Bisogna finire, bisogna cominciare
Marino Badiale, Massimo Bontempelli
Venerdì 30 Luglio 2010
Premessa.
Questo
saggio è diviso in due parti. Nella prima parte, riprendendo e
aggiornando analisi da noi svolte in lavori precedenti[1], sosteniamo l’esaurimento di senso politico della coppia concettuale destra/sinistra.
Con questo non intendiamo dire che non esistano più destra e sinistra,
ma piuttosto che tali realtà non hanno più il significato che hanno
avuto fino a trent’anni fa, e che, in particolare, la sinistra non è più
il luogo sociale e politico degli ideali di emancipazione, eguaglianza,
giustizia sociale. Nella seconda parte mostriamo come questa nuova
situazione non implichi la fine della lotta per un mondo più umano, ma
implichi piuttosto che questa lotta va svolta secondo nuove idee e nuove
linee di demarcazione.
PRIMA PARTE. FINIRE LA STORIA DELLA SINISTRA E DELLA DESTRA
1.Cercando una definizione.
Una
discussione sull’attualità politica delle nozioni di sinistra e destra
deve naturalmente partire da una definizione di cosa si intenda per
sinistra e per destra. In mancanza di una tale definizione, il dibattito
si blocca subito perché ognuno attribuisce a queste espressioni
significati diversi.
Quando si cerca di definire cosa si intenda per sinistra o per
destra la mossa più comune è quella di cercare un insieme di valori, di
riferimenti ideali, di principi morali, che possano fungere da criteri
di distinzione: le proposte possono allora essere molte, per esempio di
caratterizzare la sinistra con l’ideale dell’uguaglianza[2] e la destra
con quello della gerarchia, o la sinistra con l’ideale della democrazia
radicale e la destra con quello dell’autorità politica. E’ probabile che
una buona sintesi di queste proposte consista nel caratterizzare la
sinistra con l’ideale dell’emancipazione dei ceti subalterni, o più in
generale dei gruppi sociali oppressi e discriminati, e la destra con
l’ideale di una società autoritaria in cui viene mantenuta una struttura
gerarchica “naturale” e “giusta”.
Questo approccio ci sembra
però troppo generico. Limitiamoci a spiegarlo in riferimento alla
sinistra. Quando la sinistra è definita nel modo sopra indicato, viene a
perdere le sue determinazioni storiche. E’ noto che si parla di
sinistra e di destra a partire dalla Rivoluzione Francese: la coppia
concettuale sinistra/destra nasce cioè con la modernità. Ma se si parla
dei riferimenti ideali citati in precedenza, appare chiaro che essi si
possono ritrovare nei più diversi periodi storici e nei più diversi
contesti. Definire la sinistra nel modo detto equivale allora a creare
una Sinistra Eterna, staccata dalle dinamiche storiche e politiche, con
conseguenze paradossali: diventa infatti naturale, all’interno di questa
impostazione, pensare che dovunque si possano ritrovare in qualche modo
gli ideali accennati sopra, si possa parlare di sinistra, e diventano
quindi ragionevoli affermazioni del tutto assurde sul piano storico,
come definire Gesù o Spartaco “di sinistra”. Oltre a ciò, la definizione
di un luogo politico nei termini dei suoi fini ideali non tiene conto
del fatto che in politica i mezzi sono più stabili e concreti dei fini.
Il comunismo novecentesco, per fare un esempio, lo si comprende
realmente se si mette al centro della riflessione non il generico e
maldefinito fine che si prefiggeva (il comunismo), ma piuttosto il mezzo
che esso si diede, cioè il partito leninista.
Per capire cosa la
sinistra è stata fino ad una trentina di anni fa occorre allora
prendere in considerazione un’altra nozione tradizionalmente associata
alla sinistra stessa, quella di progresso. Ma cosa vuol dire progresso?
Il progresso è sempre progresso di qualcosa. Se definissimo l’identità
ideale trascorsa della sinistra come “emancipazione e progresso”, il
progresso sarebbe progresso dell’emancipazione, cioè passaggio da una
situazione di minore emancipazione ad una di maggiore emancipazione. Lo
stesso potremmo dire se definissimo l’identità ideale trascorsa della
sinistra come “eguaglianza e progresso” o come “giustizia e progresso”.
