L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

giovedì 24 febbraio 2011

Mediterraneo: il futuro è a sud. Una Nuova Via della seta


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Scritto da Antonio Passaniti
giovedì 24 febbraio 2011
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La crisi che stiamo vivendo, pur profonda e grave ( la peggiore dal dopoguerra) ,prima o poi, passerà. Ma l'errore più grande sarebbe considerarla come un brutto episodio ormai in via di risoluzione.
Perché?
Premesso che la crescita rimane il problema centrale dell'economia italiana:
a) perché i tempi della ripresa saranno lunghi: si parla del 2018. 8 anni sono tanti...
b) Nell'annus horribilis 2009, gli scambi internazionali sono crollati del 13% e in un solo trimestre la produzione industriale è precipitata addirittura del 50%.
c) Ci sono segnali che nel giro di un paio d'anni si recupererà tutto e l'economia mondiale riprenderà a crescere fin da quest'anno con una media tra il 4 e 5%: ma con una media, appunto...
d) Usa e Europa oggi fanno,complessivamente, la metà del pil del pianeta, ma molto presto, prima di quanto si sia portati a immaginare, non sarà più così
e) La Cina, nel primo trimestre di quest'anno ha fatto registrare un +11,9%, mentre l'area Euro sta a un +1 e qualcosa e gli Usa superano di poco il 3.
f) Ad esempio,Il Giappone, già dal 1995 sta anticipando il declino dell'Occidente: allora pesava per il 16% sull'economia mondiale, oggi è sotto l'8%.
h) Le previsioni a lungo termine,se non si procederà a sostanziali correzioni di rotta, danno per il 2050 la Cina con con un Pil di 70 mila miliardi, e gli Usa sotto i 40 mila miliardi, seguiti dall'India.
i) Le famiglie americane sono oggi indebitate per oltre il 120% del Pil del loro Paese e il debito pubblico è in forte crescita anno su anno.
L) L'Europa balbetta, prigioniera delle sue rigidità, dei suoi localismi, della sua storica scarsa propensione all'innovazione.
F) Nei prossimi anni, cresceranno oltre ai "bric" altri paesi erroneamente considerati ancora Terzo Mondo.Sono i "Next eleven", cioè i paesi con un potenziale altissimo in grado di entrare nel giro di qualche decennio tra le maggiori economie del mondo: Bangladesh, Egitto, Indonesia,Iran, Messico, Nigeria,Pakistan, Filippine,Corea del Sud, Turchia e Vietnam.

Ogni giorno 2mila navi fanno scalo nei porti del Mediterraneo. Come dire 750mila tonnellate di merci l'anno. Da gennaio, inoltre, una decina di paesi della sponda sud dell'area hanno abbattuto i dazi negli scambi commerciali, pur non essendoci ancora una zona di completo libero scambio. E i risultati si sono subito visti: nei primi tre mesi dell'anno il nostro l'export è cresciuto del 23,2 per cento. I dazi pesano quindi sul livello dell'interscambio, specialmente per un'Italia che, superando Francia e Germania, è diventata il primo partner commerciale del Mediterraneo, da sempre «Mare nostrum».

Ecco perché la mancata creazione di un'area di libero scambio nel 2010, come stabilito dal Processo di Barcellona, impone la riprogrammazione di un'agenda comune che scandisca tempi e modalità (anche per il 2030, ma con certezze).La mancata creazione di un'area di libero scambio è un'occasione perduta per tutti: «Agli oltre 26 negoziati che uniscono a livello globale i paesi dei cinque continenti, all'appello manca appunto lo spazio economico Euromed».

Ma il Mediterraneo non va visto solo come un'area commerciale.Dobbiamo impegnarci anche a rafforzare la filiera produttiva a rete tra i vari paesi in modo da integrare i sistemi produttivi sia investendo in corridoi logistici sia in piattaforme produttive». Quest'anno il target delle nostre esportazioni è fissato a 22 miliardi di euro nel comparto industriale (rappresenta il 95% di tutto il nostro export verso l'area), comunque una cifra record.

E le aspettative sono elevate. In un paio d'anni la meta possibile è quella di piazzare beni per 30 miliardi, grazie a un'ottimale combinazione tra vendite e investimenti. Questi ultimi vanno visti nei due sensi: il made in Italy può esportare l'esperienza dei distretti produttivi (nell'abbigliamento e nella pelletteria o in alcune lavorazioni meccaniche) mentre gli imprenditori esteri possono far tesoro delle nostre tecnologie avanzate, ma adattabili all'attuale livello di sviluppo dei diversi paesi.

