L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 14 giugno 2013

Onestà intellettuale contro il progetto di omologazione

Elisabetta Teghil: Dittatura costituzionale

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Dittatura costituzionale

di Elisabetta Teghil

“..Tutti i controlli compiuti da Nsa sono stati effettuati
nel rispetto della Costituzione..”

Barack Obama

Gli USA e i Paesi dell’Europa occidentale hanno indicato la via. La lotta contro il comunismo è cosa superata. Non si può impegnare tutta una società tecnologicamente avanzata nella lotta al comunismo con il rischio che la figura del comunista, nobile e disinteressato, magari alla Che Guevara, sia seducente.

La religione dello Stato ha coniato una nuova figura su cui far leva per eccitare e scatenare gli istinti di difesa e di aggressività.

Quella del terrorista.

Questo è il nemico pubblico contro cui agire, legiferare e serrare i ranghi.

Il terrorista è il male per eccellenza, contagioso, contro il quale ogni essere normale deve sentire l’esigenza di lottare per la difesa, non solo materiale, ma ideale, della comunità.

E’ la lotta del bene contro il male. E il bene non può essere ovviamente che l’esistente ordinato, il migliore dei mondi possibili nella stagione della fine della storia, con il fascino di un teorema immutabile.

Quanto di meglio c’è nella società coincide con la sottomissione consensuale alle scelte e agli interessi dell’ordine costituito.

L’autovalorizzazione del capitale, il suo stato attuale, coincide con l’individuazione del nemico interno ed esterno per sconfiggerlo.

E’ il trionfo della dittatura costituzionale

L’invasione dello Stato nella sfera privata deve essere assoluta per costringerci a parlare con il suo linguaggio, con le sue idee, con la sua voce.

L’assetto autoritario dell’iper-borghesia si manifesta in modo, non certo indolore, in tutti i momenti in cui si articola la politica nell’ambito economico, sociale ed istituzionale.

Questa stagione è caratterizzata dal principio che sono colpevoli tutti/e coloro che non possono dimostrare di non esserlo. Tutti/e coloro che non dimostrano la loro lealtà e fedeltà allo Stato collaborando e contribuendo ad indicare i colpevoli e a provarne la colpevolezza, non sono innocenti.

E’ il passaggio dal reato specifico al reato presunto, dal reato materiale al reato residuale ed esteso. Il passaggio dalla criminalizzazione de facto a quella de iure, dalla repressione dei singoli individui alla criminalizzazione politica e storica dei/delle rivoluzionari/e, dei/delle conflittuali, dei/delle dissidenti, dei movimenti di liberazione.

In altri termini non si tratta di una misura congiunturale, né di una misura puramente repressiva, bensì di una scelta programmatica di natura strategica a largo spettro che investe tutto il sociale.

I controlli non riguardano gli oppositori, ma tutto e tutti, compresi quelli/e che una volta si definivano la casalinga “casa e chiesa”e l’uomo “lavoro e stadio”. Ma questo livello non è casuale, bensì la sublimazione dell’ideologia neoliberista, il livello, a senso unico da parte di chi il potere ce l’ha, dello scontro di classe.

Questo processo è compiuto e nessuno può illudersi di fermarlo con le barricate del diritto, della legalità, della Costituzione che, intanto, esistono in quanto sono sincronizzate e incorporate nella materia vivente del dominio dello Stato del capitale e dell’iper-borghesia.

Per eliminare la lotta antagonista il capitale ha deciso che occorre legiferare, incarcerare, deridere, delegittimare, tappare la bocca a chiunque esca fuori dal coro.

Ed è arrivato al punto che la ribellione al pensiero unico non è neppure necessario che sia praticata, è sufficiente pensarla e scriverne il desiderio. Da qui l’invasivo e onnicomprensivo controllo sociale.

Per questo serve canonizzare il comportamento e le scelte personali, teorizzare che i blocchi stradali, i picchetti, le manifestazioni di piazza spontanee, gli scioperi, le disubbidienze civili , ogni forma di conflittualità individuale e collettiva non sono altro che terrorismo.

Questa società riposa su una concezione dell’essere umano che è quella di un individuo mediocre, docile e conformista, produttore efficiente e consumatore onnivoro e, naturalmente, sulla diseguaglianza e l’ esclusione. La sua azione si esercita, necessariamente, attraverso il controllo a tutto campo di tutti i momenti della vita: telefonate, internet, carte di credito, luoghi di aggregazione, locali pubblici e ambienti privati. Un’invasione totale.

Intanto si accumulano i dati e poi ci si riserva di utilizzarli all’occorrenza. E vero che gli Stati Uniti sono all’avanguardia anche in questo campo, ma non sottovalutiamo i livelli di controllo che ci sono in Italia. Certo, gli USA, essendo la potenza mondiale per antonomasia si permettono di portare la guerra in tutti i Paesi e di sperimentare le ultime tecnologie con la Cyberwar.

Contemporaneamente, secondo un copione già visto e sperimentato nel passato con l’URSS, gli USA enfatizzano le forze degli avversari, oggi materializzati nei BRICS e in particolare nella Cina, per potersi lamentare e presentarsi come vittime, in modo che l’opinione pubblica si schieri dalla loro parte.

A questo scopo servono le prefiche della non violenza, le vestali della legalità, i bonzi della triplice, i dirigenti dei partitini della così detta “sinistra radicale” e, soprattutto, del PD. Ma, generosamente, si offrono intellettuali e professori universitari che devono dare una parvenza culturale a questo progetto. Non si facciano illusioni, possono anche essere elevati, qualcuno, al rango di consigliere della corona, ma non saranno cooptati nell’iper-borghesia, lì si entra per nascita o matrimonio. Questo, comunque, per i più bravi/e e fortunati/e, agli altri sarà riservato il ruolo di piazzisti dell’ideologia neoliberista. E non si diano tante arie, un funzionario dei Servizi conta più di tutti loro messi insieme.

Data questa logica progettuale, per il neoliberismo si tratta di eliminare tutti gli scogli, tutti gli “anormali” e gli “asociali”, maniera elegante per dire che si tratta di affossare la questione sociale nei paesi a capitalismo avanzato e l’aspirazione all’effettiva indipendenza nei paesi del terzo mondo.

Questo,oggi, si traduce nella messa sotto accusa di tutta la società antagonista, nella distruzione di ogni autonomia, nell’estirpazione della lotta sociale e di classe, presupposto per l’avvento di un’epoca normalizzata e subalterna priva di zone d’ombra eversive, illuminata in ogni ora del giorno e della notte da un controllo rigoroso e inflessibile.