Queste banali osservazioni ci suggeriscono che il progresso non è un
“fine ideale” come l'emancipazione o l'eguaglianza, non ha cioè valore
autonomo, non è un fine perseguito come tale. Esso è piuttosto una
prospettiva storica di realizzazione di fini ideali. E’ in sostanza il
mezzo (in un senso molto ampio della parola “mezzo”) attraverso cui la
sinistra ha pensato di realizzare i propri fini.
L’adesione al
progresso può però essere intesa in molti modi diversi, ad esempio come
la fede che il movimento storico porterà sicuramente alla vittoria di
certi ideali, o la convinzione (legata alla precedente) che ogni novità
storica in quanto tale sia positiva. Ci sembra di poter affermare che la
sinistra si è definita scegliendo una accezione particolare di questa
nozione non ben definita: la sinistra si è affermata ed ha avuto grande
rilevanza nei due secoli della sua storia declinando la nozione di
“progresso” come sviluppo economico e tecnologico. Possiamo allora
stringere e affermare che la sinistra è la parte politica e culturale
che negli ultimi due secoli ha pensato la realizzazione degli ideali di
emancipazione dei ceti subalterni attraverso la prospettiva storica
dello sviluppo economico e tecnologico. E’ evidente che da questa
caratterizzazione della sinistra, se accettata, discendono conseguenze
importanti per il dibattito.
2. Ascesa e caduta della sinistra emancipativa.
Nei
due secoli della storia della sinistra questa particolare fusione dei
fini ideali sopra indicati con la prospettiva storica del progresso,
declinato come sviluppo sociale ed economico, è stata realmente
efficace. E’ stato cioè possibile ottenere significativi progressi nella
realizzazione degli ideali della sinistra grazie allo sviluppo stesso.
Il punto culminante di questo successo storico della sinistra è
rappresentato dal secondo dopoguerra, dal “trentennio dorato” della fase
storica “keynesiano-fordista” del capitalismo occidentale. In questa
fase l’accentuato ritmo dello sviluppo economico ha fornito le basi per
una politica riformista che ha realmente migliorato la situazione
materiale dei ceti subalterni nei paesi occidentali. Si tratta della
fase di massima influenza della sinistra. L’indice più chiaro di questa
influenza è il fatto che, in un certo senso, l’intero arco delle forze
politiche di governo dei paesi occidentali si è mosso allora sul piano
delle politiche riformiste della sinistra. Quando andavano al potere, le
forze politiche di destra o di centro-destra non potevano cambiare
radicalmente le politiche di tipo socialriformista, ma al massimo
rallentarle o modularle diversamente.
Tutto questo finisce, come
si è accennato, alla fine del “trentennio dorato”, cioè in sostanza con
la crisi economica degli anni Settanta del Novecento. Gli anni Settanta
sono gli anni del passaggio dal capitalismo “keynesiano-fordista” al
capitalismo attuale, che è usuale (anche se un po’ impreciso) chiamare
capitalismo “neoliberista” e “globalizzato”. Su tale passaggio esiste
ormai una vasta letteratura, che lo ha indagato a fondo. Per chiarirne
la natura, cominciamo col richiamare alcuni aspetti della fase
“keynesiano-fordista” del capitalismo. Si tratta di una forma di
manifestazione storica del capitalismo, nella quale la produzione
standardizzata di beni di consumo rivolta alle masse trova un mercato
grazie alle politiche riformiste che trasferiscono ai ceti subalterni,
in forme dirette e indirette, parte dei proventi degli aumenti di
produttività originati dalla nuova organizzazione del lavoro. Questo
meccanismo economico è alla base delle conquiste effettive, in termini
di diritti e redditi, che i ceti subalterni ottengono in questa fase. Il
punto cruciale sta nel fatto che l’aumento effettivo del reddito dei
lavoratori è per il capitale, all’interno della forma fordista, insieme
obbligato e vantaggioso. Vediamone prima la necessità obbligante: la
grande fabbrica fordista presenta una rigidità organizzativa interna
(tipicamente rappresentata dalla catena di montaggio) che la rende
vulnerabile ad ogni forma di lotta, anche minoritaria, dei suoi
dipendenti, e questo implica la necessità, per il capitale, di un buon
grado di motivazione da parte dei lavoratori. Poiché il lavoro alla
catena di montaggio è altamente alienante, la motivazione a compierlo
può essere soltanto di tipo salariale, ed infatti Henry Ford,
l’industriale americano da cui viene la denominazione di fordismo per il
sistema produttivo di un’epoca, dopo aver introdotto nel 1909 la catena
di montaggio per la produzione dell’automobile, ed aver subito a
partire dal 1910 abbandoni e sabotaggi da parte dei suoi operai, nel
1913 ne aumentò la paga in maniera notevolissima, da 2 a 5 dollari al
giorno.
