Recuperare la sovranità nazionale
Per salvare l’Italia dall’eurodisastro
di Spartaco Alfredo Puttini

A
metà degli anni Settanta l’imperialismo attraversava una crisi
profonda, dovendo fronteggiare al tempo stesso la pressione delle classi
popolari nel cuore stesso della Triade dei paesi capitalistici avanzati
e la lotta per l’emancipazione delle nazioni del Sud del mondo, di cui
rimane emblematica la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti.
Nel breve volgere di qualche anno, a partire dal cuore
dall’Anglo-America, cuore del sistema imperialistico, vengono adottate
una serie di politiche, definite neoliberiste, che mirano a lanciare una
controrivoluzione globale. La libera circolazione dei capitali, che
attraversando le frontiere possono cercare di soddisfare la loro
insaziabile sete di miglior remunerazione possibile, e la deregolazione
dell’economia, con la fine dell’intervento pubblico e il taglio del
welfare, mirano a recuperare il terreno concesso al proletariato e alle
classi popolari nel corso del decennio passato e mettono nel mirino le
stesse conquiste democratiche. Sull’altro fronte della lotta di classe
internazionale si mira a legare i paesi del Sud del mondo al cappio
dell’indebitamento strutturale per svuotarne la sovranità a colpi di
ricette “consigliate” dai propri tentacoli: FMI e Banca mondiale.
Dagli anni ’80 in poi l’adozione di quell’insieme di politiche delinea
quello che viene comunemente chiamato “Washington Consensus”.
Il Washington Consensus è il volto che assume il rilancio del
tentativo di egemonia statunitense dal punto di maggior crisi in cui si
era cacciato a seguito della sonora disfatta in Vietnam, sconfitta alla
quale si erano affiancati altri eventi inquietanti per gli Usa: le
rivoluzioni dilaganti in tutta l’Africa australe; la crescente capacità
di proiezione della propria forza militare da parte dell’Unione
Sovietica (di cui era prova proprio l’impegno a sostegno della lotta di
liberazione angolana); lo stesso pericolo che diversi paesi
dell’Occidente europeo sfuggissero al pieno controllo dell’imperialismo
americano a causa dell’evoluzione dei rapporti di forza nella loro
politica interna (è il caso del Portogallo, della Francia e della stessa
Italia).
Offrendo altissimi tassi d’interesse e ricorrendo massicciamente
all’indebitamento, potendo contare sul fatto di possedere la moneta di
scambio dei traffici internazionali, gli Usa raggranellano i capitali
necessari, dando impulso alla massiccia esplosione del processo di
finanziarizzazione capitalistico, e con tali risorse cercano di dare la
“spallata” all’URSS.
La crisi statunitense viene momentaneamente superata grazie al disarmo
unilaterale voluto da Gorbaciov e dalla dissoluzione dell’antemurale
sovietico. Per due decenni il mondo balla al ritmo del neoliberismo
anglo-americano, contrabbandato e comunemente accettato anche dalle
socialdemocrazie come l’unica musica possibile.
Questa storia è fin troppo nota. Nota dovrebbe ormai essere anche la
cronaca che parla del fallimento di quel modello che avviene sotto i
nostri occhi. L’assunzione (aperta o subdola) dei dogmi del pensiero
unico rende però forse non del tutto banale chiarire alcuni aspetti
della crisi sistemica che stiamo attraversando.
Il liberismo e il suo cavallo di Troia
Anche l’Italia ha adottato, nell’entusiasmo dei liquidatori della
sinistra, il mix micidiale delle ricette neoliberiste: deregulation;
indipendenza della banca centrale (con conseguente rialzo dei tassi
d’interessi e di esplosione, per questa via, del debito pubblico);
privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico; abbandono di
qualsiasi idea di programmazione e di politica industriale in virtù del
principio del laissez-faire; riduzione del welfare; adozione di
una politica fiscale non progressiva, che grava maggiormente sui ceti
medio-bassi che sulle oligarchie e conseguente trasferimento di
ricchezza dal monte salari alle rendite, in virtù della credenza della
mano invisibile che successivamente avrebbe ridistribuito le ricchezze
(come no…).