Per fare ciò, la borghesia imperialista, priva di scrupoli com’è, si impegna con tutte le sue forze chiamando a raccolta tutte le realtà colluse per gettare nell’apatia, nella paura e nell’odio intestino, milioni di oppressi/e e i popoli del terzo mondo, passando attraverso una società dove le tensioni siano sublimate nella lotta al terrorismo, nella denuncia, nella delazione o dissipate nel suicidio o nel qualunquismo.

Da questo bassorilievo emerge una struttura sociale in cui politici e poliziotti, think tank e ong, intellettuali e militari, guerre umanitarie e rivoluzioni colorate si scambiano ruoli e divise.

Cosa possiamo fare in un frangente come questo? Cominciare a praticare una virtù che molti/e, troppi/e hanno dimenticato, l’onestà intellettuale, esercitare in prima persona il rifiuto del controllo e della norma sulle nostre vite, sottrarsi ai valori di questa società che pretende di strutturarci sul carrierismo, sulla promozione individuale, sulla meritocrazia, sull’ossequio all’autorità, sull’impianto patriarcale, rigettare i suoi codici, i suoi segni e i suoi linguaggi, nella consapevolezza che questo nostro percorso di liberazione è parte del percorso di liberazione degli oppressi tutti/e.

Creare supporti simbolici e semantici dove esercitare la sensibilità, l’emozione, la passione finalizzate ad una interpretazione altra del mondo, della vita, della morte al fine di costruire una rappresentazione il più possibile coerente del tempo e dello spazio in cui viviamo contro la società della piramide sociale, della pulizia etnica, della segregazione, della discriminazione, del razzismo e del sessismo. Rovesciare questo impianto, aprirci alla lotta di classe con la capacità che differenzia i rivoluzionari dai riformisti di vivere il presente con la forza di quello che sarà.
http://www.sinistrainrete.info/politica/2855-elisabetta-teghil-dittatura-costituzionale.html 

giovedì 13 giugno 2013

Fronte Unico contro il colonianismo del mercantilismo tedesco

Spartaco A.Puttini: Recuperare la sovranità nazionale

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Recuperare la sovranità nazionale

Per salvare l’Italia dall’eurodisastro

di Spartaco Alfredo Puttini

A metà degli anni Settanta l’imperialismo attraversava una crisi profonda, dovendo fronteggiare al tempo stesso la pressione delle classi popolari nel cuore stesso della Triade dei paesi capitalistici avanzati e la lotta per l’emancipazione delle nazioni del Sud del mondo, di cui rimane emblematica la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti.

Nel breve volgere di qualche anno, a partire dal cuore dall’Anglo-America, cuore del sistema imperialistico, vengono adottate una serie di politiche, definite neoliberiste, che mirano a lanciare una controrivoluzione globale. La libera circolazione dei capitali, che attraversando le frontiere possono cercare di soddisfare la loro insaziabile sete di miglior remunerazione possibile, e la deregolazione dell’economia, con la fine dell’intervento pubblico e il taglio del welfare, mirano a recuperare il terreno concesso al proletariato e alle classi popolari nel corso del decennio passato e mettono nel mirino le stesse conquiste democratiche. Sull’altro fronte della lotta di classe internazionale si mira a legare i paesi del Sud del mondo al cappio dell’indebitamento strutturale per svuotarne la sovranità a colpi di ricette “consigliate” dai propri tentacoli: FMI e Banca mondiale.

Dagli anni ’80 in poi l’adozione di quell’insieme di politiche delinea quello che viene comunemente chiamato “Washington Consensus”. Il Washington Consensus è il volto che assume il rilancio del tentativo di egemonia statunitense dal punto di maggior crisi in cui si era cacciato a seguito della sonora disfatta in Vietnam, sconfitta alla quale si erano affiancati altri eventi inquietanti per gli Usa: le rivoluzioni dilaganti in tutta l’Africa australe; la crescente capacità di proiezione della propria forza militare da parte dell’Unione Sovietica (di cui era prova proprio l’impegno a sostegno della lotta di liberazione angolana); lo stesso pericolo che diversi paesi dell’Occidente europeo sfuggissero al pieno controllo dell’imperialismo americano a causa dell’evoluzione dei rapporti di forza nella loro politica interna (è il caso del Portogallo, della Francia e della stessa Italia).

Offrendo altissimi tassi d’interesse e ricorrendo massicciamente all’indebitamento, potendo contare sul fatto di possedere la moneta di scambio dei traffici internazionali, gli Usa raggranellano i capitali necessari, dando impulso alla massiccia esplosione del processo di finanziarizzazione capitalistico, e con tali risorse cercano di dare la “spallata” all’URSS.

La crisi statunitense viene momentaneamente superata grazie al disarmo unilaterale voluto da Gorbaciov e dalla dissoluzione dell’antemurale sovietico. Per due decenni il mondo balla al ritmo del neoliberismo anglo-americano, contrabbandato e comunemente accettato anche dalle socialdemocrazie come l’unica musica possibile.

Questa storia è fin troppo nota. Nota dovrebbe ormai essere anche la cronaca che parla del fallimento di quel modello che avviene sotto i nostri occhi. L’assunzione (aperta o subdola) dei dogmi del pensiero unico rende però forse non del tutto banale chiarire alcuni aspetti della crisi sistemica che stiamo attraversando.

Il liberismo e il suo cavallo di Troia


Anche l’Italia ha adottato, nell’entusiasmo dei liquidatori della sinistra, il mix micidiale delle ricette neoliberiste: deregulation; indipendenza della banca centrale (con conseguente rialzo dei tassi d’interessi e di esplosione, per questa via, del debito pubblico); privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico; abbandono di qualsiasi idea di programmazione e di politica industriale in virtù del principio del laissez-faire; riduzione del welfare; adozione di una politica fiscale non progressiva, che grava maggiormente sui ceti medio-bassi che sulle oligarchie e conseguente trasferimento di ricchezza dal monte salari alle rendite, in virtù della credenza della mano invisibile che successivamente avrebbe ridistribuito le ricchezze (come no…).

Sono queste le politiche seguite dai governi italiani negli ultimi 20 anni (1992-2013) che siano stati tecnici, apertamente di destra o di “centrosinistra”, con la sinistra a rimorchio.

