
Uno degli aspetti più sorprendenti delle discussioni sull'euro è il
ritardo o la reticenza nell'assumere la proposta politica dell'uscita da
euro e UE da parte del variegato mondo della sinistra radicale, dei
marxisti e dei comunisti. Su tratta di un tema sul quale io credo valga
la pena di spendere qualche pensiero. Si potrebbe obiettare che
occuparsi di un tale mondo, stante la sua residualità e ininfluenza, non
serve davvero a nulla. Nonostante la verità di questa osservazione,
ritengo lo stesso che le riflessioni che seguono possano essere utili.
E' evidente infatti che in Italia e in Occidente stenta moltissimo a
coagularsi un movimento di opposizione e contestazione nei confronti
della deriva distruttiva e barbarica dell'attuale “capitalismo
assoluto”. D'altra parte l'esperienza prova che un tale movimento, che
sappia dar vita ad autentiche forze politiche di opposizione, è
condizione necessaria per poter contrastare la barbarie incipiente. Ma
visto che da anni o decenni ci sono stati, in Italia e probabilmente un
po' dappertutto, i più vari tentativi in questo senso, e tutti sono
falliti, è probabile che occorra una riflessione non banale sulla natura
di questi fallimenti, per sperare di costruire qualcosa che possa
sottrarsi a questo destino.
Un esempio eclatante di un tale fallimento è proprio quello del
variegato mondo della sinistra radicale, comunista, marxista, che pure
aveva ed ha il vantaggio di una tradizione culturale di grande spessore.
Se da questo mondo continuano infatti ad arrivare analisi teoriche
generali interessanti e utili, manca completamente la capacità di
elaborare una proposta politica sensata. E manca perfino la capacità di
riconoscere una proposta politica sensata (come quella dell'uscita da
euro e UE) quando ci si imbatte in essa. Nel caso appunto dell'uscita da
euro e UE, si tratta di una situazione paradossale, perché, per i
motivi che cercheremo adesso di spiegare, essa è realmente la migliore
proposta politica che un anticapitalista possa assumere nella situazione
attuale.
Prima di provare ad argomentare quest'ultima affermazione, sono necessarie due precisazioni.
In primo luogo, parlando del mondo della sinistra radicale che non
prende una posizione chiara di uscita dall'euro non si intende negare,
ovviamente, l'esistenza di qualche realtà che invece ha preso una
posizione di questo tipo: fra questi, a mia conoscenza, ci sono i
Comunisti-Sinistra Popolare di Marco Rizzo, il
Campo Antimperialista, il
Movimento Popolare di Liberazione, la Rete dei Comunisti (che fa riferimento alla rivista
Contropiano), il gruppo che gestisce il sito
Marx XXI.
Possono ovviamente esserci altre realtà. Il punto è che quelle che ho
elencate sono in sostanza eccezioni, almeno fino ad ora, mentre la
maggioranza del mondo della sinistra radicale non sembra aver compreso
quello che ho affermato sopra, il fatto cioè che la proposta politica di
uscita da euro e UE è la migliore proposta politica che possa essere
fatta, oggi in Italia, dal punto di vista di un anticapitalismo
radicale.
In secondo luogo, l'affermazione che ho appena fatto, e che nel seguito
argomenterò, necessita di una premessa, cioè del fatto che non è
possibile oggi in Italia (e in generale nei paesi avanzati) un progetto
politico di rivoluzione, presa del potere e abbattimento del capitalismo
da parte di un proletariato rivoluzionario. Se fra i miei lettori c'è
qualcuno che non condivide questa premessa, e crede quindi che una
rivoluzione comunista sia oggi una concreta possibilità storica, lo
prego di interrompere la lettura a questo punto: si tratta di una
persona che ha una cosa molto importante da fare, appunto concretizzare
la possibilità di una rivoluzione comunista, e non sarebbe giusto che
perdesse tempo a leggere un articolo che non gli fornirà nessun aiuto
per questo importante compito. Vada a fare la rivoluzione, si abbia i
nostri migliori auguri, e quando ci sarà riuscito ci faccia sapere.