Sono queste le politiche seguite dai governi italiani negli ultimi 20
anni (1992-2013) che siano stati tecnici, apertamente di destra o di
“centrosinistra”, con la sinistra a rimorchio.
Il fatto che spesso l’adozione di simili politiche sia stato
giustificato con il vincolante bisogno di imprimere un’accelerazione al
processo di integrazione europea e il fatto che, nel corso degli ultimi
anni, le politiche di austerità siano state sostanzialmente imposte
dalla Bce e da Bruxelles ha fatto sì che una quota crescente
dell’opinione pubblica prendesse coscienza della natura della Unione
europea. Ma il legame tra liberismo e processo di integrazione europeo
non è stato pienamente compreso dall’opinione pubblica italiana, spesso
nemmeno a sinistra.
La costruzione di questa Unione europea, dell’Europa di Maastricht, ha
rappresentato, come ha sottolineato un noto esponente della sinistra
transalpina1, il
cavallo di Troia dentro al quale stava in agguato l’omologazione al
Washington Consensus e alla sua filosofia liberista. La costruzione
dell’Unione europea non ha rappresentato così quella peculiare casa a
forte connotazione sociale distinta dai regimi liberali anglosassoni che
i sogni terzaforzisti di alcuni esponenti politici avevano vagheggiato,
dai trattati di Roma (1957) in avanti, ma ha implicato il suo
contrario: l’adozione del modello neoliberista anglosassone e
l’americanizzazione delle nostre società. Con conseguente svuotamento
delle promesse progressive presenti nella nostra Costituzione e
riduzione della democrazia al collasso. All’interno di questo processo, è
sempre più evidente il ruolo svolto dal grande capitale monopolistico
tedesco, tendente a riconquistare un ruolo egemone in Europa
trasformando i suoi partner in semicolonie. Dallo SME (Sistema Monetario
Europeo) alla moneta unica di fatto gli altri paesi (dalla Francia
all’Italia) sono progressivamente entrati nell’orbita
economica-commerciale tedesca agganciando le loro valute al marco.
Il processo di costruzione di un’Europa unita, che i suoi cantori
declamavano necessario per lasciarsi alle spalle gli egoismi degli Stati
nazionali, archiviati frettolosamente come arcaici, e costruire insieme
un roseo avvenire di pace e prosperità continentale, ha di fatto
scatenato proprio i demoni che si intendeva esorcizzare. Dimenticando
che il mondo è composto da comunità di popoli e dando per decrepita la
sovranità le sinistre (convertite o smarrite) hanno gettato l’arma di
cui disponevano i popoli per resistere all’imperialismo. Quanto alla
pace, si è dimenticato facilmente come essa non sia stata regalata
all’Europa dal processo di integrazione ma dall’equilibrio del terrore
tra due superpotenze termonucleari che hanno ridotto il nostro
subcontinente ai margini della scena. Caduto il muro si sono contati i
primi morti nella tragedia jugoslava, frettolosamente rimossa dalla
memoria da parte degli spacciatori dei premi Nobel per la pace. Della
prosperità non resta nemmeno la prospettiva.
Si fa presto a dire sinistra…
Per fare accettare questa ondata reazionaria e neocoloniale si è fatto e
si continua a fare vasto sfoggio di nobili ideali: gli Stati Uniti
d’Europa, il sogno di Spinelli, etc…
Gli ideali di una casa comune europea vengono così impunemente
prostituiti. Non so che cosa potrebbe mai pensare Spinelli degli attuali
esiti del processo di integrazione europeo, ma so che il suo sogno si è
trasformato in un incubo per gli italiani di oggi. L’idea di costruire
gli Stati Uniti d’Europa, del resto, non teneva nel debito conto che le
nazioni europee avevano alle spalle secoli di costruzione della propria
identità, che i popoli europei hanno lingue differenti, che gli stati
europei, dalla Germania, alla Francia, all’Italia, fino alla piccola
Olanda, sono dotati di una sorta di “personalità storica” che fa sì che
essi non possano in alcun caso essere paragonati al North Dakota,
all’Oregon o al Kentucky. Il processo di integrazione europeo ha
aggiunto a tali palesi sottovalutazioni anche la negazione delle
diversità economiche e la cancellazione della ineludibile realtà dello
stato nazionale come ambito dell’esercizio della sovranità e della
democrazia. Non so come la prenderebbe Spinelli, so dove lo stiamo
prendendo noi. Come sosteneva in tempi non sospetti Didier Motchane, gli
Stati Uniti d’Europa finiscono per essere l’Europa degli Stati Uniti.
