L'"agenda Bagnai" e la maldicenza e mediocrità molto tenaci
di Alberto Bagnai
Tesi
luca grignani ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Una cortesia":
Comincio a notare anche qui sul blog di Bagnai una certa qual avversione verso la sovranità monetaria.....
Antitesi
Da "Il tramonto dell'euro", p. 277:
E dopo che si fa?
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autonomia energetica attraverso le rinnovabili |
Proviamo allora a unire i puntini.
Questa crisi richiede un deciso cambio di
paradigma, che è fuori dalla portata di chi si ostina a difendere
l’esistente, per difetto etico (collusione col potere, incapacità di
ammettere un errore), o politico (incapacità di immaginare un cambio di
rotta senza sopportare enormi costi in termini elettorali). Il nuovo
paradigma, evidentemente, deve muovere dal superamento degli errori del
vecchio, e da una percezione chiara, e articolata per priorità, dei
problemi che abbiamo di fronte. Problemi, giova ricordarlo, che quando non sono stati creati, non sono stati nemmeno risolti dall’entrata nell’euro. Problemi, va anche detto, che non
sono tutti alla nostra portata, né come singoli, né come collettività
nazionale.
Tuttavia se prima non si acquisisce una consapevolezza, è impossibile
proporre un’azione politica tale da coinvolgere altri soggetti (siano
essi il vicino di casa, o altre nazioni europee). L’agenda di quello che
si può fare parte anche da una visione costruttiva, e non scaltramente
distruttiva, di quello che non si può fare, o non da soli, o non adesso.
Il quadro sopra delineato chiarisce che l’uscita dall’euro, di per sé, non risolverebbe tutti i problemi.
Ma questo nessuno potrebbe pensarlo, nessuno l’ha mai né creduto né
detto né in Italia né altrove. Le analisi dei possibili percorsi di
uscita dall’euro abbondano e sono facilmente consultabili su Internet.
Da inventare c’è veramente poco, e nessuna fra le analisi proposte, che
esamineremo in dettaglio, considera l’uscita dall’euro come risolutiva.
Chi sostiene il contrario è disinformato o in cattiva fede.
Se abbiamo unito bene i puntini, l’agenda mi sembra sia evidente: bisogna
smontare pezzo per pezzo le istituzioni partorite dai paradigmi
fallimentari che hanno messo in crisi la nostra economia e soprattutto
la nostra democrazia, seguendo quattro linee guida:
1) Uscire dall’euro, come affermazione di sovranità e di democrazia, riprendendo il controllo della politica valutaria.
2) Ristabilire il principio che la Banca centrale è uno strumento del potere esecutivo, e non un potere indipendente all’interno dello Stato.
3) Riprendere il pieno controllo della politica fiscale, non più costretta ad agire in funzione prociclica (cioè a rispondere alle crisi con tagli).
4) Adottare,
nella misura consentita dagli atteggiamenti dei partner commerciali, e
propugnare nelle sedi istituzionali, una politica di scambi con l’estero
basata sul principio che squilibri persistenti della bilancia dei
pagamenti, quale ne sia il segno, cioè siano essi surplus o deficit,
devono essere simmetricamente combattuti, secondo il principio che
abbiamo definito dell’External Compact.
Queste quattro linee guida hanno una serie d’implicazioni. Precisiamo subito le più importanti.
Riprendere il controllo della politica valutaria significa, in primo luogo, lasciare che il tasso di cambio nominale torni a un valore più allineato con i fondamentali dell’economia.
Per l’Italia, oggi, ciò implica una svalutazione non catastrofica, di
un ordine di grandezza verosimilmente inferiore a quello sperimentato
dalla lira dopo la crisi del 1992, o dall’euro nei primi due anni della
sua introduzione. In nessuno di questi due precedenti storici l’Italia è
stata devastata dall’iperinflazione. Discuteremo fra breve,
razionalmente, quale sarebbe l’impatto di questo provvedimento sul
nostro tenore di vita. Ma riprendere il controllo della politica
valutaria significa anche rientrare in possesso di uno strumento che
consenta di difendersi da shock esterni, siano essi determinati da crisi
economiche, siano essi il risultato di politiche deliberate di
aggressione commerciale (nelle pagine precedenti abbiamo visto esempi dell’uno e dell’altro caso).
Riprendere il controllo della politica monetaria significa:
1) Rifiutare il dogma dell’indipendenza della Banca centrale, e quindi l’art. 104 del Trattato di Maastricht, il quale al primo comma recita:
È
vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di
facilitazione creditizia, da parte della BCE o da parte delle Banche
centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche centrali
nazionali”), a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni
statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri
organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle Banche centrali nazionali.
Se
ciò comporti un’uscita dall’Unione, o solo una sospensione
dell’applicazione del Trattato, è materia controversa, la cui soluzione
dipende comunque dall’atteggiamento delle controparti europee (ne
parleremo più avanti). Certo, alla luce di quanto abbiamo detto finora, l’Italia,
se intende difendere i valori fondanti della propria Costituzione, non
può più permettersi di aderire a un progetto d’integrazione continentale
fondato sul principio antidemocratico della costituzione di un “quarto
potere” monetario indipendente. L’insofferenza crescente nelle sedi
internazionali verso questo principio e verso l’ideologia ad esso
sottostante potrebbero consigliare atteggiamenti interlocutori alle
controparti europee.