Veniamo ora a quanto sopra affermato a proposito di una concreta
politica anticapitalistica. Quali dovrebbero essere le caratteristiche
di una seria proposta politica di questo tipo, nella situazione attuale?
Come sappiamo tutti (tutti quelli che sono rimasti a leggere questo
articolo, dopo che se ne sono andati coloro che credono all'attualità
della rivoluzione), non solo non c'è oggi una concreta possibilità
rivoluzionaria, ma siamo di fronte, da decenni, ad una massiccia
offensiva dei ceti dirigenti del capitalismo mondiale, diretta alla
distruzione di tutti i diritti conquistati in precedenza dai ceti
subalterni. La classi popolari sono passate, in questi decenni, da una
sconfitta all'altra. Non mi dilungo sulla forza e pervasività delle
ideologie che sostengono l'attuale capitalismo (l'azienda come modello
sociale universale, il consumismo, la competizione), sullo sbandamento,
sulla confusione e sulle divisioni delle forze di alternativa, perché
sono cose note a tutti. In queste condizioni, è chiaro che le uniche
politiche che si possono tentare, con qualche speranza di efficacia,
sono politiche di difesa e di limitati contrattacchi, che permettano, in
caso di successo, di radunare e rinfrancare le forze di opposizione,
mostrando concretamente che, nella guerra che ci hanno scatenato contro,
è possibile almeno qualche parziale vittoria.
Se si vuole una concreta proposta politica anticapitalista, essa
dovrebbe per prima cosa tentare di contrastare i progetti dei ceti
dominanti su qualche punto qualificato: non porsi l'obiettivo della
rivoluzione, ma quello del contrasto di qualcuno degli aspetti della
situazione attuale, voluti dai ceti dominanti per meglio piegare la
società alle esigenze del capitalismo assoluto. Questo è il primo punto
qualificante di una politica di radicalità anticapitalistica. D'altra
parte, per avere qualche speranza di successo, una politica
anticapitalistica deve collegarsi alla difesa degli interessi dei ceti
subalterni. Occorre cioè non solo contrastare i disegni dei ceti
dominanti, ma farlo su questioni nelle quali siano seriamente coinvolti
gli interessi e i livelli di vita dei ceti popolari, in modo da poter
affermare con verità che la vittoria nella battaglia intrapresa può
aprire concrete possibilità di miglioramento della vita. Infine, poiché
il proletariato in quanto tale è oggi incapace di iniziativa politica e
del tutto privo di autonomia ideologica, è chiaro che una tale lotta non
potrà farla il proletariato da solo ma avrà bisogno dell'alleanza con
altre classi popolari. La battaglia cioè potrà essere vinta solo se sarà
una “battaglia di popolo” molto più che una “battaglia proletaria”.
Riassumendo, una concreta proposta politica anticapitalistica oggi deve
attaccare qualche aspetto importante della costruzione sociale dei ceti
dominanti, mostrando che in tal modo si possono difendere gli interessi
dei ceti popolari in senso lato (proletari e non).
Sembra del tutto evidente, a chi scrive, che la proposta di uscita da
euro e UE è, rispetto a questi requisiti, la migliore possibile, nella
situazione data.
In primo luogo, si tratta infatti di una proposta che contesta alcuni
degli strumenti che i ceti dominanti si sono dati, negli ultimi decenni,
per svolgere il loro attacco, la loro lotta di classe: appunto euro e
UE. Sul fatto che euro e UE rappresentino proprio questo rimando al
libro scritto con Tringali [1] e, per quanto riguarda l'euro, al libro
di Bagnai [2]. Poiché la strategia dei ceti dominanti, in questa fase,
mette al centro proprio euro e UE, è chiaro che una proposta politica di
attacco a queste realtà è qualcosa che mette in questione aspetti
importanti della realtà istituzionale costruita dai ceti dominanti per
la guerra di classe che da decenni vanno svolgendo.