Il fatto che spesso l’adozione di simili politiche sia stato giustificato con il vincolante bisogno di imprimere un’accelerazione al processo di integrazione europea e il fatto che, nel corso degli ultimi anni, le politiche di austerità siano state sostanzialmente imposte dalla Bce e da Bruxelles ha fatto sì che una quota crescente dell’opinione pubblica prendesse coscienza della natura della Unione europea. Ma il legame tra liberismo e processo di integrazione europeo non è stato pienamente compreso dall’opinione pubblica italiana, spesso nemmeno a sinistra.

La costruzione di questa Unione europea, dell’Europa di Maastricht, ha rappresentato, come ha sottolineato un noto esponente della sinistra transalpina1, il cavallo di Troia dentro al quale stava in agguato l’omologazione al Washington Consensus e alla sua filosofia liberista. La costruzione dell’Unione europea non ha rappresentato così quella peculiare casa a forte connotazione sociale distinta dai regimi liberali anglosassoni che i sogni terzaforzisti di alcuni esponenti politici avevano vagheggiato, dai trattati di Roma (1957) in avanti, ma ha implicato il suo contrario: l’adozione del modello neoliberista anglosassone e l’americanizzazione delle nostre società. Con conseguente svuotamento delle promesse progressive presenti nella nostra Costituzione e riduzione della democrazia al collasso. All’interno di questo processo, è sempre più evidente il ruolo svolto dal grande capitale monopolistico tedesco, tendente a riconquistare un ruolo egemone in Europa trasformando i suoi partner in semicolonie. Dallo SME (Sistema Monetario Europeo) alla moneta unica di fatto gli altri paesi (dalla Francia all’Italia) sono progressivamente entrati nell’orbita economica-commerciale tedesca agganciando le loro valute al marco.

Il processo di costruzione di un’Europa unita, che i suoi cantori declamavano necessario per lasciarsi alle spalle gli egoismi degli Stati nazionali, archiviati frettolosamente come arcaici, e costruire insieme un roseo avvenire di pace e prosperità continentale, ha di fatto scatenato proprio i demoni che si intendeva esorcizzare. Dimenticando che il mondo è composto da comunità di popoli e dando per decrepita la sovranità le sinistre (convertite o smarrite) hanno gettato l’arma di cui disponevano i popoli per resistere all’imperialismo. Quanto alla pace, si è dimenticato facilmente come essa non sia stata regalata all’Europa dal processo di integrazione ma dall’equilibrio del terrore tra due superpotenze termonucleari che hanno ridotto il nostro subcontinente ai margini della scena. Caduto il muro si sono contati i primi morti nella tragedia jugoslava, frettolosamente rimossa dalla memoria da parte degli spacciatori dei premi Nobel per la pace. Della prosperità non resta nemmeno la prospettiva.

Si fa presto a dire sinistra…


Per fare accettare questa ondata reazionaria e neocoloniale si è fatto e si continua a fare vasto sfoggio di nobili ideali: gli Stati Uniti d’Europa, il sogno di Spinelli, etc…

Gli ideali di una casa comune europea vengono così impunemente prostituiti. Non so che cosa potrebbe mai pensare Spinelli degli attuali esiti del processo di integrazione europeo, ma so che il suo sogno si è trasformato in un incubo per gli italiani di oggi. L’idea di costruire gli Stati Uniti d’Europa, del resto, non teneva nel debito conto che le nazioni europee avevano alle spalle secoli di costruzione della propria identità, che i popoli europei hanno lingue differenti, che gli stati europei, dalla Germania, alla Francia, all’Italia, fino alla piccola Olanda, sono dotati di una sorta di “personalità storica” che fa sì che essi non possano in alcun caso essere paragonati al North Dakota, all’Oregon o al Kentucky. Il processo di integrazione europeo ha aggiunto a tali palesi sottovalutazioni anche la negazione delle diversità economiche e la cancellazione della ineludibile realtà dello stato nazionale come ambito dell’esercizio della sovranità e della democrazia. Non so come la prenderebbe Spinelli, so dove lo stiamo prendendo noi. Come sosteneva in tempi non sospetti Didier Motchane, gli Stati Uniti d’Europa finiscono per essere l’Europa degli Stati Uniti.

Disgraziatamente vi è ancora ampia parte della così detta “sinistra” che, pure nel disastroso contesto attuale, continua a crogiolarsi nella pia illusione di poter tenere questa Europa e la sua moneta unica, frutto del neoliberismo, ma di avviare politiche economiche anticicliche, o comunque non neoliberiste. Così, ad esempio, Fassina si premura a contrapporre agli attuali governi europei a guida conservatrice l’esempio, non proprio luminoso, di Jacques Delors2, cioè del socialista francese cui va il merito di aver mandato in coma la sinistra transalpina schiacciando, in nome dell’europeismo, la socialdemocrazia di quel paese sui paradigmi neoliberisti. Oppure vi è chi, in Italia, più impegnato a elaborare espressione poetiche, anziché risolvere problemi, è pronto ad entrare nel carrozzone del partito socialista europeo in pieno coma da sbornia liberal-americanista. Ma, evidentemente, si fa presto a dire sinistra.

In Italia il centrosinistra ha fatto propria la bandiera dell’integrazione in questa Europa sostenendo che l’integrazione ci avrebbe trasformato in un paese “normale”. Nel linguaggio comune “destra europea” e “sinistra europea” sono divenute etichette con cui presentare prodotti politici affidabili, moderni, pienamente integrati nell’universo dei valori (e degli interessi) liberali.

Con un consenso autistico tanto le forze della destra europea quanto le sinistre socialdemocratiche e simili hanno accettato e spesso utilizzato il processo di integrazione europeo come l’alibi e l’ariete per portare avanti l’assalto reazionario contro le conquiste democratiche e sociali realizzate nella seconda parte del Novecento all’ombra della sovranità nazionale. E’ stato così anche in Italia. Emblematica la parabola politica di Romano Prodi. Il fatto che anche le forze di sinistra lo abbiano appoggiato, lasciandosi sopraffare da elementi di giudizio legati alle particolarità assunte dalla politica italiana a causa dello sdoganamento della destra operato dal 1994 in poi e perdendo di vista le dinamiche fondamentali, ne spiega adesso in buona parte la crisi.