2) Rivedere
la riforma bancaria del 1994, ripensando il concetto di banca
“universale” o “mista”, di derivazione tedesca, da essa introdotto, e ristabilendo la separazione delle funzioni fra banca commerciale e banca d’affari, sancita
in Italia dalla legge bancaria del 1936. Quest’ultima si ispirava al
Glass-Steagall Act del 1933, che aveva riformato il sistema bancario
statunitense smantellando i meccanismi che avevano fomentato la
speculazione borsistica prima della crisi del 1929. Oggi numerosi
commentatori (ad esempio, Stiglitz, 2012) attribuiscono all’abrogazione
del Glass-Stegall Act una responsabilità diretta nella crisi finanziaria
statunitense, e nei paesi anglosassoni è animato il dibattito sul
cosiddetto ring fencing (separazione delle funzioni)[1].
3) Reintrodurre il “vincolo di portafoglio”,
cioè l’obbligo per le banche di acquistare titoli di Stato fino a una
certa quota del proprio attivo. Questa norma, introdotta nel 1973, aveva
lo scopo di contenere il costo del debito pubblico, favorendone il
collocamento. Essa venne abrogata nel 1983, “anche grazie all’incessante
pressione di Mario Monti” (Zingales, 2012). Andreatta (1991) ricorda
che il progetto complessivo di “divorzio” prevedeva la “costituzione di
un consorzio di collocamento tra banche commerciali”, ma che “i tempi
non erano maturi per affrontare questi aspetti e la Banca d’Italia
preferì procedere solo sul nuovo regolamento della sua presenza nelle
aste”. Prevalse insomma la “linea Monti”, che, come sempre, aveva
motivazioni ideali “alte” (favorire l’efficienza allocativa del
mercato), e conseguenze politiche più spicciole (orientare il conflitto
distributivo). Vedremo che la reintroduzione di un simile vincolo viene
data per scontata da tutte le proposte più sensate di smantellamento
dell’euro, sia che provengano da economisti di sinistra come Sapir
(2011b), sia da economisti espressione della comunità finanziaria come
Bootle (2012).
Riprendere il controllo della politica fiscale significa evidentemente ripudiare
gli obiettivi di pareggio di bilancio e di rientro coattivo del debito
verso soglie prive di particolare valore economico, come quelle
stabilite dal Fiscal Compact. Ciò posto, la politica fiscale dovrebbe:
1) Nel breve periodo, stimolare l’economia attraverso una politica di piccole opere volte:
a. alla riqualificazione del patrimonio pubblico (edilizia scolastica, patrimonio artistico e archeologico, ecc.);
b. alla messa in sicurezza del territorio (viabilità locale, monitoraggio e gestione del rischio idrogeologico, ecc.);
c. all’integrazione
e riqualificazione degli organici della pubblica amministrazione,
stabilizzando le posizioni precarie, normalizzando i percorsi di
carriera e le procedure di reclutamento.
Queste
misure devono avere come obiettivo complementare quello di rilanciare
l’occupazione, riportando rapidamente il tasso di disoccupazione sotto
al 6%, e riattivando il tessuto economico del paese, tramite la
valorizzazione del tessuto delle piccole e medie imprese.
2) Nel medio-lungo periodo,
finanziare e gestire misure che favoriscano la crescita sostenibile e
la competitività del paese, da orientare secondo i seguenti assi
prioritari:
a. Definire le linee di un piano energetico nazionale che affronti il tema del contenimento degli sprechi e dell’incentivazione delle energie rinnovabili, adeguando il paese alle best practices europee, con l’obiettivo minimo
di rispettare l’obiettivo definito dalla strategia europea 20-20-20
(Parlamento Europeo, 2008), rispetto alla quale l’Italia si trova in
ritardo (Deutsche Bank, 2012), e l’obiettivo strategico di ridurre la
dipendenza da fonti fossili, che vincola la crescita del paese.
b. Adeguare, anche in questa ottica, gli investimenti in istruzione e ricerca al
livello dei partner europei, portando la spesa in ricerca e sviluppo
dall’1% al 2% del Pil, riaffermando il ruolo chiave dello Stato
nell’incentivazione e nella tutela della ricerca fondamentale.
c. Recuperare il digital divide (ritardo
nell’uso delle tecnologie digitali) che separa l’Italia dagli altri
paesi industrializzati e ne penalizza la crescita, adeguando il paese ai
requisiti dell’Agenda Digitale Europea (Unione Europea, 2012c; Messora,
2011).
d. Adeguare la dotazione infrastrutturale del paese, con particolare riguardo alle reti di trasporto locale.
e. Promuovere una riforma strutturale della Pubblica Amministrazione volta
all’abbattimento dei costi della politica e della corruzione, incidendo
in particolare sulla disciplina delle società a partecipazione pubblica
(disciplina delle nomine, ripristino dei controlli di legittimità sugli
atti, ecc.), e su quella delle autonomie locali attuata con la riforma
del Titolo V della Costituzione (Barra Caracciolo, 2011).
Certo, immagino le perplessità:
queste sono solo affermazioni di principio, ma poi, le difficoltà
pratiche, le ritorsioni degli altri paesi, l’Italia è piccola, la
liretta, il mutuo di casa, l’iperinflazione... Giusto! Si tratta, in
effetti, di affermazioni di principio, che devono essere precisate nel
contenuto (ma questo è un compito politico, e questo non è un programma
elettorale), e, soprattutto, che lasciano indietro due ordini di
problemi: come gestire in pratica l’uscita (cosa succede al mutuo,
ecc.), e come guidare il paese nella fase di transizione (come contenere
l’inflazione, come comportarsi rispetto ai partner europei, ecc.). Ne
parleremo, promesso. Prima, però, sgombriamo il campo da equivoci
pericolosi.