In secondo luogo, si tratta di una proposta che permette di impostare
una politica di difesa degli interessi dei ceti subalterni. Non mi posso
dilungare qui sulle motivazioni di queste affermazioni, e rimando
quindi ai due libri citati e ai tanti siti in rete che si occupano di
tali questioni [3]. E' comunque ormai sempre più evidente che la
minaccia della catastrofe economica che si avrebbe al crollo dell'euro e
i conseguenti vincoli europei sono gli strumenti con cui, nei paesi
PIGS, viene efficacemente perseguita la distruzione di diritti e redditi
dei ceti subalterni, ed è altresì evidente che dentro all'euro e ai
suoi vincoli è impossibile un reale mutamento delle politiche economiche
di tali paesi. Se si vuole dunque tentare un qualsiasi tipo di politica
economica favorevole ai ceti subalterni, l'uscita dall'euro appare
condizione necessaria e preliminare. Insisto su questo punto: come
abbiamo scritto con Tringali nel libro citato, è certo che l'uscita da
euro e UE rappresenta una condizione
necessaria, preliminare ma non sufficiente
per la difesa dei ceti popolari. Su questo ritornerò nel seguito,
discutendo alcuni interventi di Emiliano Brancaccio. Il punto è che la
necessità di cui s'è detto è rigida: se si vuole colpire qualche altro
punto del fronte di attacco dei ceti dominanti, per esempio le
politiche di austerità o il Fiscal Compact, si arriva comunque al tema
dell'euro, sia perché esse vengono giustificate appunto con la necessità
di restare nell'euro, sia perché, se si rimane nell'euro, è quasi
impossibile rifiutare le politiche di austerità, perché nell'euro si è
persa ogni sovranità e ogni possibilità di scegliere la propria politica
economica. La proposta politica di uscita dall'euro permette così di
unificare le varie proteste che le attuali politiche di austerità stanno
facendo crescere, dando ad esse un obiettivo che trascende le singole
proteste, e pemette ad esse, se acquisito dai vari gruppi in lotta, un
importante salto di qualità e di coscienza.
In terzo luogo, la proposta di uscita dall'euro viene incontro agli
interessi di strati popolari più ampi del lavoro dipendente: artigiani,
piccoli imprenditori, piccoli commercianti, giovani professionisti senza
prospettive, e così via, che subiscono anch'essi in prima persona il
tracollo economico del paese conseguente alle politiche di austerità
imposte dalla permanenza nell'euro. Questo fa sì che potenzialmente si
tratti di una proposta di grande forza, di una battaglia che può
effettivamente essere vinta. E dovrebbe essere chiaro come una vittoria
in una simile battaglia cambierebbe notevolmente la situazione politica,
rinfrancando e irrobustendo le forze degli oppositori allo “stato di
cose esistente”. Una battaglia vinta, anche se non è la battaglia
finale, ha sempre un effetto positivo sui ceti subalterni, specie nella
realtà attuale nella quale tali ceti sono da decenni sottoposti al
bombardamento ideologico secondo il quale non vi è alternativa e ogni
resistenza ai poteri dominanti è illusoria.
2. Una discussione con Brancaccio.
Sono queste le ragioni per le quali sostengo che la parole d'ordine
dell'uscita dall'euro dovrebbe essere fatta propria senza esitazione
dagli ambienti della sinistra radicale (marxista e comunista o più
genericamente anticapitalista). Questa tesi può essere ulteriormente
approfondita prendendo in esame alcuni interventi recenti di Emiliano
Brancaccio (
qui e
qui),
per mostrare come, a partire da essi, che pure non assumono in maniera
esplicita la posizione dell'uscita dall'euro, si possano capire ancora
più chiaramente le ragioni a favore di tale uscita.
