L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

mercoledì 17 aprile 2013

Amato, Prodi, D'Alema non si stravolge la Costituzione impunemente!

di Stefano D'Andrea
La norma fondamentale della nostra Costituzione a mio parere della Costituzione intera e non soltanto del gruppo di norme che disciplinano i rapporti economici è posta dall’art. 41. Proprio quell’articolo che alcuni vorrebbero modificare.
La norma fondamentale non risiede, come si crede, nel secondo  comma dell’art. 41, il quale precisa che l’iniziativa economica privata, che il primo comma dichiara libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. I principi espressi nel secondo comma sono evidentemente deducibili da altre norme ed è difficile pensare che, abrogando il secondo comma dell’art. 41 cost., nel nostro ordinamento l’iniziativa economica potrebbe svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o sacrificando la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Naturalmente, resta salvo il problema del significato delle formule vaghe –si tratta di clausole generali che esprimono i limiti (“utilità sociale”, “dignità umana”, ecc). Un significato che va viepiù  restringendosi, anche e soprattutto nella coscienza sociale dominante, man mano che la logica necrofila del capitale, promossa dai mezzi di formazione dell’opinione pubblica, da ideologie insegnate nelle università e dai mutamenti dell’ordine giuridico, penetra nell’animo e nelle menti dei cittadini italiani.
La norma fondamentale della nostra Costituzione è espressa nel terzo comma dell’art. 41: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Con questa norma i costituenti sceglievano un modello dirigista (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. loc. cit.), un dirigismo che deve svolgersi nel rispetto della sacrosanta tutela costituzionale dell'iniziativa economica privata, ma pur sempre di direzione politica dell'economia si tratta.
L’insieme dei principi e dei valori espressi dalle altre norme del titolo (nonché altri principi e valori che trovano fondamento in altri luoghi della costituzione) non sono affidati al mercato, al libero incontro e scontro delle forze e quindi di fatto e di diritto al dominio del capitale. Sono invece realizzati mediante un programma. Il programma si esprime mediante prese di posizione e interventi. Questa norma dice chiaramente che l’attività economica soggiace alla decisione politica, la quale si esprime nella legge. Lo Stato è consapevole della forza del denaro, vi si oppone e, pur utilizzandola, la disciplina.
Ferma la libertà d’iniziativa economica privata e fermi i limiti sanciti nel secondo comma dell’art. 41 Cost., lo Stato, per mezzo della legge, programmava chi produceva determinati beni e servizi; cosa si produceva e vendeva; cosa non si doveva produrre e vendere; come si produceva e vendeva.
Lo Stato si riservava di stabilire prezzi equi per beni e servizi essenziali (equo canone e scala mobile, per esempio). Legiferava per realizzare i valori costituzionali e, per raggiungere l’obiettivo, poteva prevedere monopoli pubblici, discipline vincolistiche in settori economici di rilevanza pubblica, imporre prezzi minimi e massimi, imporre dazi all’importazione o all’esportazione, e altri strumenti di protezione di uno o altro settore dell’industria italiana.
Lo Stato, desideroso di tassare le rendite e i grandi patrimoni o i grandi centri di produzione di profitti, poteva limitare o vietare la libera circolazione dei capitali, al fine di impedirne la fuga, in caso di aumento dell’imposizione. La legge poteva prevedere aiuti di Stato a tipi di industrie e attività; vietare la produzione e la commercializzazione nel territorio dello Stato di determinati beni; ignorare il valore della concorrenza  -ignorare la concorrenza non significa imporre in ogni settore monopoli o oligopoli, bensì, semplicemente, non perseguire ossessivamente la concorrenza e preferire una sana e regolata competizione (1); condizionare l’esercizio di attività commerciali a licenze e autorizzazioni di vario tipo a tutela di uno o altro interesse; prevedere minimi tariffari nell’esercizio delle professioni, vietare la pubblicità delle attività professionali; accettare una inflazione modesta (o relativamente modesta) a tutela dell’occupazione (e quindi dei salari); limitare il potere delle banche commerciali di creare denaro, fissando un’alta riserva frazionaria (intorno al 25% fino alla metà degli anni Ottanta); consentire il finanziamento, attraverso le banche commerciali, soltanto della produzione e non del consumo (come avveniva fino alla seconda metà degli anni Ottanta); perseguire l’autosufficienza alimentare della nazione e pertanto tutelare in modo assoluto l’agricoltura. Lo Stato poteva fare ed effettivamente fece gran parte di ciò che ho indicato e molto altro. Ciò che non fece non deve essere imputato al programma economico costituzionale; bensì alla volontà politica che, pure nella dialettica politica del tempo, risultò dominante. 
http://www.appelloalpopolo.it/?p=5334 