Disgraziatamente vi è ancora ampia parte della così detta “sinistra”
che, pure nel disastroso contesto attuale, continua a crogiolarsi nella
pia illusione di poter tenere questa Europa e la sua moneta unica,
frutto del neoliberismo, ma di avviare politiche economiche
anticicliche, o comunque non neoliberiste. Così, ad esempio, Fassina si
premura a contrapporre agli attuali governi europei a guida
conservatrice l’esempio, non proprio luminoso, di Jacques Delors2,
cioè del socialista francese cui va il merito di aver mandato in coma
la sinistra transalpina schiacciando, in nome dell’europeismo, la
socialdemocrazia di quel paese sui paradigmi neoliberisti. Oppure vi è
chi, in Italia, più impegnato a elaborare espressione poetiche, anziché
risolvere problemi, è pronto ad entrare nel carrozzone del partito
socialista europeo in pieno coma da sbornia liberal-americanista. Ma,
evidentemente, si fa presto a dire sinistra.
In Italia il centrosinistra ha fatto propria la bandiera
dell’integrazione in questa Europa sostenendo che l’integrazione ci
avrebbe trasformato in un paese “normale”. Nel linguaggio comune “destra
europea” e “sinistra europea” sono divenute etichette con cui
presentare prodotti politici affidabili, moderni, pienamente integrati
nell’universo dei valori (e degli interessi) liberali.
Con un consenso autistico tanto le forze della destra europea quanto le
sinistre socialdemocratiche e simili hanno accettato e spesso utilizzato
il processo di integrazione europeo come l’alibi e l’ariete per portare
avanti l’assalto reazionario contro le conquiste democratiche e sociali
realizzate nella seconda parte del Novecento all’ombra della sovranità
nazionale. E’ stato così anche in Italia. Emblematica la parabola
politica di Romano Prodi. Il fatto che anche le forze di sinistra lo
abbiano appoggiato, lasciandosi sopraffare da elementi di giudizio
legati alle particolarità assunte dalla politica italiana a causa dello
sdoganamento della destra operato dal 1994 in poi e perdendo di vista le
dinamiche fondamentali, ne spiega adesso in buona parte la crisi.
Il problema non è dunque, come poteva apparire a noi italiani,
terrorizzati dalla sovversione mediatica della destra liberale (non
populista!), una questione di alternativa di governo ma, più
complessivamente, una questione di alternativa di politiche di governo.
Non basta, quantomeno non più, avere dei governi che si dicono
progressisti anziché conservatori ma occorre invertire a “U” la nostra
pazza corsa allo sfascio promuovendo politiche che sulle questioni
strategiche (politica estera, macroeconomia, politica sociale, difesa)
siano assolutamente diverse da quelle seguite e proposte sino ad ora e
tali da portarci fuori dalle secche e da dare agli italiani un futuro
(che non sia l’emigrazione in Germania).
Corsa al ribasso
Perché il problema è nel manico. Nel manico di questa Unione europea e del suo frutto più maturo e avvelenato: l’euro.
Ad aprire gli occhi su tale problema è stato recentemente l’ex leader
socialdemocratico tedesco Oskar Lafontaine, che ruppe con l’Spd
all’epoca del cancellierato di Schröder e delle riforme antisociali da
questi volute: il pacchetto Hartz e l’Agenda 2010. Lafontaine ha
successivamente promosso la fusione tra la sinistra socialdemocratica e
la Pds dell’ex DDR per dar vita alla Linke.
Recentemente ha preso chiaramente posizione contro l’euro. Le sue
argomentazioni colgono il centro del bersaglio grosso, come ha rilevato
anche l’economista francese Jacques Sapir.