L’aumento dei salari è inoltre vantaggioso per il
capitale fordista, che vi investe profitti all’epoca privi di sbocchi
per l’accumulazione, ottenendone una domanda di massa per i prodotti di
cui la catena di montaggio ha aumentato la scala di produzione.
Questo
meccanismo, diffusosi negli Stati Uniti ed in Germania negli anni
Trenta, in Giappone, Francia ed Italia negli anni Cinquanta, entra in
crisi negli anni Settanta, perché da una parte la tendenziale piena
occupazione origina un forte potere contrattuale del lavoro dipendente,
che può quindi strappare aumenti salariali e altre concessioni che
finiscono per erodere i profitti, dall’altra i mercati dei beni
standardizzati di massa vengono alla fine saturati, per cui gli aumenti
salariali accrescono i costi della fabbrica fordista senza più la
contropartita di un aumento della domanda dei suoi prodotti.
La
risposta del capitale alla crisi degli anni Settanta segna l’inizio
della fase attuale del capitalismo. Il potere contrattuale dei
lavoratori viene distrutto da manovre politiche (come la stretta
monetaria della FED di Paul Volcker del ’79, intenzionalmente concepita
per creare disoccupazione[3], o gli attacchi ai sindacati operati da
Reagan e dalla Thatcher), e da manovre economiche (delocalizzazioni,
automazione produttiva, concorrenza della manodopera immigrata priva di
diritti). Alla saturazione dei mercati si risponde da una parte con la
produzione di merci rivolte a nicchie più ristrette, la cui lavorazione
richiede una sempre maggiore flessibilità dei lavoratori, e che sono
caratterizzate da costi minori in termini di lavoro e sempre maggiori in
termini di ricerca, pubblicità, corruzione; dall’altra, in proporzione
crescente, con lo spostamento del capitale dalla produzione alla
finanza. Tale spostamento viene incoraggiato dalla creazione di sempre
più sofisticati strumenti finanziari, resi necessari per proteggere gli
stessi investimenti produttivi volti all’esportazione dalle oscillazioni
dei cambi tra le monete, cambi divenuti variabili dopo il 1971, e dal
fatto che il credito al consumo diviene uno dei modi per prevenire i
rischi di una carenza di domanda. La finanziarizzazione del capitale
crea lo spazio di investimento entro il quale soltanto una parte via via
crescente di plusvalore può essere accumulata, nella forma del capitale fittizio (nel senso marxiano del termine), cioè attraverso il ciclo denaro-denaro anziché denaro-merce-denaro.
In
questa situazione la sinistra riformista non ha più nessuno spazio. Non
sono più possibili politiche dei redditi che trasferiscano ai
lavoratori (direttamente con aumenti salariali o indirettamente con i
servizi del Welfare State) parte dei profitti in modo compatibile con
l’accumulazione capitalistica. Non è più possibile una politica di
tendenziale piena occupazione perché questa ridarebbe alla classe
operaia un potere contrattuale incompatibile con la forma attuale di
accumulazione del capitale. In mancanza di una prospettiva di
superamento del capitalismo, la sinistra non ha nessuno strumento per
contrastare la distruzione delle conquiste ottenute dai ceti subalterni
nella fase precedente.