lunedì 15 aprile 2013

processo della liberazione culturale è inscindibile dal processo della liberazione sociale


Quando la Tecnica batte l'Uomo

Antiper

Alcuni mesi fa la trasmissione televisiva In onda ha dedicato una serata [1] alla reintegrazione da parte della Magistratura di 19 operai FIOM nello stabilimento FIAT di Pomigliano D'Arco, una reintegrazione a cui il democratico Amministratore Delegato di FIAT, Sergio Marchionne, aveva risposto licenziandone altri 19 per rappresaglia. La trasmissione aveva richiamato nella piazza di Pomigliano i lavoratori favorevoli e quelli non favorevoli all'accordo che la FIAT aveva imposto allo stabilimento nel 2010. In studio era presente Mario Sechi, direttore del quotidiano il Tempo, poi candidato montiano trombato, per sostenere le ragioni di Marchionne e dei favorevoli, mentre Dario Fo, in collegamento, sosteneva le ragioni della FIOM e dei contrari. In piazza, a fianco dei favorevoli era schierato il sindaco di Pomigliano e a fianco dei contrari era schierato il prete di Pomigliano. In studio il conduttore di destra Nicola Porro – dipendente de Il Giornale - sosteneva i favorevoli, mentre il conduttore “di sinistra” Luca Telese - già dipendente, anch'egli, de Il Giornale - sosteneva i contrari. Una simmetria apparentemente perfetta e “politically correct”. Ma quello che è andato in scena non è stato il semplice scontro tra due diverse visioni delle questioni sindacali; quello che è andato in scena è stato lo scontro tra le ragioni dell'Uomo e le ragioni della Tecnica, per usare una terminologia galimbertiana. Da una parte, i bisogni e le richieste dei lavoratori ingiustamente licenziati e il richiamo di uno dei principali santoni della sinistra italiana al padrone “troppo poco umano” e “poco riconoscente”; dall'altra, la brutale “oggettività” delle “leggi tecniche” del mercato ed in particolare della prima tra tutte queste leggi: la legge del profitto

Umberto Galimberti afferma che con le categorie dell'umanesimo il nostro tempo non lo capiamo [2] e che tra Uomo e Tecnica è quest'ultima a vincere in quanto la Tecnica – e specialmente la tecnica dell'economia e della finanza -, che un tempo era al servizio dell'Uomo, adesso lo ha asservito e ne ha fatto un proprio funzionario. L'Uomo non è più il Soggetto della Storia; la Tecnica lo ha sostituito. Ed allora, secondo Galimberti, anche la lotta di classe è finita dal momento che l’Uomo è ormai sottomesso alla Tecnica e la Tecnica è neutra [3] dal momento che si limita a selezionare ciò che è funzionale alla sua pura logica di riproduzione.

Ma quello che Galimberti chiama il “nostro tempo” non è in realtà un “tempo”, bensì un modo di produzione: è il modo di produzione capitalistico ovvero il modo di produzione in cui vigono le leggi del capitale. La Tecnica di cui parla Galimberti diventa allora la “tecnica del capitale”, il sistema di leggi su cui è basato il funzionamento del modo di produzione capitalistico. E dunque la Tecnica non solo non è neutra (come non lo è la scienza) ma è, al contrario, “situata”, “collocata”, “di classe”... è tecnica (della riproduzione) del capitale [4], tecnica della realizzazione del massimo profitto attraverso lo sfruttamento più vantaggioso del lavoro salariato e pseudo-autonomo.Ed allora è proprio questa Tecnica, questo modo di funzionare della società capitalistica, questo modo di produrre e riprodurre la vita stessa che, favorendo la redistribuzione di ricchezza dal lavoro verso il capitale, ci offre la chiave di comprensione del presente. Perché  una cosa, almeno, non si può negare: non è cieca, la Tecnica.