In questi interventi, Brancaccio discute le possibili conseguenze
dell'uscita dall'euro. Egli argomenta, sia sul piano teorico sia su
quello dell'evidenza empirica relativa ad episodi passati di
sganciamento di un paese da un regime di cambi fissi, che le conseguenze
sui salari possono essere diverse. La conseguenza che ne sembra trarre
l'autore è che, piuttosto che schierarsi per la permanenza o l'uscita
dall'euro, occorrerebbe pensare a una serie di misure che possano, in
caso di deflagrazione dell'eurozona, proteggere i ceti subalterni da
ricadute negative. In sostanza, dice Brancaccio, l'uscita dall'euro può
essere gestita in modo più favorevole ai ceti subalterni o in modo ad
essi sfavorevole, cioè “da sinistra” o “da destra”, per usare le
espressioni di Brancaccio.
Pur non credendo più all'utilità delle categorie di “destra” e
“sinistra”, non posso che concordare con ciò che dice Brancaccio. Mi
pare si possano fare due osservazioni, per sviluppare quanto fin qui
detto. La prima è che sembrerebbe possibile sostenere che, per quanto
“brutta” possa essere l'uscita dall'euro, la permanenza sia ancora più
brutta. Cioè che, se anche l'uscita dall'euro fosse gestita in modo
negativo per i ceti popolari, i costi dell'uscita, per tali ceti,
potrebbero comunque essere minori rispetto ai costi della permanenza.
Questo lo si intuisce anche dai dati che riporta Brancaccio: se davvero
la deflazione salariale necessaria per salvare l'euro è dell'ordine del
30% rispetto all'attuale livello salariale, se davvero in Grecia si è
avuto un crollo dei salari reali di diciotto punti e un crollo del
salario minimo del 44%, allora viene da pensare che perfino l'uscita “da
destra” dall'euro sia meno disastrosa, rispetto a simili esiti, per i
ceti subalterni. Insomma, per usare il linguaggio di Brancaccio, se si
può essere d'accordo sul fatto che è possibile uscire dall'euro “da
destra” oppure “da sinistra”, occorre però aggiungere che la cosa più
“di destra” di tutte è appunto rimanerci, nell'euro.
Ma l'osservazione più importante è però un'altra. Infatti, è mia
opinione che i due articoli di Brancaccio sopra citati mostrino, con
grande chiarezza, e forse al di là delle intenzioni dell'autore,
l'enorme vantaggio politico per i ceti subalterni, dell'uscita
dall'euro. Infatti, cosa fa in sostanza Brancaccio in questi articoli?
Egli esamina le conseguenze, sulle diverse classi sociali, di diverse
possibili scelte di politica economica, e suggerisce che la sinistra si
mobiliti a favore delle scelte di politica economica più favorevoli ai
ceti subalterni. Una cosa normalissima, si dirà. Certo, una cosa
normalissima, che da decenni in questo paese è impossibile fare. In
Italia da decenni non è più possibile una autentica discussione di
politica economica, perché non è più possibile decidere alcunché
sull'economia: da decenni in Italia i dati fondamentali delle politiche
economiche sono decisi altrove. La politica economica è obbligata dai
vincoli europei, prima dalla necessità di entrare “in Europa”, poi di
entrare nell'euro, poi di rimanerci. Con l'adesione ai vincoli europei e
poi all'euro il nostro Paese ha rinunciato ad avere una propria
politica economica, all'interno della quale si possano fare delle scelte
che, inevitabilmente, favoriranno alcuni e non altri. Ecco dunque
l'inestimabile vantaggio dell'uscita dall'euro: quello di riprendere in
mano la possibilità della democrazia, della decisione collettiva. Nello
scrivere gli articoli citati, Brancaccio è portato a discutere di
possibili scelte diverse di politica economica non per motivi
ideologici, perché lui è di sinistra o marxista o quant'altro, ma per
motivi strettamente logici: infatti uscire dall'euro significa
riprendere in mano alcuni strumenti della politica economica nazionale, e
nel momento in cui li riprendi in mano, è ovvio che devi porti il
problema di cosa farne. Insomma, il fatto stesso che Brancaccio, nello
scrivere gli articoli citati, sia portato inevitabilmente a discutere di
scelte diverse di politica economica, ci fa capire con tutta la
chiarezza necessaria cosa significa l'adesione ai vincoli europei e
all'euro: significa appunto la perdita della possibilità di scegliere e
quindi lo svuotamento della politica e della democrazia. E
simmetricamente ci fa capire cosa potremmo ritrovare, uscendo da euro e
UE: appunto la possibilità di scegliere, di decidere e quindi anche di
combattere. In una parola, la politica. Ecco dunque la vera natura di
euro e UE: si tratta di una espropriazione della politica e della
democrazia.