A questa difficoltà oggettiva la sinistra
ha aggiunto, in tutti o quasi i paesi occidentali e nella larga
maggioranza delle sue componenti, una complicità soggettiva: non solo
essa non fa nulla per contrastare tali processi, ma diventa una forza
che attivamente li persegue. Questa complicità ha ovviamente assunto
forme diverse nei vari paesi. In Italia l’anno cruciale in cui si
determina è il 1993. E’ noto come il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia della
Regina d’Inghilterra abbia raccolto un nutrito gruppo di banchieri
anglosassoni e di personaggi del mondo politico ed economico italiano
per progettare, sotto l’impulso e la direzione dei primi, la
privatizzazione dell’economia pubblica italiana. Tale privatizzazione
viene avviata l’anno successivo prima dal governo Amato, e poi dal
governo Ciampi che gli succede. Il passaggio essenziale compiuto dai
governi Amato e Ciampi è consistito, più che in specifiche
privatizzazioni, nell’approntare la struttura giuridica necessaria alle
privatizzazioni stesse, che avranno uno sviluppo imponente tra il
dicembre 1993, quando viene ceduto ad un pool di banche italiane e
straniere, ad un prezzo di svendita, il Credito Italiano, ed il maggio
1999, quando dal tronco delle Ferrovie dello Stato nascono Trenitalia e
RFI. L’anno cruciale è il 1997, quando, sotto il governo Prodi, vengono
privatizzate la Società Autostrade, Finmeccanica, e soprattutto STET e
SIP, fuse in Telecom. Si tratta di un’immane trasformazione, di un
mutamento epocale, che ha l’effetto di distruggere tutti quegli
strumenti dell’intervento pubblico nell’economia con i quali la sinistra
aveva svolto nei decenni precedenti la sua politica emancipativa. Tutto
questo avviene con il sostanziale assenso della sinistra: il PDS si
astiene sul governo Ciampi e, soprattutto, né il PDS né Rifondazione
Comunista discutono, nel 1993, l’avvio del grande ciclo di
privatizzazione dell’economia pubblica italiana e non mobilitano il loro
popolo e i loro intellettuali riguardo ad una questione fondamentale
come questa.
Questo silenzio ha una sola spiegazione, per la
quale non abbiamo prove definitive, ma che ci sembra l’unico scenario
ragionevole: vi è stato fra il ‘92 e il ‘93 una trattativa nella quale i
dirigenti dell’ex-PCI hanno concesso ai poteri forti dell’economia la
loro inerzia silenziosa di fronte all’avvio del ciclo delle
privatizzazioni, ottenendo in cambio quella legittimazione a partecipare
al governo del paese che non avevano a causa del loro passato legame
con l’Unione Sovietica e il comunismo internazionale.
Ricordiamo
che il governo Ciampi aveva al momento della sua formazione tre ministri
provenienti dalla sinistra, immediatamente dimessisi soltanto per
vicende legate alle inchieste di Mani Pulite. La sinistra è poi entrata
in forze nel governo nel 1996, dopo la vittoria elettorale di Prodi,
scelto da D’Alema come capo della coalizione di centro-sinistra non,
come allora si disse, in quanto ex-democristiano, ma in quanto uomo
della Goldman Sachs, in grado di farsi garante per una sinistra di
governo presso i poteri forti dell’economia.
La fase delle grandi
privatizzazioni degli anni Novanta rappresenta il passaggio dell’Italia
dal capitalismo “keynesiano-fordista” all’attuale capitalismo
“neoliberista-globalizzato” e, parallelamente, anche la compiuta e
definitiva trasformazione della sinistra italiana in una forza
de-emancipativa, trasformazione che culmina con l’aggressione alla
Jugoslavia del 1999, attuata da un governo di centrosinistra con a capo
Massimo D’Alema.
3. Esaurimento storico della sinistra emancipativa.
Riassumiamo
quanto fin qui argomentato: la sinistra è stata storicamente
caratterizzata dall’unione di un ideale di emancipazione dei ceti
subalterni con la nozione di progresso storico declinato come sviluppo
economico e tecnologico. Questa fusione è stata storicamente efficace
per un’epoca intera, culminata nel “trentennio dorato” del secondo
dopoguerra, ma è stata poi messa in crisi dal passaggio dal capitalismo
“keynesiano-fordista” all’attuale capitalismo
“neoliberista-globalizzato”.
