non di poco la produttività, con tutto quello che ne consegue anche in termini di investimenti organizzativi e tecnologici;
  • SE attraverso il blocco del turnover non penalizziamo i giovani e non peggioriamo il già drammatico invecchiamento della forza lavoro pubblica (con quasi 48 anni di media siamo la PA più vecchia del mondo!) riducendone di fatto il suo valore;
  • SE nella scelta della riduzione ci muoviamo nel solo interesse pubblico, quindi senza interessi di parti o di lobby;
  • SE con questa riduzione e con il blocco delle assunzioni non impoveriamo alcuni asset di competenze fondamentali per una PA che voglia attuare il “governo con la rete”: penso ai project manager, ai negoziatori, agli esperti di relazioni pubbliche, ai tecnici e ai teorici dell’innovazione: ma anzi se utilizziamo questa riorganizzazione per avere le competenze che ci servono (“meno uscieri, più ingegneri” aveva detto il precedente Ministro Nicolais beccandosi bordate di fuoco anche “amico”);
  • SE siamo capaci di discriminare e di giudicare dove e come ridurre e, quindi, non attuiamo tagli ciechi anche qui, ma diminuiamo la forza lavoro dove è in eccesso e la rimbocchiamo, almeno in parte, dove è carente;
  • SE siamo capaci di impiegare bene le risorse che ci sono e, quindi, di “muoverle” lì dove ci servono con una mobilità agile e flessibile.

A voi il giudizio se stiamo rispettando queste condizioni.

tratto da http://saperi.forumpa.it/story/50970/300000-impiegati-pubblici-meno-troppi-o-troppo-pochi-e-questione-di-bene-comune?utm_source=FORUMPANET&utm_medium=2010-11-02


giovedì 11 novembre 2010

con la scusa della crisi il capitale europeo continua con più determinazione ad attaccare lo stato sociale.



“Il modello perduto”, di Luciano Gallino
La rivolta degli studenti inglesi e le manifestazioni di massa contro i tagli delle pensioni in Francia o quella promossa dalla Fiom a Roma in difesa del lavoro possono essere lette come un primo tentativo di difendere dall’Europa il modello sociale europeo.
Un´espressione che suona un po´ astratta, ma è ricca di significati concreti. Essa vuol dire infatti pensioni pubbliche non lontane dall´ultima retribuzione; un sistema sanitario accessibile a tutti; scuola pubblica gratuita e università a costo minimo; un esteso sistema di diritti del lavoro, e molte altre cose ancora. Negli ultimi cinquant´anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone ed ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori.
Ora il modello sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell´Europa. Tutti sostengono che è necessario tagliare tutto: pensioni, sanità, scuola, università, salari, diritti. Il motivo lo ha spiegato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. In un articolo apparso sul “Financial Times” nel luglio scorso, il cui titolo suonava “è tempo per tutti di stringere la cinghia”, egli scriveva che per sostenere la “sfera finanziaria” è stato accollato ai contribuenti Ue il rischio di dover sborsare 4 trilioni di euro (cioè quattromila miliardi: quasi tre volte il Pil dell´Italia) tra ricapitalizzazioni, garanzie e acquisto di titoli tossici.
Il “sillogismo di Trichet” dice: voi cittadini vi siete indebitati per trilioni di euro al fine di salvare dalla crisi il settore finanziario; chi contrae debiti deve ripagarli; dunque voi dovete rinunciare a trilioni di spesa pubblica per consolidare il bilancio degli stati. Il che significa tagliare pensioni, sanità, scuola, università, diritti. Già un mese prima il nuovo governo liberal-conservatore del Regno Unito aveva deciso di ridurre del 60 per cento gli investimenti governativi, di tagliare 600.000 posti nel settore pubblico e triplicare le tasse universitarie (portandole da 3.000 a 9.000 sterline).
I governi d´Europa danno la colpa a un´accoppiata infernale: il deficit crescente dei bilanci pubblici indotto dai costi eccessivi dello stato sociale, e la parallela diminuzione delle entrate fiscali causata dalla crisi. Nessuna delle due giustificazioni sta in piedi. Il deficit medio dei bilanci pubblici nei paesi della zona euro era appena dello 0,6 per cento del Pil nel 2007. Nel 2010 risulta aumentato di 11 volte, toccando il 7 per cento. Colpa di un eccesso di spesa sociale? Certo che no. Nel periodo indicato essa è stabile o in diminuzione. Semmai colpa della crisi finanziaria. Quanto alle entrate, sono diminuite prima della crisi a causa della forte riduzione delle tasse di cui hanno beneficiato soprattutto i patrimoni e i redditi più alti. In Francia, ad esempio, un rapporto presentato all´Assemblea a fine giugno 2010 lamentava che a causa delle “massicce riduzioni” delle imposte, susseguitesi dall´anno 2000 in poi, le entrate fiscali del bilancio dello stato hanno subito perdite valutabili tra i 100 e i 120 miliardi di euro.
Nel quadro dell´attacco che i governi di destra d´Europa - magari con etichetta socialista, come quello di Zapatero - stanno portando al modello sociale europeo, il governo italiano appare del tutto allineato e coperto. Taglia alla grossa la spesa sociale in modi diretti e indiretti, tra cui la drastica riduzione dei trasferimenti agli enti locali. Per di più il paese Italia è messo assai peggio degli altri. Gli italiani non possono infatti contare su sussidi di disoccupazione che toccano l´80% della retribuzione e possono durare per anni, o su ampi e solidi servizi alle famiglie, come avviene in Danimarca. Né su un reddito minimo garantito come hanno i francesi. E tantomeno ricevono gli alti salari inglesi o tedeschi, che almeno quando uno lavora permettono di reggere meglio le riduzioni dei servizi sociali.
L´attacco dell´Europa al proprio modello sociale non è soltanto iniquo. è pure cieco, perché apre la strada a una lunga recessione. Meno scuola e meno università significano avere entro pochi anni meno persone capaci di far fronte alle esigenze di un´economica innovativa e sostenibile. Infrastrutture sgangherate costano miliardi solo in termini di tempo. Servizi sociali in caduta libera vogliono dire meno occupazione sia tra chi li presta, sia tra chi vorrebbe disporne per poter lavorare. A una generazione intera la quale va incontro a pensioni che per chi ha la fortuna di decenni di lavoro stabile stanno scendendo verso la metà dell´ultima retribuzione, è arduo chiedere di pagare la crisi una seconda volta. Ma l´attacco al modello sociale europeo è anche peggio della vocazione al suicidio economico che tradisce. Significa ferire gravemente uno dei maggiori fondamenti dell´identità europea, quello che forse giustifica più di ogni altro l´esistenza della Ue.
tratto da La Repubblica 11.11.10