Torniamo allora al discorso iniziale. Avevamo detto che la proposta
politica di uscita da euro e UE è la migliore proposta politica
possibile, nelle condizioni date. L'esame delle tesi di Brancaccio ci fa
intuire che essa è addirittura
l'unica proposta politica
possibile, perché è l'unica proposta che riapra lo spazio alla politica.
Qualsiasi altra proposta politica, se non prevede l'uscita da euro e
UE, accetta il fatto che le fondamentali politiche economiche del paese
siano decise altrove, non dagli elettori, dal Parlamento e dal Governo
di questo paese. E allora si tratta evidentemente di proposte prive di
qualsiasi serietà, qualunque sia il radicalismo del quale si ammantano.
3. Obiezioni non convincenti
Speriamo adesso che la tesi che abbiamo esposto all'inizio sia più
chiara. Ma se quanto abbiamo fin qui sostenuto è ragionevole, si
ripropone la domanda iniziale: perché la sinistra radicale, di
ispirazione marxista e comunista, non assume con forza e decisione la
parola d'ordine dell'uscita dall'euro? Perché anzi non l'ha sostenuta
per prima?
Si tratta di una domanda rispetto alla quale non ho risposte sicure. Ne
accennerò solo alla fine di questo scritto, perché dobbiamo prima vedere
se nella posizione maggioritaria della sinistra radicale ci siano delle
ragioni valide. Potrebbero infatti esserci delle validissime ragioni
contrarie all'uscita dall'euro, che fin qui non abbiamo preso in
considerazione, a contrastare le ragioni favorevoli che ho sopra
esposto, per cui la posizione della maggioranza della sinistra radicale
sarebbe il ponderato risultato di un bilanciamento fra ragioni opposte.
Ora, non posso naturalmente conoscere tutte le possibili obiezioni
elaborate negli ambiti della sinistra radicale. Ne conosco però un certo
numero, grazie al fatto che da circa un paio d'anni sostengo in varie
occasioni le tesi che ho fin qui esposto. Cercherò di discutere nel
seguito alcune di queste obiezioni, senza indicare luoghi precisi,
perché non si tratta di polemizzare con specifiche persone o gruppi ma
di criticare uno “spirito” diffuso negli ambienti di cui stiamo
discutendo.
1.Un primo gruppo di obiezioni consiste in sostanza nel
dire che con l'uscita dell'euro non si cambiano radicalmente le
condizioni attuali. Naturalmente, dato che i nostri critici sono in
genere persone intelligenti, le obiezioni non vengono formulate in
questo modo. Ma nella sostanza a questo si riducono. Si può dire che con
l'uscita dall'euro la struttura attuale del capitalismo finanziario
rimarrebbe immutata, oppure far notare che l'uscita dall'euro non
toccherebbe l'attuale disposizione dei poteri nazionali e
internazionali, per cui l'uscita eventuale verrebbe gestita ovviamente
in modo opposto agli interessi dei ceti subalterni, e non toccherebbe
neppure la struttura del capitalismo internazionale, con la sua
gerarchia di imperialismi in competizione.