Il problema non è dunque, come poteva apparire a noi italiani, terrorizzati dalla sovversione mediatica della destra liberale (non populista!), una questione di alternativa di governo ma, più complessivamente, una questione di alternativa di politiche di governo. Non basta, quantomeno non più, avere dei governi che si dicono progressisti anziché conservatori ma occorre invertire a “U” la nostra pazza corsa allo sfascio promuovendo politiche che sulle questioni strategiche (politica estera, macroeconomia, politica sociale, difesa) siano assolutamente diverse da quelle seguite e proposte sino ad ora e tali da portarci fuori dalle secche e da dare agli italiani un futuro (che non sia l’emigrazione in Germania).

Corsa al ribasso


Perché il problema è nel manico. Nel manico di questa Unione europea e del suo frutto più maturo e avvelenato: l’euro.

Ad aprire gli occhi su tale problema è stato recentemente l’ex leader socialdemocratico tedesco Oskar Lafontaine, che ruppe con l’Spd all’epoca del cancellierato di Schröder e delle riforme antisociali da questi volute: il pacchetto Hartz e l’Agenda 2010. Lafontaine ha successivamente promosso la fusione tra la sinistra socialdemocratica e la Pds dell’ex DDR per dar vita alla Linke.

Recentemente ha preso chiaramente posizione contro l’euro. Le sue argomentazioni colgono il centro del bersaglio grosso, come ha rilevato anche l’economista francese Jacques Sapir.

Lafontaine, che pure era stato un entusiasta sostenitore della moneta unica e resta ancora favorevole al processo di integrazione europeo, rileva come non sia più possibile ingaggiare una battaglia contro le politiche d’austerità e il neoliberismo senza chiamare in causa l’attuale unione monetaria.

Tale unione, agganciando i PIGS e la Francia alla Germania con un cambio fisso, impedisce a questi paesi di difendersi dalla concorrenza tedesca svalutando.

Siccome la politica tedesca in questi ultimi decenni ha scientemente mirato ad abbassare il costo del lavoro con le riforme Hartz e con l’adozione dell’Agenda 2000 (all’epoca della cancelleria SPD-Verdi) in un contesto in cui la Bundesbank punta a tenere un tasso d’inflazione addirittura più basso del 2% previsto dagli accordi comunitari, si vengono a creare squilibri strutturali tra la Germania, in surplus, e i PIGS e la Francia, in deficit. Tali squilibri dovrebbero, teoricamente, essere sanzionati a livello europeo perché la normativa vigente esorta espressamente a conseguire politiche che evitino l’accumularsi di surplus o deficit strutturali, i quali potrebbero avere effetti deflagranti per l’intero processo d’integrazione. La Germania però non intende discostarsi di una virgola dalla strada mercantilista sin qui seguita, la quale in sostanza consiste nell’arricchirsi impoverendo i suoi vicini.

Il grande capitale monopolistico tedesco dopo l’annessione della DDR ha potuto contare su un enorme esercito industriale di riserva con cui esercitare una forte pressione contro i lavoratori tedeschi. Con il cancellierato di Schröder ha implementato le riforme di precarizzazione contrattuale e deflazione salariale. Così facendo ha fatto dumping salariale, innescando una gara al ribasso del tenore di vita delle classi lavoratrici in tutta l’Eurozona.

Gli altri partner europei, non potendo attuare svalutazione valutarie, sono stati indotti a ricorrere alle svalutazioni interne, cioè a rincorrere la Germania nella corsa al ribasso dei salari. Ciò può essere fatto, come in Germania, colpendo il potere contrattuale dei lavoratori grazie all’introduzione del precariato, dei mini-job, e allargando tramite disoccupazione e sottoccupazione l’esercito industriale di riserva. E’ la strada sulla quale si sono incamminati i governi che hanno accettato i diktat di Bruxelles. Ma è una strada senza uscita. Perché porta all’erosione del mercato interno e quindi a una caduta della domanda, ad un collasso del Pil e ad un avvitamento recessivo che peggiora la crisi anziché risolverla. Del resto non ha alcun senso pensare che, all’interno dello stesso ovile tutti possano fare i galli e nessuno debba fare la gallina, cioè non può funzionare una comunità nella quale tutti sono esportatori. Chi importerebbe, considerato che a livello internazionale nessuna vera “spugna” è all’orizzonte?

Trappola per topi


Ovviamente a queste politiche c’era e c’è un’alternativa. Ma la borghesia italiana ha preferito cogliere il destro per ottenere margini di guadagno dalla deflazione salariale e dal maggior potere contrattuale accumulato nei confronti dei lavoratori grazie alla precarizzazione massiccia.

Salvo poi lamentarsi delle conseguenze: il crollo della domanda interna che impalla l’economia nel gorgo della crisi e le difficoltà crescenti a causa della politica condotta dai concorrenti tedeschi.

In questo frangente la borghesia italiana rivela la sua intrinseca e storica fragilità. Una frazione di compradores è pronta a saltare sul carro tedesco, a rimorchio, per ritagliarsi una nicchia nel IV Reich. Altri settori, esposti alla crisi, quando non alla proletarizzazione, (parte delle PMI) iniziano ad avvedersi delle conseguenze del processo di integrazione europea, senza tuttavia cogliere la crisi nella propria dimensione piena.

Vi è certamente una tendenza, in queste componenti, ad utilizzare l’euro come una sorta di parafulmine, per sfuggire alle proprie stesse responsabilità e per non fare i conti con i dogmi accettati. L’uscita dalla moneta unica se non accompagnata dall’abbandono delle politiche economiche liberali seguite in questi 20-30 anni non risolverebbe il problema della crisi totale in cui si dibatte il nostro paese.

Ciò non toglie che il processo reazionario che stiamo subendo abbia effettivamente nella Ue e nell’euro un suo significativo ingranaggio. E’ questo un dato reale che non può essere ignorato o derubricato con superficialità.

L’eurocrisi dimostra in modo chiaro il nesso, inscindibile, che corre tra le dinamiche proprie della lotta di classe e la questione nazionale, a partire dalla necessaria difesa della sovranità nazionale e del suo recupero, anche in ambito monetario. Se c’è un terreno di battaglia politica dal quale concretamente può ripartire una sinistra patriottica e di classe oggi è proprio questo.