Lafontaine, che pure era stato un entusiasta sostenitore della moneta
unica e resta ancora favorevole al processo di integrazione europeo,
rileva come non sia più possibile ingaggiare una battaglia contro le
politiche d’austerità e il neoliberismo senza chiamare in causa
l’attuale unione monetaria.
Tale unione, agganciando i PIGS e la Francia alla Germania con un cambio
fisso, impedisce a questi paesi di difendersi dalla concorrenza tedesca
svalutando.
Siccome la politica tedesca in questi ultimi decenni ha scientemente
mirato ad abbassare il costo del lavoro con le riforme Hartz e con
l’adozione dell’Agenda 2000 (all’epoca della cancelleria SPD-Verdi) in
un contesto in cui la Bundesbank punta a tenere un tasso d’inflazione
addirittura più basso del 2% previsto dagli accordi comunitari, si
vengono a creare squilibri strutturali tra la Germania, in surplus, e i
PIGS e la Francia, in deficit. Tali squilibri dovrebbero, teoricamente,
essere sanzionati a livello europeo perché la normativa vigente esorta
espressamente a conseguire politiche che evitino l’accumularsi di
surplus o deficit strutturali, i quali potrebbero avere effetti
deflagranti per l’intero processo d’integrazione. La Germania però non
intende discostarsi di una virgola dalla strada mercantilista sin qui
seguita, la quale in sostanza consiste nell’arricchirsi impoverendo i
suoi vicini.
Il grande capitale monopolistico tedesco dopo l’annessione della DDR ha
potuto contare su un enorme esercito industriale di riserva con cui
esercitare una forte pressione contro i lavoratori tedeschi. Con il
cancellierato di Schröder ha implementato le riforme di precarizzazione
contrattuale e deflazione salariale. Così facendo ha fatto dumping
salariale, innescando una gara al ribasso del tenore di vita delle
classi lavoratrici in tutta l’Eurozona.
Gli altri partner europei, non potendo attuare svalutazione valutarie,
sono stati indotti a ricorrere alle svalutazioni interne, cioè a
rincorrere la Germania nella corsa al ribasso dei salari. Ciò può essere
fatto, come in Germania, colpendo il potere contrattuale dei lavoratori
grazie all’introduzione del precariato, dei mini-job, e allargando
tramite disoccupazione e sottoccupazione l’esercito industriale di
riserva. E’ la strada sulla quale si sono incamminati i governi che
hanno accettato i diktat di Bruxelles. Ma è una strada senza uscita.
Perché porta all’erosione del mercato interno e quindi a una caduta
della domanda, ad un collasso del Pil e ad un avvitamento recessivo che
peggiora la crisi anziché risolverla. Del resto non ha alcun senso
pensare che, all’interno dello stesso ovile tutti possano fare i galli e
nessuno debba fare la gallina, cioè non può funzionare una comunità
nella quale tutti sono esportatori. Chi importerebbe, considerato che a
livello internazionale nessuna vera “spugna” è all’orizzonte?
Trappola per topi
Ovviamente a queste politiche c’era e c’è un’alternativa. Ma la
borghesia italiana ha preferito cogliere il destro per ottenere margini
di guadagno dalla deflazione salariale e dal maggior potere contrattuale
accumulato nei confronti dei lavoratori grazie alla precarizzazione
massiccia.
Salvo poi lamentarsi delle conseguenze: il crollo della domanda interna
che impalla l’economia nel gorgo della crisi e le difficoltà crescenti a
causa della politica condotta dai concorrenti tedeschi.
In questo frangente la borghesia italiana rivela la sua intrinseca e
storica fragilità. Una frazione di compradores è pronta a saltare sul
carro tedesco, a rimorchio, per ritagliarsi una nicchia nel IV Reich.
Altri settori, esposti alla crisi, quando non alla proletarizzazione,
(parte delle PMI) iniziano ad avvedersi delle conseguenze del processo
di integrazione europea, senza tuttavia cogliere la crisi nella propria
dimensione piena.