Il passaggio dal capitalismo
“fordista” a quello attuale è infatti un passaggio attraverso il quale
la società va in direzione esattamente opposta a quella dei tradizionali
ideali emancipativi della sinistra: il lavoro perde diritti, aumentano
le disuguaglianze sociali, gli elementi di democrazia sostanziale
mediati dal sistema del Welfare State (pensioni, istruzione per
tutti, assistenza sanitaria per tutti) vengono erosi, i ceti subalterni
vengono a poco a poco ricacciati in una condizione di insicurezza
materiale. Ma questo passaggio è, contemporaneamente, un passaggio ad
una nuova forma di sviluppo economico.
La forma attuale del
capitalismo è la risposta alla crisi economica degli anni Settanta, cioè
ad un blocco dello sviluppo economico, ed è una risposta che fa
ripartire lo sviluppo economico stesso. Lo fa ad un livello minore che
nella fase precedente: nei paesi occidentali i tassi di sviluppo del Pil
negli ultimi trent’anni sono mediamente inferiori, anche di molto, ai
tassi di sviluppo del dopoguerra. Ma anche se il tasso di sviluppo è
minore, si tratta pur sempre di sviluppo.
Il capitalismo
“neoliberista-globalizzato” è la risposta ad una crisi dello sviluppo
che salva lo sviluppo nell’unica forma storicamente possibile nella
situazione creatasi negli anni Settanta. Ma se è vero che la sinistra si
è storicamente fatta definire dalla fusione di emancipazione e
sviluppo, in una situazione storica nella quale lo sviluppo è
de-emancipatorio, la sinistra semplicemente non può più esistere nella
sua forma storica tradizionale. Emancipazione e sviluppo sono i due
binari sui quali il treno della sinistra ha viaggiato per tutta una fase
storica. A partire dagli anni Settanta, questi due binari si sono
divaricati e sono andati in direzioni opposte: il treno non poteva che
deragliare, e in tali condizioni l’unica scelta razionale, per i
viaggiatori sopravvissuti, è quella di abbandonare il treno e continuare
il viaggio in altro modo e su altri mezzi. La fine della sinistra
emancipativa non è quindi, se non in modo derivato, un risultato degli
errori politici, della pochezza intellettuale e morale, dei tradimenti
dei ceti dirigenti della sinistra stessa. Tutto questo vi è stato, ma
sulla base di un esaurimento storico dell’identità fondamentale della
sinistra stessa. Di fronte a questo esaurimento storico i ceti dirigenti
della sinistra si sono trovati a dover scegliere fra difesa degli
ideali di emancipazione da una parte e sviluppo dall’altra, e in questo
frangente hanno mostrato tutta la loro pochezza intellettuale e morale.
La complicità soggettiva alla de-emancipazione, alla quale abbiamo
accennato alla fine del precedente paragrafo, è stata cioè resa
possibile dalla situazione di esaurimento storico delle ragioni
fondative della sinistra emancipativa.
4. La sinistra emancipativa non può ricominciare.
Alla
nostra tesi della fine della sinistra tradizionalmente esistita,
argomentata nel paragrafo precedente, si potrebbe obiettare come segue:
quella attuale non è una fine ma una eclissi. Il fatto che nell’attuale
fase storica non sia possibile quella fusione di ideali emancipativi e
sviluppo economico che ha caratterizzato la sinistra, non implica che
essa non possa tornare ad essere possibile in futuro.
Cerchiamo
allora di discutere questa obiezione e partiamo dall’elemento di verità
che essa contiene: le società capitalistiche hanno talvolta conosciuto,
in una certa fase storica, il ripresentarsi di alcune caratteristiche
economiche e sociali presenti in fasi storiche precedenti e poi
scomparse. Per esempio, molti studiosi hanno notato come il periodo
storico di fine Ottocento-inizio Novecento presenti fenomeni che per
molti aspetti richiamano quella che oggi viene chiamata
“globalizzazione”, aspetti che scompariranno nella fase storica che
inizia con la prima guerra mondiale per ricomparire appunto nel mondo
contemporaneo[4]. Allo stesso modo, si potrebbe pensare in astratto alla
possibilità di una fase futura del capitalismo nella quale si
ripresentino gli aspetti tipici del capitalismo “keynesiano-fordista”,
riaprendo quindi lo spazio per una sinistra emancipativa.