L'obiettivo è quello di creare un mercato unico con questi paesi, senza dazi e protezionismi:
Il progressivo processo di integrazione euro-mediterranea costituisce dunque per il made in Italy un'opportunità e una sfida. Giova ricordare che la sponda sud del Mediterraneo esprime una ricchezza pari a quella del Brasile e superiore all'India. Il Mediterraneo attira più investimenti diretti esteri del Mercosur e gioca un ruolo chiave nell'energia.

Ecco qualche cifra. Nei porti mediterranei passa un terzo del commercio mondiale: «Circa il 30% del petrolio mondiale, due terzi del fabbisogno energetico Ue transitano per questo mare. Le potenzialità di sviluppo sono dunque evidenti e il nostro paese, insieme all'Europa, non può trascurarle».

Ma l'attuale contesto geopolitico e economico sta delineando nuovi scenari per l'Ue e l'Italia in particolare.Il nostro futuro sarà euromediterraneo o non sarà.Con 280 milioni di abitanti, un terzo del commercio mondiale,energia in grande quantità, Paesi in forte espansione economica e demografica, il Mediterraneo rappresenta la vera sfida lanciata all'Europa.
L'ascesa del Mediterraneo si basa essenzialmente sulla crescita della produzione asiatica e sul conseguente flusso di merci che attraversano il "nostro mare" per raggiungere i consumatori europei e occidentali. La crisi ha provocato un drastico calo del traffico, ma non è difficile immaginare che prima o poi tornerà a crescere, e di molto. Su questo scommettono gli investitori che negli ultimi anni hanno concentrato centinaia di miliardi di dollari sullo sviluppo dell'area mediterranea, in particolare dei paesi Meda (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia e Turchia, più Libia come osservatore). Se il 40% degli investimenti esteri nella regione restano europei, ormai il 30% proviene dal Golfo, mentre Brasile, India, Cina e altre economie ruggenti sono al 20% e gli Stati Uniti al 10% (rispetto al 25% di dieci anni fa). Già oggi, quindi, noi europei (e in specie noi italiani), stiamo perdendo quota nella competizione mediterranea".

La geografia colloca l'Italia in prima linea,al centro dell'incrocio tra Maghreb ed Europa continentale; ma se non ci muoviamo velocemente, saranno altri che si accaparreranno un mercato potenziale enorme che se agganciato allo spazio europeo potrebbe aggregare un terzo del pil mondiale entro la metà del secolo (oggi l'Ue da sola è al 23%, ma potrebbe scadere al 15% se non agganciasse la sponda Sud). Secondo una stima della Federazione del mare il Pil che nasce nel Mediterraneo è pari a 4 mila miliardi di Euro, destinato a crescere esponenzialmente in vista della liberalizzazione del mercato nel Mediterraneo entro il 2010. Nonostante un terzo dell'interno commercio mondiale transiti fra Suez e Gibilterra, l'Italia fatica a intercettarlo per la cronica carenza di infrastrutture portuali e di trasporto terrestre che non ci rende competitivi rispetto ai grandi hub del Nord Europa e ormai anche del sud (si pensi al gigantesco porto di Tangeri).
Dobbiamo invertire questa tendenza e trasformare il nostro impegno economico e produttivo nell'area mediterranea se non vogliamo accelerare il declino dell'Italia.
tratto da http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=31345&Itemid=27

