di Stefano D'Andrea
La norma fondamentale della nostra Costituzione –a mio parere della Costituzione intera e non soltanto del gruppo di norme che disciplinano i rapporti economici– è posta dall’art. 41. Proprio quell’articolo che alcuni vorrebbero modificare.
La norma fondamentale non risiede, come si crede, nel secondo comma dell’art. 41, il quale precisa che l’iniziativa economica privata, che il primo comma dichiara libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”.
I principi espressi nel secondo comma sono evidentemente deducibili da
altre norme ed è difficile pensare che, abrogando il secondo comma
dell’art. 41 cost., nel nostro ordinamento l’iniziativa economica
potrebbe svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o sacrificando la
sicurezza, la libertà e la dignità umana. Naturalmente, resta salvo il
problema del significato delle formule vaghe –si tratta di clausole
generali– che esprimono i limiti (“utilità sociale”, “dignità umana”, ecc). Un significato che va viepiù restringendosi,
anche e soprattutto nella coscienza sociale dominante, man mano che la
logica necrofila del capitale, promossa dai mezzi di formazione
dell’opinione pubblica, da ideologie insegnate nelle università e dai
mutamenti dell’ordine giuridico, penetra nell’animo e nelle menti dei
cittadini italiani.

La norma fondamentale della nostra Costituzione è espressa nel terzo comma dell’art. 41: “La
legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali”. Con questa norma i costituenti sceglievano un modello dirigista (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. loc. cit.),
un dirigismo che deve svolgersi nel rispetto della sacrosanta tutela
costituzionale dell'iniziativa economica privata, ma pur sempre di
direzione politica dell'economia si tratta.
L’insieme
dei principi e dei valori espressi dalle altre norme del titolo (nonché
altri principi e valori che trovano fondamento in altri luoghi della
costituzione) non sono affidati al mercato, al libero incontro e scontro
delle forze e quindi di fatto e di diritto al dominio del capitale.
Sono invece realizzati mediante un programma. Il programma si esprime
mediante prese di posizione e interventi. Questa norma dice chiaramente
che l’attività economica soggiace alla decisione politica, la quale si
esprime nella legge. Lo Stato è consapevole della forza del denaro, vi
si oppone e, pur utilizzandola, la disciplina.
Ferma
la libertà d’iniziativa economica privata e fermi i limiti sanciti nel
secondo comma dell’art. 41 Cost., lo Stato, per mezzo della legge,
programmava chi produceva determinati beni e servizi; cosa si produceva e vendeva; cosa non si doveva produrre e vendere; come si produceva e vendeva.
Lo
Stato si riservava di stabilire prezzi equi per beni e servizi
essenziali (equo canone e scala mobile, per esempio). Legiferava per
realizzare i valori costituzionali e, per raggiungere l’obiettivo,
poteva prevedere monopoli pubblici, discipline vincolistiche in settori
economici di rilevanza pubblica, imporre prezzi minimi e massimi,
imporre dazi all’importazione o all’esportazione, e altri strumenti di
protezione di uno o altro settore dell’industria italiana.
Lo
Stato, desideroso di tassare le rendite e i grandi patrimoni o i grandi
centri di produzione di profitti, poteva limitare o vietare la libera
circolazione dei capitali, al fine di impedirne la fuga, in caso di
aumento dell’imposizione. La legge poteva prevedere aiuti di Stato a
tipi di industrie e attività; vietare la produzione e la
commercializzazione nel territorio dello Stato di determinati beni;
ignorare il valore della concorrenza -ignorare la concorrenza non
significa imporre in ogni settore monopoli o oligopoli, bensì,
semplicemente, non perseguire ossessivamente la concorrenza e preferire
una sana e regolata competizione (1);
condizionare l’esercizio di attività commerciali a licenze e
autorizzazioni di vario tipo a tutela di uno o altro interesse;
prevedere minimi tariffari nell’esercizio delle professioni, vietare la
pubblicità delle attività professionali; accettare una inflazione
modesta (o relativamente modesta) a tutela dell’occupazione (e quindi
dei salari); limitare il potere delle banche commerciali di creare
denaro, fissando un’alta riserva frazionaria (intorno al 25% fino alla
metà degli anni Ottanta); consentire il finanziamento, attraverso le
banche commerciali, soltanto della produzione e non del consumo (come
avveniva fino alla seconda metà degli anni Ottanta); perseguire
l’autosufficienza alimentare della nazione e pertanto tutelare in modo
assoluto l’agricoltura. Lo Stato poteva fare ed effettivamente fece gran
parte di ciò che ho indicato e molto altro. Ciò che non fece non deve
essere imputato al programma economico costituzionale; bensì alla
volontà politica che, pure nella dialettica politica del tempo, risultò
dominante.
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