Vi è certamente una tendenza, in queste componenti, ad utilizzare l’euro
come una sorta di parafulmine, per sfuggire alle proprie stesse
responsabilità e per non fare i conti con i dogmi accettati. L’uscita
dalla moneta unica se non accompagnata dall’abbandono delle politiche
economiche liberali seguite in questi 20-30 anni non risolverebbe il
problema della crisi totale in cui si dibatte il nostro paese.
Ciò non toglie che il processo reazionario che stiamo subendo abbia
effettivamente nella Ue e nell’euro un suo significativo ingranaggio. E’
questo un dato reale che non può essere ignorato o derubricato con
superficialità.
L’eurocrisi dimostra in modo chiaro il nesso, inscindibile, che corre
tra le dinamiche proprie della lotta di classe e la questione nazionale,
a partire dalla necessaria difesa della sovranità nazionale e del suo
recupero, anche in ambito monetario. Se c’è un terreno di battaglia
politica dal quale concretamente può ripartire una sinistra patriottica e
di classe oggi è proprio questo.
Il sasso nello stagno
Lafontaine ha colto il meccanismo che tramite l’euro alimenta le
politiche liberiste ed antipopolari. Per questo ha scorto l’unica
alternativa praticabile nell’abbandono della moneta unica e nel ritorno
alle monete nazionali. Questa non è ancora la posizione della Linke,
dove in molti continuano a sostenere la tesi un po’ usurata del no
all’austerità ma sì all’euro, non cogliendo evidentemente il nesso che
si è stabilito tra i due fattori. Non vogliamo entrare nel merito del
dibattito politico che si svolge all’interno della sinistra tedesca, ma è
oggettivamente sconsolante vedere che alcuni esponenti della Pds
dell’ex DDR restino ancorati al dogma dell’euro. Caso emblematico (in
tutti i sensi) ci pare quello del gorbacioviano Gysi, che da par suo non
si dimostra reticente nel manifestare le proprie preoccupazioni sulla
fine che farebbe la politica orientata all’export, che ha impugnato il
capitalismo monopolistico tedesco dal giorno successivo all’Anschluss
della DDR, nel caso in cui si desse seguito ai suggerimenti di
Lafontaine.
Così, come non ha senso cercare compatibilità all’interno della logica
imposta dalla politica dei tagli, ma ha senso contrastare alla radice la
logica liberista che vuole vedere nella spesa pubblica un problema e
non uno strumento, allo stesso modo non ha più senso (se mai lo ha
avuto) costringersi in compatibilità impossibili da gestire, cercando
una politica europea diversa ma all’interno dei paletti fin qui piazzati
dai liberisti (tra questi paletti c’è l’euro).
La lettura data da alcuni esponenti pseudo-laburisti come Fassina circa
una Ue costruita su basi liberiste da contrastare e una moneta unica che
rappresenta l’unica scelta coraggiosa e positiva per l’integrazione
europea3 non sta, con tutta evidenza, in piedi.
Uscire dall’eurodisastro
C’è dunque poco da meravigliarsi nella convergenza trovata tra Pd e Pdl
prima nell’appoggio a Monti e poi in quello a Letta. Per acrobazie
intellettualoidi molto più azzardate si è ricorso in passato alla
formula delle “affinità elettive”. Un po’ la sindrome che affligge i
parenti che non si sopportano perché si somigliano.
Eppure, tempo fa, la coscienza del problema c’era. Erano stati proprio
coloro che avevano rifiutato l’integrazione negativa nel sistema
implicita nella svolta della Bolognina a impostare per tempo una
campagna politica contro i trattati di Maastricht, per un’altra Europa.
Ora occorre prendere coscienza del fatto che questa Ue non è riformabile
e che per uscire dall’eurodisastro e rigettare le politiche liberiste e
d’austerità vada recuperata la sovranità nazionale, anche in ambito
monetario.
Non è possibile, appunto, sostenere una lotta contro le misure di
austerità e non prendere chiaramente posizione contro la trappola
costituita dall’unione monetaria e dai meccanismi perversi che questa ha
innescato in un’area valutaria dove sin dall’inizio erano rilevabili
ampie divergenze.