Il sasso nello stagno


Lafontaine ha colto il meccanismo che tramite l’euro alimenta le politiche liberiste ed antipopolari. Per questo ha scorto l’unica alternativa praticabile nell’abbandono della moneta unica e nel ritorno alle monete nazionali. Questa non è ancora la posizione della Linke, dove in molti continuano a sostenere la tesi un po’ usurata del no all’austerità ma sì all’euro, non cogliendo evidentemente il nesso che si è stabilito tra i due fattori. Non vogliamo entrare nel merito del dibattito politico che si svolge all’interno della sinistra tedesca, ma è oggettivamente sconsolante vedere che alcuni esponenti della Pds dell’ex DDR restino ancorati al dogma dell’euro. Caso emblematico (in tutti i sensi) ci pare quello del gorbacioviano Gysi, che da par suo non si dimostra reticente nel manifestare le proprie preoccupazioni sulla fine che farebbe la politica orientata all’export, che ha impugnato il capitalismo monopolistico tedesco dal giorno successivo all’Anschluss della DDR, nel caso in cui si desse seguito ai suggerimenti di Lafontaine.

Così, come non ha senso cercare compatibilità all’interno della logica imposta dalla politica dei tagli, ma ha senso contrastare alla radice la logica liberista che vuole vedere nella spesa pubblica un problema e non uno strumento, allo stesso modo non ha più senso (se mai lo ha avuto) costringersi in compatibilità impossibili da gestire, cercando una politica europea diversa ma all’interno dei paletti fin qui piazzati dai liberisti (tra questi paletti c’è l’euro).

La lettura data da alcuni esponenti pseudo-laburisti come Fassina circa una Ue costruita su basi liberiste da contrastare e una moneta unica che rappresenta l’unica scelta coraggiosa e positiva per l’integrazione europea3 non sta, con tutta evidenza, in piedi.

Uscire dall’eurodisastro

C’è dunque poco da meravigliarsi nella convergenza trovata tra Pd e Pdl prima nell’appoggio a Monti e poi in quello a Letta. Per acrobazie intellettualoidi molto più azzardate si è ricorso in passato alla formula delle “affinità elettive”. Un po’ la sindrome che affligge i parenti che non si sopportano perché si somigliano.

Eppure, tempo fa, la coscienza del problema c’era. Erano stati proprio coloro che avevano rifiutato l’integrazione negativa nel sistema implicita nella svolta della Bolognina a impostare per tempo una campagna politica contro i trattati di Maastricht, per un’altra Europa. Ora occorre prendere coscienza del fatto che questa Ue non è riformabile e che per uscire dall’eurodisastro e rigettare le politiche liberiste e d’austerità vada recuperata la sovranità nazionale, anche in ambito monetario.

Non è possibile, appunto, sostenere una lotta contro le misure di austerità e non prendere chiaramente posizione contro la trappola costituita dall’unione monetaria e dai meccanismi perversi che questa ha innescato in un’area valutaria dove sin dall’inizio erano rilevabili ampie divergenze.

Lafontaine ha messo il dito nella piaga quando ha sostenuto il legame che corre tra euro, tentativo tedesco di egemonia, e regresso reazionario delle condizioni di vita nei paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona:

“I tedeschi non hanno ancora capito che i paesi europei del sud, tra cui la Francia, saranno costretti dall'impoverimento economico, presto o tardi, a rispondere all'egemonia tedesca. Essi sono particolarmente sotto pressione a causa del dumping salariale praticato dalla Germania in violazione dei trattati europei sin dall'inizio dell'unione monetaria.

[…]

Oggi il sistema è fuori controllo. Come Hans-Werner Sinn ha scritto di recente in “Handelsblatt”, paesi come la Grecia, il Portogallo e la Spagna devono tagliare i costi [del lavoro] di circa il 20-30% rispetto alla media dell'Unione europea per raggiungere un livello approssimativamente equilibrato di competitività e la Germania dovrebbe aumentar[e i salari] di circa il 20%. Tuttavia gli ultimi anni hanno dimostrato che una tale politica non ha alcuna possibilità di essere attuata. Un aumento dei salari, necessario nel caso della Germania, non è possibile con le organizzazioni dei datori di lavoro e il blocco dei partiti neoliberisti, formato da CDU / CSU, SPD, i liberali e i Verdi, che non fanno che seguirli. Una diminuzione dei salari, che significa una perdita di reddito nell'Europa meridionale, e anche in Francia, dal 20 al 30%, porterà al disastro, come vediamo già in Spagna, Grecia e Portogallo.

Se i riaggiustamenti reali al rialzo o al ribasso non sono possibili in questo modo, diviene necessario abbandonare la moneta unica e tornare a un sistema che renda possibili le svalutazioni e le rivalutazioni, come avveniva con il predecessore della moneta unica, il sistema monetario europeo (SME). Si tratta fondamentalmente di rendere di nuovo possibili delle svalutazioni e rivalutazioni attraverso un sistema di cambi controllati dall’Unione europea. A tal fine, dei rigorosi controlli [alla circolazione] dei capitali sarebbero la prima misura inevitabile, per tenere sotto controllo i movimenti di capitali. Dopo tutto, l'Europa ha già attuato questa prima misura a Cipro”
4.

Alla ricerca della sovranità perduta

L’ultimo rilievo relativo a Cipro riveste grande importanza. Divenendo sempre più acuta la crisi ed essendo soffocante il sistema di potere creato per soggiogare popoli e nazioni nella spirale di un indebitamento predatorio, il ritorno alla sovranità anche in ambito monetario andrà necessariamente accompagnato all’adozione di controlli che impediscano la libera circolazione dei capitali (come succedeva prima dell’ondata neoliberista degli anni Ottanta). Tale opzione viene scartata dal sistema mediatico come “irrealistica” e “impossibile” da attuare nell’era digitale, dove con un clic si possono potenzialmente spostare cifre astronomiche. Il recente caso di Cipro dimostra invece che il controllo dei capitali è possibile. E’ stata la stessa Bce a dimostrarlo quando ha stretto virtualmente d’assedio le banche dell’isola ribelle.

Dunque l’adozione di misure per uscire dalla crisi e chiudere la parentesi della reazione liberale è, almeno teoricamente, a portata di mano. Basterebbe essere coscienti dei problemi da affrontare e, soprattutto, avere la volontà di risolverli.

E’ ora evidente anche ai ciechi che alle forze di centrosinistra manca sia la lucidità che la volontà. Ragion per cui esse restano legate, mani e piedi, al carretto della reazione. Disgraziatamente vaste masse popolari mostrano ancora fiducia in queste forze ma, al punto cui siamo giunti, alimentare queste speranze da parte della sinistra patriottica e di classe sarebbe solo controproducente. Il velo di Maya è comunque destinato a cadere. E’ il momento della proposta, della battaglia.