A
questa obiezione si possono dare due risposte. In primo luogo, non si
scorgono tracce di questa eventuale futura nuova fase del capitalismo, e
quindi dal punto di vista dell’azione politica, e di una riflessione
orientata a dare indicazioni all’azione politica, si tratta di obiezioni
oziose. L’attuale fase capitalistica è quella nella quale una sinistra
emancipativa non può esistere, e questa è la fase nella quale vivranno
sia gli autori sia gli attuali[5] lettori di queste righe. In secondo
luogo, occorre ricordare che se è vero il ripetersi “ciclico” di certi
aspetti delle società capitalistiche, questi aspetti si inseriscono
comunque in una realtà che ciclica non è ma presenta aspetti
irriducibili al passato. Per quanto concerne la nostra attuale
discussione, l’aspetto di novità irriducibile ai precedenti
Henry-Ford-Posterandamenti ciclici del modo di produzione capitalistico è
rappresentato dal problema ambientale. Una nuova fase di capitalismo
“riformista” avrebbe infatti bisogno di un nuovo ciclo di prodotti con
nuovi investimenti e nuovi profitti. La fase “fordista” merita questo
nome proprio perché l’automobile è il migliore esempio di un prodotto di
questo tipo. L’automobile è un bene non troppo costoso, così da poter
diventare un bene di consumo di massa, ma sufficientemente costoso da
generare, su una larga scala di produzione, alti profitti, e soprattutto
è un bene che porta con sé una mole massiccia di investimenti
correlati: strade, autostrade, parcheggi, campi di estrazione di
petrolio, raffinerie, navi petroliere, porti. Gli investimenti creano
occupazione, l’occupazione fornisce salari ai lavoratori che possono
spenderli per l’acquisto delle automobili e dell’intera gamma dei beni
di consumo di massa prodotti dalle industrie fordiste. L’intera vita
economica dei paesi occidentali è stata modellata dal bene-simbolo
dell’automobile. Ora, attualmente non è visibile nessun bene che possa
rimpiazzare l’automobile in questo ruolo, ma soprattutto, ed è questo il
punto decisivo, non è pensabile un ciclo di investimenti paragonabile a
quello legato all’automobile, perché esso avrebbe effetti devastanti
sui già precari equilibri ecologici del pianeta. Il rilancio,
attualmente non all’orizzonte, di un capitalismo
“socialdemocratico-riformista” permetterebbe forse di recuperare ciò che
i ceti subalterni hanno perso nella fase attuale in termini di reddito
monetario, ma in un contesto di collasso ambientale di cui sarebbero
ovviamente i ceti subalterni a fare le spese.
Anche in questo
caso sarebbe dunque impossibile difendere i ceti subalterni attraverso
lo sviluppo. Non si vede quindi nessuna possibilità di recupero di un
ruolo emancipatorio per la sinistra.
5. Un esempio.
Facciamo
un esempio concreto di questa impossibilità per la sinistra di
rappresentare oggi il luogo di una politica emancipatoria e di difesa
dei ceti subalterni. E’ un esempio tratto dalla cronaca recente[6], ma
che riveste un valore che va oltre la cronaca. Si tratta della vicenda
dell’impianto FIAT di Pomigliano d’Arco. La vicenda, come è noto,
consiste nel fatto che la direzione della FIAT ha chiesto ai sindacati e
ai lavoratori di accettare nuove e durissime condizioni contrattuali
(relative, fra l’altro, all’organizzazione del lavoro, al diritto di
sciopero, al diritto alla retribuzione in caso di malattia), con la
minaccia, in caso di rifiuto, di chiudere lo stabilimento trasferendo la
produzione negli impianti FIAT situati in paesi stranieri. Si tratta di
un caso paradigmatico di attacco ad alcuni valori storici della
sinistra: la difesa del lavoro, l’estensione di diritti sociali
universali. Tale attacco avviene inoltre in un contesto di crisi
economica e in riferimento proprio ai lavoratori della FIAT, cioè ad una
realtà operaia che ha sempre costituito in Italia uno degli indici dai
quali comprendere le tendenze nei rapporti di forza fra le classi: tutti
questi elementi portano facilmente ad argomentare che la vicenda di
Pomigliano, oltre a rappresentare un arretramento dei diritti per i
cinquemila lavoratori coinvolti, sia solo l’inizio di una fase di
ulteriori attacchi ai diritti e ai redditi degli operai e, in generale,
dei ceti subalterni.