Lafontaine ha messo il dito nella piaga quando ha sostenuto il legame
che corre tra euro, tentativo tedesco di egemonia, e regresso
reazionario delle condizioni di vita nei paesi periferici e
semiperiferici dell’eurozona:
“I
tedeschi non hanno ancora capito che i paesi europei del sud, tra cui
la Francia, saranno costretti dall'impoverimento economico, presto o
tardi, a rispondere all'egemonia tedesca. Essi sono particolarmente
sotto pressione a causa del dumping salariale praticato dalla Germania
in violazione dei trattati europei sin dall'inizio dell'unione
monetaria.
[…]
Oggi il sistema è fuori controllo. Come Hans-Werner Sinn ha scritto di
recente in “Handelsblatt”, paesi come la Grecia, il Portogallo e la
Spagna devono tagliare i costi [del lavoro] di circa il 20-30% rispetto
alla media dell'Unione europea per raggiungere un livello
approssimativamente equilibrato di competitività e la Germania dovrebbe
aumentar[e i salari] di circa il 20%. Tuttavia gli ultimi anni hanno
dimostrato che una tale politica non ha alcuna possibilità di essere
attuata. Un aumento dei salari, necessario nel caso della Germania, non è
possibile con le organizzazioni dei datori di lavoro e il blocco dei
partiti neoliberisti, formato da CDU / CSU, SPD, i liberali e i Verdi,
che non fanno che seguirli. Una diminuzione dei salari, che significa
una perdita di reddito nell'Europa meridionale, e anche in Francia, dal
20 al 30%, porterà al disastro, come vediamo già in Spagna, Grecia e
Portogallo.
Se i riaggiustamenti reali al rialzo o al ribasso non sono possibili in
questo modo, diviene necessario abbandonare la moneta unica e tornare a
un sistema che renda possibili le svalutazioni e le rivalutazioni, come
avveniva con il predecessore della moneta unica, il sistema monetario
europeo (SME). Si tratta fondamentalmente di rendere di nuovo possibili
delle svalutazioni e rivalutazioni attraverso un sistema di cambi
controllati dall’Unione europea. A tal fine, dei rigorosi controlli
[alla circolazione] dei capitali sarebbero la prima misura inevitabile,
per tenere sotto controllo i movimenti di capitali. Dopo tutto, l'Europa
ha già attuato questa prima misura a Cipro”4.
Alla ricerca della sovranità perduta
L’ultimo rilievo relativo a Cipro riveste grande importanza. Divenendo
sempre più acuta la crisi ed essendo soffocante il sistema di potere
creato per soggiogare popoli e nazioni nella spirale di un indebitamento
predatorio, il ritorno alla sovranità anche in ambito monetario andrà
necessariamente accompagnato all’adozione di controlli che impediscano
la libera circolazione dei capitali (come succedeva prima dell’ondata
neoliberista degli anni Ottanta). Tale opzione viene scartata dal
sistema mediatico come “irrealistica” e “impossibile” da attuare
nell’era digitale, dove con un clic si possono potenzialmente spostare
cifre astronomiche. Il recente caso di Cipro dimostra invece che il
controllo dei capitali è possibile. E’ stata la stessa Bce a dimostrarlo
quando ha stretto virtualmente d’assedio le banche dell’isola ribelle.
Dunque l’adozione di misure per uscire dalla crisi e chiudere la
parentesi della reazione liberale è, almeno teoricamente, a portata di
mano. Basterebbe essere coscienti dei problemi da affrontare e,
soprattutto, avere la volontà di risolverli.
E’ ora evidente anche ai ciechi che alle forze di centrosinistra manca
sia la lucidità che la volontà. Ragion per cui esse restano legate, mani
e piedi, al carretto della reazione. Disgraziatamente vaste masse
popolari mostrano ancora fiducia in queste forze ma, al punto cui siamo
giunti, alimentare queste speranze da parte della sinistra patriottica e
di classe sarebbe solo controproducente. Il velo di Maya è comunque
destinato a cadere. E’ il momento della proposta, della battaglia.