La battaglia per il recupero della sovranità nazionale è il terreno del contendere oggi. Per invertire la tendenza reazionaria iniziata con la “reaganomics” 30 anni fa occorre frenare la “libera” circolazione dei capitali, riportare la banca centrale sotto il controllo della mano pubblica ed adottare tutte le altre misure che si riterranno necessarie guardando all’interesse collettivo della comunità nazionale (che è, in sostanza, quello delle classi popolari e degli altri segmenti di società che possono essere composti in un blocco sociale attorno al proletariato) e non quello delle oligarchie finanziarie transnazionali e della borghesia compradora ad esse legata.

Rigettare questa costruzione europea rappresenta necessariamente il primo passo. L’euro, che è il punto più alto e conseguente nella costruzione di questo Moloch reazionario, è un ostacolo concreto, come appare sempre più evidente a tanti economisti progressisti europei dal francese Jaques Sapir, al portoghese Amaral5, all’italiano Alberto Bagnai (autore nel merito di un trattato estremamente fruibile ed acuto che vale indubbiamente la pena di leggere dal titolo Il Tramonto dell’euro).

Molti partiti comunisti e operai della Ue hanno già assunto una postura di difesa della sovranità nazionale contro l’Unione europea (come il Pcp in Portogallo, ad esempio). Recentemente a Lisbona si è tenuto un vertice dei partiti della Sinistra europea (Izquierda Unida, Partito comunista portoghese, PCF e Akel) sul tema “Un’altra Europa, dei lavoratori, dei popoli”. A tale vertice è stato espresso il chiaro “rifiuto delle imposizioni sovranazionali che ledono il diritto di ogni popolo a decidere le politiche (economiche e altre) che siano a loro più utili”; il rifiuto del progetto di un’Europa federale e la difesa del principio dell’uguaglianza tra gli Stati e del diritto di veto degli Stati membri; “l’affermazione dello Stato come struttura determinante e di riferimento dell’economia”, etc…6

Con l’uscita di Lafontaine il quadro sembra finalmente poter allargarsi anche a parte della sinistra tedesca. C’è da augurarsi che, per una volta, la classe operaia tedesca non si lasci intruppare nella difesa degli interessi del proprio padronato ma sappia cogliere la connessione tra i propri interessi e quelli dei fratelli che sono posti oltre le sue frontiere.

E’ parimenti auspicabile che nel giro dei prossimi mesi la sinistra di classe, a partire dal piccolo e più cosciente nucleo di essa, prenda anche in Italia, finalmente, una posizione patriottica conseguente in linea con quella adottata nel vertice di Lisbona, ponendo fine alle ambiguità che ancora permangono e sostenendo la necessità di chiudere l’esperienza della moneta unica e di questo processo di integrazione europea. Di conseguenza, attuando le iniziative politiche ritenute più consone.

Alla costruzione di un’Europa dei popoli e delle patrie si potrà pensare in seguito, quando si sarà ripartiti. Ma senza popoli e patrie nessun altra Europa sarà possibile.

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NOTE

1 J.-P. Chevènement, La France est-elle finie?; Parigi, Fayard 2011

2 S. Fassina, Il lavoro prima di tutto: l’economia, la sinistra, i diritti; Roma, Donizelli 2012

3 Così il responsabile economico del Pd parla dell’euro nel suo libro: Il lavoro prima di tutto, op. cit.

4 Lo scritto di Lafontaine è riportato in francese sul blog di Jacques Sapir ed è accompagnato da alcuni suoi interessanti commenti: http://russeurope.hypotheses.org/1198 Una traduzione italiana è disponibile su “Voci dall’estero”: http://vocidallestero.blogspot.it/2013/05/euro-un-cambiamento-significativo.html

5 João Ferreira do Amaral ha scritto Porque devemos sair do Euro, del quale recentemente ha parlato anche Evans-Pritchard sul “Telegraph”, il suo articolo è disponibile in italiano: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11909

6 J. Ferreira, Per un’altra Europa; in: http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-europa/22326-per-unaltra-europa.html
http://www.marx21.it/italia/quadro-politico/22400-recuperare-la-sovranita-nazionale-per-salvare-litalia-dalleurodisastro.html 

lunedì 10 giugno 2013

Eurocentrismo: pareggio di bilancio l'anticamera del nazismo

Christian Marazzi: L’Euro non come moneta unica ma come moneta comune

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L’Euro non come moneta unica ma come moneta comune

Christian Marazzi

Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?

Interverrò brevemente e direttamente in merito di quanto Klaus Busch ha, secondo me, realisticamente posto come problema, come dilemma, diciamo, come un rompicapo e cioè il fatto che l’euro sin dalla sua nascita è stata una costruzione monetaria, come dire, acefala. E di fatto ha funzionato come un veicolo di approfondimento delle divergenze all’interno della zona dell’euro fra paesi, diciamo, votati all’esportazione e paesi specializzati soprattutto in settori non esportabili, servizi. E che però proprio nella misura in cui ha portato alla situazione che conosciamo, rende addirittura difficile l’ipotesi di un suo superamento, di una uscita da questa moneta, da questa pseudo moneta che tanti problemi complicati sta creando e che è destinata a creare nel prossimo futuro.