mercoledì 23 febbraio 2011

risorse finite/n°. 1

[ 22 febbraio 2011 ] Clima | Economia ecologica | Energia | Rifiuti e bonifiche

Quanto costa "inverdire" l'economia mondiale

LIVORNO. Ecco le principali conclusioni del rapporto "Towards a Green Economy Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication" dell'Unep in alcuni settori chiave
Per l'Unep, la green economy è un'economia che comporta «Un miglioramento del benessere umano e l'equità sociale, riducendo allo stesso tempo in maniera significativa i rischi ambientali e la carenza di risorse». Politiche e investimenti che disaccoppino la crescita dall'attuale consumo intensivo di materie prime e di energia costituisce una parte importante della transizione. Benché ci siano stati dei tentativi di disaccoppiamento nel corso degli ultimi 30 anni, i guadagni sono stati troppo modesti per mettere il pianeta sulla via dello sviluppo sostenibile, preservandone le risorse finite.
Secondo l'Unep i governi devono svolgere un ruolo di pivot con politiche pubbliche innovative ed originali che «Saranno essenziali per mettere in campo le condizioni favorevoli, che inciteranno i mercati e gli investimenti diretti del settore privato a scegliere la via della transizione verso la green economy».
Il rapporto fa alcuni esempi: «Quadri regolamentari ben pensati, assegnazione prioritaria delle spese e degli appalti pubblici a dei comparti che stimolino i settori economici verdi e limitazione delle spese che favoriscono l'esaurimento del capitale naturale. Tassazione e meccanismi economici intelligenti che spostino le spese ei consumatori ed incoraggino l'innovazione verde. Investimenti pubblici nel rafforzamento delle capacità e della formazione, parallelamente al consolidamento della governance internazionale. Le politiche pubbliche possono così fare in modo che il vantaggi dell'inverdimento di un settore bisognoso di benefit più ampi in termini in termini di sviluppo sostenibile».
Il rapporto però prevede che del 2% del Pil mondiale necessario per la transizione verso la green economy la maggioranza degli investimenti venga dai capitali privati e che questi vadano soprattutto a 10 settori chiave giudicati essenziali: agricoltura, edifici, offerta energetica, pesca, forestazione, industria (efficienza energetica), turismo, trasporti, gestione dei rifiuti ed acqua. Per il 2% del Pil proposto dal rapporto, gli investimenti in base ai livelli attuali di PIl sarebbero: 108 miliardi di dollari per rendere l'agricoltura più verde, piccoli agricoltori compresi; 134 miliardi di dollari per migliorare l'efficienza energetica degli edifici; più di 360 miliardi di dollari per la sostenibilità dell'offerta energetica; circa 110 miliardi di dollari per la pesca, compreso un calo della capacità delle flotte mondiali; 15 miliardi di dollari per la forestazione sostenibile con importanti ricadute positive per la lotta ai cambiamenti climatici; più di 75 miliardi di dollari per rendere più green le attività industriali, compreso il manifatturiero; circa 135 miliardi di dollari per il turismo ecologico e più sostenibile; più di 190 miliardi di dollari per ridurre l'impatto dei trasporti su ambiente e salute; circa 110 miliardi di dollari per I rifiuti, compreso il riciclaggio; altri 110 miliardi di dollari circa per acqua, depurazione e servizi igienici.
Agricoltura. Una green economy investirà nell'agricoltura da 100 a 300 miliardi di dollari all'anno fino al 2050 per nutrire 9 miliardi di persone e favorire allo stesso tempo una miglior gestione della fertilità dei suoli, l'utilizzo sostenibile dell'acqua e il miglioramento della gestione biologica dei vegetali. Degli scenari indicano un aumento dei rendimenti mondiali delle principali colture del 10% in rapporto alle strategie di investimenti che verranno attuate. Questo equivarrebbe ad innalzare e a mantenere i livelli nutritivi a 2.800 - 3.000 kilocalorie a persona entro il 2030, paragonate alle 2. 000 kilocalorie disponibili oggi. Le perdite alimentari nel mondo rappresentano 2.600 kilocalorie a persona e al giorno. Sono soprattutto dovute all'assenza o all'inefficienza di infrastrutture di distribuzione e di conservazione e ai rifiuti domestici. Di conseguenza, la transizione verso la green economy deve affrontare questi problemi, che sono legati a diversi settori.
Edifici. Gli uffici ed i locali residenziali, che utilizzano un terzo dell'energia mondiale, fanno del settore degli edifici il più grosso emettitore di gas serra del mondo. Il settore delle costruzioni è responsabile di oltre un r terzo del consumo mondiale delle risorse materiali, tra le quali il 12 % dell'utilizzo totale di acqua dolce. Secondo uno scenario dell'Ipcc, l'impronta climatica del settore degli edifici dovrebbe quasi raddoppiare e raggiungere 15,6 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 entro il 2030, cioè il 30% delle emissioni totali di CO2 di origine energetica. Negli scenari della green economy, l'utilizzo delle tecnologie già esistenti e l'aumento dell'offerta di energie rinnovabili potrebbe comportare un calo spettacolare delle emissioni monetizzabile con un risparmio di 35 dollari per tonnellata di CO2. Con buone politiche governative in materia di edifici urbani, entro il 2050 sarebbe possibile risparmiare circa un terzo dell'energia consumata da questo settore in tutto il mondo, con un investimento annuale da 300 miliardi a un trilione di dollari.