La battaglia per il recupero della sovranità nazionale è il terreno del
contendere oggi. Per invertire la tendenza reazionaria iniziata con la
“reaganomics” 30 anni fa occorre frenare la “libera” circolazione dei
capitali, riportare la banca centrale sotto il controllo della mano
pubblica ed adottare tutte le altre misure che si riterranno necessarie
guardando all’interesse collettivo della comunità nazionale (che è, in
sostanza, quello delle classi popolari e degli altri segmenti di società
che possono essere composti in un blocco sociale attorno al
proletariato) e non quello delle oligarchie finanziarie transnazionali e
della borghesia compradora ad esse legata.
Rigettare questa costruzione europea rappresenta necessariamente il
primo passo. L’euro, che è il punto più alto e conseguente nella
costruzione di questo Moloch reazionario, è un ostacolo concreto, come
appare sempre più evidente a tanti economisti progressisti europei dal
francese Jaques Sapir, al portoghese Amaral5,
all’italiano Alberto Bagnai (autore nel merito di un trattato
estremamente fruibile ed acuto che vale indubbiamente la pena di leggere
dal titolo Il Tramonto dell’euro).
Molti partiti comunisti e operai della Ue hanno già assunto una postura
di difesa della sovranità nazionale contro l’Unione europea (come il Pcp
in Portogallo, ad esempio). Recentemente a Lisbona si è tenuto un
vertice dei partiti della Sinistra europea (Izquierda Unida, Partito
comunista portoghese, PCF e Akel) sul tema “Un’altra Europa, dei
lavoratori, dei popoli”. A tale vertice è stato espresso il chiaro
“rifiuto delle imposizioni sovranazionali che ledono il diritto di ogni
popolo a decidere le politiche (economiche e altre) che siano a loro più
utili”; il rifiuto del progetto di un’Europa federale e la difesa del
principio dell’uguaglianza tra gli Stati e del diritto di veto degli
Stati membri; “l’affermazione dello Stato come struttura determinante e
di riferimento dell’economia”, etc…6
Con l’uscita di Lafontaine il quadro sembra finalmente poter allargarsi
anche a parte della sinistra tedesca. C’è da augurarsi che, per una
volta, la classe operaia tedesca non si lasci intruppare nella difesa
degli interessi del proprio padronato ma sappia cogliere la connessione
tra i propri interessi e quelli dei fratelli che sono posti oltre le sue
frontiere.
E’ parimenti auspicabile che nel giro dei prossimi mesi la sinistra di
classe, a partire dal piccolo e più cosciente nucleo di essa, prenda
anche in Italia, finalmente, una posizione patriottica conseguente in
linea con quella adottata nel vertice di Lisbona, ponendo fine alle
ambiguità che ancora permangono e sostenendo la necessità di chiudere
l’esperienza della moneta unica e di questo processo di integrazione
europea. Di conseguenza, attuando le iniziative politiche ritenute più
consone.
Alla costruzione di un’Europa dei popoli e delle patrie si potrà pensare
in seguito, quando si sarà ripartiti. Ma senza popoli e patrie nessun
altra Europa sarà possibile.
_______________________________
NOTE
1 J.-P. Chevènement, La France est-elle finie?; Parigi, Fayard 2011
2 S. Fassina, Il lavoro prima di tutto: l’economia, la sinistra, i diritti; Roma, Donizelli 2012
3 Così il responsabile economico del Pd parla dell’euro nel suo libro: Il lavoro prima di tutto, op. cit.
4 Lo scritto di Lafontaine è riportato in francese sul blog di Jacques
Sapir ed è accompagnato da alcuni suoi interessanti commenti:
http://russeurope.hypotheses.org/1198 Una traduzione italiana è
disponibile su “Voci dall’estero”:
http://vocidallestero.blogspot.it/2013/05/euro-un-cambiamento-significativo.html
5 João Ferreira do Amaral ha scritto Porque devemos sair do Euro, del
quale recentemente ha parlato anche Evans-Pritchard sul “Telegraph”, il
suo articolo è disponibile in italiano:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11909
6 J. Ferreira, Per un’altra Europa; in: http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-europa/22326-per-unaltra-europa.html