Allora io sono d’accordo sulle difficoltà politiche di mobilitazione su un terreno che sia anche minimamente riformista, insomma. Le difficoltà dell’euro si ripercuotono anche sul piano interno degli stati membri e quindi anche dei movimenti. Ci sarà un passaggio, che credo sia essenziale, a maggio a Francoforte, ad una dimensione, ad un livello transnazionale che mi sembra assolutamente corretto e indispensabile, ma allo stesso tempo difficile. Questo vale anche se vogliamo ragionare, per esempio, sui punti messi a programma da Busch, e cioè una spinta in direzione della crescita. L’idea di instaurare gli eurobonds, queste obbligazioni di mutualizzazione del debito, del finanziamento del debito, le politiche di coordinamento dei salari, della spesa pubblica. Un governo comune dunque, e poi questo asse, che ora asse tanto non è, perché mi sembra che sia centrato prevalentemente sulla Germania. Poi da ultimo la regolazione dei mercati. Credo che questo però ci inviti ad essere piuttosto precisi su cosa sia l’euro e soprattutto quali siano i margini di riforma che l’euro concede o lascia anche solo intravedere. Ecco, io penso che qui si debba essere piuttosto chiari sul fatto che l’euro è la quintessenza di quello che i teorici neoclassici, i monetaristi, hanno da sempre teorizzato. Ricordo che l’euro di fatto è una specie di traduzione pratica delle teorie di Robert Mundell, scritte appunto alla fine degli anni sessanta, primi anni settanta, ed è una costruzione pratica, una traduzione pratica di una concezione della moneta per la quale la libera concorrenza, la libertà di movimento dei capitali, insomma, la dinamica dei prezzi esclude la necessità, il bisogno di una politica monetaria indipendente. Quindi da questo punto di vista c’è una coerenza, secondo me, perfetta nell’euro in quanto moneta diciamo “monetarista”, secondo i precetti e la teoria della moneta, della teoria monetaria neoclassica. Questo ha portato di fatto, in questo ultimo decennio, a pagare, a verificare tutta una serie di conseguenze di questo agire. Vorrei ricordare anche che questa concezione della moneta, per certi versi e paradossalmente, oggi scopriamo che ha pesato anche sulla sinistra. Per esempio, penso alle teorie basate sull’essenzialismo della moneta di Michel Aglietta e André Orléan, che vedevano (ma oggi si ricredono) nella moneta, nella sua centralità la possibilità tutto sommato di omogeneizzare ciò che in origine era eterogeneo, cioè di portare attraverso l’agire della moneta a superare queste divergenze su vari piani salariali, di produttività, di spese pubbliche. Ecco questo si è rivelato un approccio, una visione sbagliata. Noi sappiamo che negli ultimi dieci anni queste divergenze sono aumentate, pensate soltanto a cosa è successo ai bilanci commerciali, per esempio, dei vari stati del nord e del sud della zona euro che han visto veramente la forbice aprirsi ancora di più. Perché dico questo? Perché se vogliamo ragionare in termini di riforma dobbiamo in un certo senso prendere di petto la questione. La mia idea, la mia posizione è che questo euro non è riformabile. Non è riformabile non solo per le difficoltà politiche che appunto sono state richiamate, evocate da Klaus Busch. A parte il fatto che è una moneta che è inscritta, almeno le sue logiche sono inscritte, nella costituzione tedesca e adesso addirittura nelle varie costituzioni attraverso la questione del pareggio di bilancio. Però a parte questo aspetto che è fondamentale, una riforma di questo euro non è secondo me possibile perchè è stato concepito dal punto di vista strumentale della Germania. Io credo che sia importante tornare alle origini storiche dell’euro per vedere come l’uso tedesco dell’euro, così come l’abbiamo visto e così com’è stato costruito, era del tutto funzionale ad un certo tipo di situazione economica e sociale interna alla Germania. Guardate che è molto importante capire che c’è un legame strutturale fra le logiche dell’euro e quella che è la situazione economica e anche demografica. E’ sempre importante ricordare che la Germania è un paese vecchio, è un paese vecchio dal punto di vista demografico. Ha scelto già 14 anni fa la via di un sistema pensionistico a capitalizzazione, che non può accettare, ammettere un prelevamento del risparmio dall’esterno e che quindi esclude di fatto un trasferimento, un transfert union, l’ipotesi federalista del trasferimento di risorse e che quindi resiste duramente a qualsiasi ipotesi di politiche legate appunto alle misure di solidarietà tipiche, che esistono all’interno di ogni stato, di trasferimento di risorse dai settori o dalle regioni che tirano a quelle che invece si trovano in difficoltà. Quindi, c’è un problema serio che rende questo euro da una parte la quintessenza della moneta in termini neoclassici, ma dall’altra, allo stesso tempo una moneta che ha funzionato di fatto, fino alla crisi del 2008, per assicurare un determinato equilibrio basato sulle caratteristiche strutturali dell’economia tedesca. Quindi secondo me è per questo motivo che, per esempio, l’ipotesi degli eurobonds la scarterei in partenza, al di là di quello che si spera, cioè che questo comporterebbe una riduzione dei tassi di interesse a tutto vantaggio di coloro che oggi subiscono, che devono pagare dei tassi molto elevati. Questo non è vero, i mercati tirerebbero su i tassi d’interesse, forse un pochino meno, ma li tirerebbero o li farebbero alzare a dei livelli che sicuramente sono inaccettabili per un paese come la Germania o come l’Austria.

Quindi direi di non illudersi su queste ipotesi, che sono sì condivisibili, ma sono teoriche. I mercati non funzionano mica così, mettendo insieme le obbligazioni pubbliche di paesi diversi non ragionano in termini di media, ragionano in termini di aumento del rischio che comunque gli eurobonds non eliminerebbero. Diciamo che parlare di un’uscita dall’euro significa anche un’altra cosa, secondo me, significa probabilmente dover assumere l’ipotesi che questo euro salterà di per sé. Cioè, credo che ci stiamo avviando, di fatto, con questa scelta delle politiche di austerità, e con questa sindrome greca che si sta espandendo all’Italia, alla Spagna, al Portogallo, verso una rottura dell’euro. Poi io sostengo, so che Riccardo Bellofiore l’ha fatto già tempo fa, che comunque qui ci si avvia, e qui insisto, inevitabilmente, verso la rottura dell’euro in due zone euro. Penso in effetti che saranno gli stessi paesi del sud, Francia compresa, a chiedere alla Germania di uscire dall’euro, perché questa situazione non è sostenibile e lo sarà sempre di meno e quindi si arriverà ad uno scenario del genere. E’ semplicemente per dire che una delle difficoltà a riformare l’euro è che l’euro non sarà riformabile perché salterà prima ancora di poter essere riformato. L’ultima cosa che voglio dire è che, secondo me, i movimenti devono porsi (comunque deve affrontarla il pensiero critico) la questione di una riforma radicale del sistema monetario europeo, così come ce la siamo posta per anni per quanto riguarda il sistema monetario internazionale.