Si può iniziare a replicare a queste obiezioni con una domanda: ma se
invece si resta nell'euro, questo ci permetterebbe di incidere
sull'attuale situazione del capitalismo finanziario, sulla struttura
gerarchica degli imperialismi o sul potere dei ceti dominanti
nazionali? Quello che intendo dire è che, se si deve discutere la
validità della proposta politica di uscita dall'euro, le conseguenze
dell'uscita devono essere confrontate con le conseguenze della
permanenza nell'euro, e le obiezioni che vengono formulate contro la
proposta dell'uscita devono venire “testate” andando a vedere cosa
presumibilmente accadrebbe se invece nell'euro ci si rimane. Ora, è
evidente che dal punto di vista delle obiezioni qui esaminate, non
cambia assolutamente nulla a restare o a uscire dall'euro: esse quindi
non sono obiezioni all'uscita dall'euro.
In realtà, sono obiezioni a qualsiasi politica che sia oggi
concretamente proponibile. Esse infatti non tengono conto della realtà
di cui abbiamo parlato all'inizio. Siamo in una situazione di profonda
sconfitta, che dura da decenni. Stiamo cercando una proposta politica
che possa permettere di difendere i ceti popolari e di ottenere qualche
limitata vittoria. E' chiaro, è banalmente ovvio, che in queste
condizioni non si può pensare di cambiare la struttura del capitalismo
internazionale, e neppure di abbattere dall'oggi al domani i ceti
dominanti nazionali e internazionali. Non c'è nessuna proposta politica
concreta che possa oggi cambiare radicalmente questi dati di fatto. In
sostanza, come abbiamo detto sopra le obiezioni che abbiamo esaminato,
riducendole all'osso, si riducono a dire che con la nostra proposta non
si cambia radicalmente la situazione globale. Alla fin delle fini,
l'obiezione è che con l'uscita dall'euro non si abbatte il capitalismo.
Ma abbiamo già detto sopra cosa pensiamo di questa obiezione.
Analogo discorso si può fare per obiezioni più semplici e dirette, che
in sostanza vogliono dire la stessa cosa: come quella secondo la quale
lira ed euro sono in ogni caso strumenti del capitalismo, oppure, come
ci è stato detto in un dibattito pubblico, essendo l'euro un semplice
strumento del potere capitalistico, se si abbatte l'euro, allora il
potere capitalistico si creerà un altro strumento, e quindi non serve
combattere l'euro. Che è come dire che i soldati dell'Armata Rossa non
dovevano colpire i panzer tedeschi, perché erano solo strumenti del
nazismo e distrutto uno il nazismo ne avrebbe fabbricati altri, e che i
vietnamiti non dovevano abbattere i B52 che li stavano bombardando, per
gli stessi motivi. Non c'è bisogno, credo, di aggiungere nulla a quanto
già detto per criticare questa posizione.
2. Un secondo gruppo di obiezioni riguarda il fatto che
l'uscita dall'euro potrebbe non rappresentare una autentica difesa dei
ceti popolari. Essa potrebbe avere effetti negativi proprio sui livelli
di vita dei ceti che si vogliono difendere. Possiamo essere brevi su
questo punto perché lo abbiamo già trattato discutendo gli articoli di
Brancaccio. Ribadiamo il punto:
l'uscita dall'euro è condizione
necessaria per riprendere in mano la politica economica e quindi per
poter fare politiche economiche favorevoli ai ceti subalterni. A
questo possiamo aggiungere ancora la seguente osservazione. E' vero che
di fronte all'uscita dall'euro i meccanismi impersonali del capitalismo
potrebbero provocare controreazioni negative, e i poteri dominanti
nazionali e internazionali potrebbero reagire colpendo il nostro paese
in maniera da far pagare ai ceti subalterni il prezzo di una simile
scelta. Il punto è, come al solito, che questo vale per qualsiasi
proposta politica concreta che si possa fare nella situazione attuale.