Pesca. Delle sovvenzioni stimate in circa 27 miliardi di dollari all'anno hanno prodotto una capacità di pesca due volte superiore alle possibilità riproduttive dei pesci. Per permettere la ricostituzione delle risorse alieutiche del pianeta. il rapporto suggerisce di investire nel rafforzamento della gestione della pesca, compresa l'istituzione di aree marine protette, m nella messa fuori servizio di alcune navi, nella riduzione della capacità delle flotte e nella formazione ad altri mestieri. Un tale investimento, appoggiato da iniziative politiche, si tradurrebbe in un aumento delle catture dagli attuali 80 milioni di tonnellate a 90 milioni entro il 2050, dopo unn calo iniziale che si protrarrebbe fino al 2020. «Il valore attuale dei benefici del rinverdimento del settore della pesca è stimato da 3 a 5 volte circa quello dell'investimento necessario». Sarebbe possibile limitare le perdite di posti di lavoro a corto e medio termine concentrandosi sulla diminuzione di un piccolo numero di flotte di pesca industriale invece che su quelle dei piccoli pescatori artigianali. I lavoratori della pesca dovrebbero ricominciare ad aumentare nel 2050, una volt che gli stock si saranno ricostituiti.
Forestazione. Le foreste producono beni e servizi che assicurano I mezzi di sussistenza economici a più di un miliardo di persone, riciclano i nutrimenti essenziali all'agricoltura ed ospitano l'80% delle specie terrestri. Attualmente, la deforestazione rappresenta circa il 20% delle emissioni mondiali di gas serra, «Diminuire la deforestazione può quindi costituire un buon investimento: stimiamo che in effetti i vantaggi in termini di regolazione del clima del dimezzamento della deforestazione siano tre volte soperiori ai costi». Il apporto prende in analisi un contributo di 15 miliardi di dollari all'anno (0,03% del Pil mondiale) per la sostenibilità di questo settore, compreso l'aumento degli investimenti per il programma Redd+ . Questo permetterebbe anche il rafforzamento di meccanismi economici già approvati, come il legname certificato, la certificazione dei prodotti delle foreste primarie, il pagamento dei servizi ambientali e le partnership con le comunità locali. Tra il 2011 e il 2050, un investimento da 15 miliardi di dollari aumenterebbe il valore aggiunto dell'industria forestale di oltre il 20% in rapporto al mantenimento dello statu quo. Il rapporto suggerisce che la transizione verso la green economy permetterebbe di accrescere la copertura forestale, attualmente vicina a 4 miliardi di ettari, di oltre il 3% nel 2020, dell' 8% nel 2030 e di più del 20 % nel 2050, rispetto al mantenimento dello statu quo. La rapida messa in atto di queste raccomandazioni potrebbe apportare un contributo essenziale al'anno internazionale delle foreste indetto dall'Onu proprio per il 2011.
Trasporti. I costi ambientali e sociali dei trasporti in termini di inquinamento atmosferico, di incidenti stradali e di ingorghi rappresentano circa il 10% del Pil di alcune regioni o Paesi. Per rendere più green il settore dei trasporti ci vogliono politiche che incoraggino il passaggio al trasporto pubblico e non motorizzato e che favoriscano il rendimento energetico dei carburanti e veicoli meno inquinanti. Per l'Europa il rapporto Unep sottolinea che «I benefici economici regionali degli investimenti nei trasporti pubblici rappresentano più del doppio dei loro costi». Diminuire il tenore di zolfo dei carburanti nell'Africa subsahariana potrebbe rappresentare un risparmio di circa 1 miliardo di dollari all'anno in costi sanitari. Investire lo 0,34% del Pil mondiale all'anno, fino al 2050, nel settore dei trasporti potrebbe ridurre dell'80% il consumo di carburanti ed aumentare del 6% i posti di lavoro rispetto al mantenimento dello statu quo, grazie principalmente all'aumento della quota dei trasporti pubblici.
Rifiuti. Entro il 2050 il mondo dovrebbe produrre più di 13 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi urbani e di altro tipo: attualmente solo il 25% del totale dei rifiuti viene recuperato e riciclato. Un investimento di 108 miliardi di dollari all'anno nel rinverdimento del settore dei rifiuti potrebbe permettere di riciclare quasi il 100% dei rifiuti elettronici contro l'attuale 15 %. Un tale investimento potrebbe triplicare il riciclaggio globale dei rifiuti entro il 2050 e ridurre dell' 85% le quantità di rifiuti che finiscono nelle discariche rispetto allo scenario del mantenimento dello statu quo. Questo comporterebbe anche. entro il 2030, che le emissioni di gas serra dovute al metano potrebbero diminuire dal 20 al 30%, producendo ulteriori risparmi. La prevenzione e la gestione dei rifiuti resta una delle sfide maggiori per l'industria manifatturiera. Degli approcci come il "re manufacturing" e la riprogettazione dei prodotti e delle procedure possono contribuire a limitare la produzione di rifiuti e ad utilizzare le risorse. Così come un allungamento del 10% della vita dei prodotti manifatturieri si tradurrebbe u in una riduzione equivalente del volume di risorse estratte. Secondo il rapporto «Il riciclaggio del calore residuale grazie alle centrali di cogenerazione che combinano calore ed elettricità presenta un forte potenziale di utilizzo più razionale dell'energia. L'industrie della pasta da carta dispone di impianti di cogenerazione che le permettono di utilizzare il 30% di energia primaria in meno».
Per consultare la versione integrale del rapporto: www.unep.org  et www.unep.org/greeneconomy
tratto da http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=9052