Credo per esempio che bisogna pensare non più all’euro come moneta unica ma all’euro come moneta comune. Penso che un modo sensato per porsi la questione del superamento delle contraddizioni dell’euro sia quello di pensare ad un sistema di monete, come dire, nazionali legate da tassi di cambio fissi ma aggiustabili, al quale si aggiunge la moneta comune, una sorta di bancor europeo, di eurobancor che garantisca la simmetria negli scambi e la possibilità di veicolare effettivamente il potere d’acquisto invece che di veicolare debiti non estinguibili. La butto lì questa cosa, è una cosa sulla quale economisti, studiosi del denaro, lavorano da tempo. Penso però che se vogliamo ragionare in termini di lotta contro gli effetti dell’euro dobbiamo anche porci sullo sfondo la questione della riforma del sistema monetario europeo in questa situazione. Allora, riassumo. Penso che combattere oggi all’interno del capitalismo finanziario contro il capitalismo finanziario significa combattere l’euro. Non è possibile distinguere le due cose. L’euro è una traduzione monetaria di quelle che sono le logiche, le ferree logiche del capitalismo finanziario. Lottare contro l’euro significa essere assolutamente dentro le lotte contro le misure di austerità, contro queste politiche recessive, ma allo stesso tempo significa prepararsi a scenari che sono effettivamente esplosivi. Io non sono tra quelli che considerano l’ipotesi della rottura dell’euro come un’ipotesi catastrofica. Penso che catastrofico sia restare nella situazione nella quale siamo oggi. Quindi penso che sia meglio qualsiasi cosa che non la situazione odierna, tanto è vero che una rottura dell’euro, sia intesa come due aree monetarie, sia addirittura come una concatenazione di uscite dall’euro, possa in effetti agevolare quel ritrovare di sentiero di crescita che tanti vorrebbero ma che oggi è costituzionalmente escluso, addirittura come possibilità di rilancio economico. Quindi penso che un ritorno delle politiche monetarie che favoriscano, per esempio, l’esportazione sia quello che renda questo scenario della rottura dell’euro uno scenario, come dire, migliore se vogliamo, certo migliore di quello attuale, di quello vigente. Certo è che sarà una situazione assolutamente destabilizzante.
Non sarà catastrofico ma sarà un momento di grande effervescenza, di grandi tensioni. Per questo è importante ragionare in termini di riforme del sistema monetario, nel senso di una ripresa del concetto di bancor di keynesiana memoria. Quello che io temo, e lo dico chiaramente, è un ripiegamento di tipo sovranista, di tipo nazionale, anche se non è da escludere. Quando Klaus Busch si pone il problema della rottura dell’euro, dice, e io sono perfettamente d’accordo, che il rischio è di ritornare a logiche nazionali e con la possibilità di una lotta di tutti contro tutti. Mi sembra comunque interessante quello che potrebbe succedere in Francia, dove per altro la destra e la sinistra hanno delle posizioni antieuro che sono comunque curiose, nella loro contrapposizione e complementarietà.

In un certo senso mi sento di ricordare un vecchio detto di Mario Tronti “vecchia tattica per una nuova strategia”. La destra considera il ritorno allo stato nazionale come una strategia, quindi esclude qualsiasi ipotesi di sovranismo a livello europeo. Io credo che la sinistra con disincanto deve in un certo senso assumere questo rischio come una tattica e però lavorare strategicamente sulla costruzione di una comunità europea dotata di una politica comune.

Svolgo alcune considerazioni riassuntive. Non auspico la creazione di due zone monetarie, so benissimo che questo comporterebbe dei problemi di aggiustamento e di coordinazione. Io, e qui mi trovo in una posizione strana rispetto alla mia indole, sono convinto, forse per eccesso di realismo, che stiamo andando in questa direzione e quindi il problema è di riuscire a capire in che misura, e in questo sono assolutamente d’accordo con Klaus Busch, le lotte che devono essere organizzate, le lotte che devono essere dure e di resistenza, si troveranno e già si stanno trovando confrontate con questo scenario. Questa è la prima cosa. Forse io pecco di un certo disincanto riguardo alle possibilità di riforme all’interno di questo euro, di questa moneta unica. Sono d’accordo con i cinque punti che Klaus Busch ha citato, con l’ipotesi di riforma del sistema monetario europeo. Devo dire tuttavia che non riesco assolutamente a vedere dei margini agibili all’interno di questa ipotesi di riforma. Questo è un problema che mi pongo, mi sembra che si stia ragionando in termini quasi teleologici. Sono d’accordo sulla necessità di un rilancio della spesa pubblica sociale, a partire anche da un ripensamento di quanto deve essere prodotto, come deve essere prodotto, quando deve essere prodotto. Però il problema, per come lo vedo io, è che siamo in una situazione dentro la quale siamo in un qualche modo costretti a passare attraverso una crisi feroce che è implicita nel funzionamento stesso di questo euro. Per questo mi sembra fondamentale, all’interno delle lotte, porre le questioni da una parte di una resistenza a tutto ciò che ha a che fare con le misure di austerità, una resistenza sul fronte del salario, una resistenza sul fronte del reddito nelle sue forme di reddito di base, ecc. Però allo stesso tempo sono parecchio pessimista perché non riesco a vedere fra l’altro una forza per portare effettivamente queste rivendicazioni di tipo riformista al giusto livello sul quale andrebbero poste. Mi piacerebbe che ci si muovesse in questa direzione, vedo però prima di tutto questo scenario di grande crisi dell’Europa e un ritardo preoccupante da parte del movimento operaio, ma del movimento critico in generale nell’elaborare delle pratiche di lotta, nel costruire dei fronti di lotta tali da poter in qualche modo orientare questa crisi. La mia posizione sicuramente è una posizione che esprime un disagio, forse sono troppo dentro a quella che è l’evoluzione e l’involuzione quotidiana dei mercati per vedere un esito o un percorso diverso da quello di rottura ma sta di fatto che questa impossibilità di tenere l’euro, proprio per la sua stessa architettura, mi sembra che sia la questione che dobbiamo porci per avere un approccio che sia col tempo realista ma allo stesso tempo consapevole delle difficoltà che abbiamo di fronte nella mobilitazione a livello europeo. Per quanto riguarda il pareggio di bilancio, penso che sia l’anticamera del nazismo. Questa è una battuta, ma non del tutto, perché costituzionalizzare il pareggio di bilancio significa mettersi nella condizione di non poter far fronte a delle situazioni che tra l’altro nel capitalismo finanziario alla Minksy sono assolutamente prevedibili nella loro imprevedibilità. Una crisi, o una catastrofe naturale, pone la questione della rigidità, della gabbia d’acciaio che ci costruiamo noi stessi e che rende estremamente difficile perseguire delle operazioni di reazione, di risposta contingenti a delle situazioni di crisi. È veramente un errore questa cosa, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ed è una cosa di cui vedremo le conseguenze abbastanza presto.
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/2377-christian-marazzi-leuro-non-come-moneta-unica-ma-come-moneta-comune.html