Nessuna proposta politica concreta può ragionevolmente pensare di
abbattere il capitalismo e i suoi gruppi dominanti, nel breve e medio
periodo, e quindi qualsiasi cosa si faccia si sarà sempre esposti ai
contraccolpi “impersonali” del meccanismo capitalistico e a calcolate
ritorsioni da parte dei ceti dominanti. Vogliamo raddoppiare gli
stipendi dei lavoratori? Vogliamo investire nella scuola e
nell'assistenza sanitaria? Vogliamo bloccare i movimenti dei capitali?
Ognuna di queste proposte, e anche tutte assieme, e anche qualsiasi
altra cosa si possa proporre che non sia l'abbattimento del capitalismo,
lascia in piedi la logica capitalistica con i suoi vincoli, e lascia ai
poteri dominanti la possibilità di ritorsioni: cosicché c'è sempre la
possibilità che vengano annullati i vantaggi per i ceti subalterni che
si potevano sperare da esse.
Altre obiezioni le abbiamo discusse nel libro con Tringali, sopra
citato, e quindi non riprenderò le nostre argomentazioni ma mi limiterò
ad enunciarle (mettendo fra parentesi, in pillole, le nostre risposte):
abbiamo bisogno di stare nell'UE per non perdere peso geopolitico (è
invece proprio restandoci che stiamo perdendo sia peso economico sia
peso politico), la tesi dell'uscita dall'euro è venuta originariamente
dalle destre (vero o falso che sia, la cosa non ha ovviamente nessuna
importanza), con la proposta di uscita dall'euro si vuole tornare alle
svalutazioni competitive (quando invece la proposta serve a difendere il
nostro paese dalla svalutazione competitiva che ha operato la Germania
grazie all'euro), non bisogna uscire da euro/UE ma bisogna cambiarli
(impossibile in mancanza di un soggetto sociale alternativo capace di
azione a livello europeo).
4. Conclusioni
Le obiezioni alla proposta di uscita dall'euro, che circolano negli
ambienti della sinistra radicale, ci sembrano in generale poco
convincenti. Almeno quelle a noi note.
Eccoci allora tornati al problema iniziale: perché la proposta
dell'uscita dall'euro non può essere accettata? E proprio da coloro che
dovrebbero esserne i sostenitori più convinti? Perché i marxisti non
dicono “usciamo dall'euro”? Come ho detto sopra, non ho risposte
precise. Credo si tratti del manifestarsi di alcuni difetti di fondo del
mondo della sinistra marxista e comunista, difetti che sono all'origine
della sua attuale irrilevanza. Da una parte vi sono quei piccoli
partitini che hanno come unica prospettiva politica quella dell'allenza
col centrosinistra, e quindi non possono semplicemente accettare
l'uscita dall'euro come una possibile proposta politica. Dall'altra vi è
l'infinitesimale mondo della sinistra ancora più a sinistra
(bordighisti, trotskisti e così via), per la quale il discorso è diverso
rispetto ai precedenti, ed è probabilmente legato ad una radicale
incapacità di fare politica, e quindi anche solo di pensare a qualcosa
che possa assomigliare ad una proposta politica concreta, reale, capace
di incidere sul serio nella realtà.
E' mia convinzione che una qualsiasi forza di autentica alternativa
debba avere presenti questi limiti della sinistra radicale, marxista e
comunista, per poterli superare e non ripeterne gli errori. Cominciando
appunto a dire, finalmente “fuori dall'euro, fuori dall'UE”.
[1] M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell'euro, Asterios 2012.
[2] A.Bagnai, Il tramonto dell'euro, Imprimatur 2012.