Collocarsi oggi, in concreto, contro la supremazia della Tecnica deve dunque significare collocarsi contro la supremazia del capitale. Ed allora la lotta di classe non finisce - come infatti ci ricorda Warren Buffet [5] - anche se oggi una classe agisce mentre le altre  classi subiscono, imbambolate dalla retorica sulla fine delle “ideologie” che ha permesso la sopravvivenza di un'unica ideologia: l'ideologia del profitto e del denaro.Il fatto è che l'ideologia dominante - ovvero la narrazione della classe dominante - tende a rappresentare il mondo che esiste come la naturale, inevitabile e insuperabile evoluzione del mondo pregresso. In verità, tutte le classi dominanti hanno sempre proclamato la società che dirigevano come l'“ultima” società della Storia ed hanno preteso di affermare le leggi di questa società come le più consone alla “vera natura” dell'Uomo.

Non stupisce, dunque, che nasca proprio agli albori del capitalismo moderno, nel 1600, l'antropologia di Thomas Hobbes secondo il quale la condizione naturale degli uomini sarebbe quella della guerra di tutti contro tutti (“bellum omnium contra omnes” [6]). Ma questa visione metafisica, che suggerisce una “vera natura dell'uomo” de-contestualizzata storicamente e socialmente, non è affatto una condizione naturale degli uomini; è, al contrario, la condizione innaturale a cui molti di essi vengono spinti per poterli meglio soggiogare: divide et impera. Da questa condizione innaturale possiamo e vogliamo uscire, sapendo che il processo della liberazione culturale è inscindibile dal processo della liberazione sociale e che non riusciremo a levarci di dosso i sedimenti del mondo in cui viviamo senza riuscire a schiudere la strada verso il mondo in cui vogliamo vivere.Le leggi dell'economia capitalistica sono un vincolo dal quale è impossibile prescindere fintanto che viviamo in una società capitalistica; sono un vincolo che si applica tanto al lavoratore che le subisce quanto al capitalista che ne usufruisce. Ma è appunto la diversa ricaduta di tali leggi che dimostra la loro non neutralità. Come può, infatti, essere “neutrale” una legge che permette ad alcuni di curarsi, istruirsi, divertirsi mentre costringe miliardi di altri a morire letteralmente di fame, guerre, malattie?

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Note

[1] La7, In Onda, FIAT e politica: un paese allo sbando, 2 novembre 2012, http://www.la7.tv/richplayer/index.html?assetid=50288493

[2] Umberto Galimberti, L'uomo nell'età della tecnica, Festival della filosofia 2006, Instabilità, http://www.youtube.com/watch?v=4SI-APxVeUg&feature=relmfu  (@ 2'25')

[3] Dice, ad esempio, che la Tecnica supera anche il capitalismo perché ha perso ogni passione umana come è, ad esempio, quella per il profitto. E' completamente dis-umanizzata ed in questo senso l'“Età della Tecnica” diviene incomprensibile se partiamo dall'Uomo.

[4] Antiper, La tecnica del capitale, dicembre 2011. http://www.areaglobale.org/index.php/it/attualita/58-tecnica-capitale

[5] Paul B. Farrell, Rich Class fighting 99%, winning big-time, Market Watch, The Wall Street Journal, 1 novembre 2011: "Yes, “there is class warfare, all right,” declared Warren Buffett. “But it’s my class, the rich class, that’s making war, and we’re winning”.

[6] http://it.wikipedia.org/wiki/Bellum_omnium_contra_omnes 
 http://www.sinistrainrete.info/filosofia/2696-antiper-quando-la-tecnica-batte-luomo.html