Di fronte a questioni di tale portata, cosa
ha da dire la sinistra? Non vogliamo presentare l’arco di tutte le
posizioni espresse, ma solo offrire alcuni esempi paradigmatici, presi
dalla stampa, che mostrano come, all’interno delle categorie della
sinistra, sia in sostanza impossibile dare una risposta effettiva a
simili problemi.
Iniziamo con una
intervista di Veltroni sul
Corriere della Sera. Veltroni dice l'essenziale del suo pensiero nella prima frase dell’intervista: «
Questo accordo mi sembra inevitabile».
Il resto dell’intervista rappresenta un commento a questa affermazione,
o un accumulo di frasi retoriche e vuote. Non vogliamo qui insistere su
questa retorica, ci preme solo far capire ai lettori due punti.
In
primo luogo, questa “inevitabilità” di cui parla Veltroni implica
l’accettazione della perdita di diritti dei ceti subalterni. In cambio
di questa perdita Veltroni non ha altro da offrire che frasi vuote (in
quanto slegate da qualsiasi seria proposta di politica economica) come
«fare delle infrastrutture materiali e conoscitive e della rivoluzione
ambientale i motori di una nuova stagione di crescita italiana», oppure
il riconoscimento che «si parla di operai che stanno in catena di
montaggio, che si vedono ridotto di dieci minuti il tempo di pausa, di
persone di cui viene misurato lo spostamento del bacino per valutare la
produttività»: distruzione dei diritti in cambio di parole, questo è
tutto ciò che Veltroni sa prospettare ai lavoratori di Pomigliano (e
agli altri).
In secondo luogo, questa sostanziale accettazione
della deriva de-emancipatoria del capitalismo contemporaneo non è solo
conseguenza degli evidenti limiti morali e intellettuali di Veltroni, ma
è radicata in quelle caratteristiche della sinistra che abbiamo fin qui
esaminato, cioè nel fatto che la nozione di “sviluppo” è per essa
fondativa e irrinunciabile, come appare chiaro da tutta l’intervista[7].
Si
tratta esattamente del meccanismo che abbiamo sopra esposto in
astratto: la scissione fra sviluppo ed emancipazione implica che i ceti
dirigenti della sinistra devono scegliere fra sostenere lo sviluppo o
sostenere l’emancipazione. Chi sostiene lo sviluppo deve allora
sostenere politiche de-emancipatorie, anche se questo è in
contraddizione con gli ideali storici della sinistra. Veltroni
rappresenta nella forma più chiara uno dei possibili esiti del nodo
problematico nel quale si è trovata la sinistra.
In questo
personaggio si vede con la massima chiarezza come il progressismo della
sinistra, privato ormai di ogni rapporto con gli ideali di
emancipazione, si riduca a culto acritico del progresso e
dell’innovazione. Il progresso, che prima era un mezzo per realizzare il
fine dell’emancipazione, una volta tolto tale fine dall’orizzonte,
scade a innovazione e contemporaneamente diventa esso stesso un fine in
sé. Se in futuro esisterà ancora una sinistra sarà appunto come sinistra
dello sviluppo, dell’innovazione e del cambiamento perseguiti come
valori in sé, come fini a se stessi. Per i motivi che abbiamo spiegato,
una tale sinistra sarà nemica dei lavoratori e dei ceti subalterni, e
dovrà essere combattuta con la massima durezza da chi voglia ancora
ispirarsi agli ideali di emancipazione che furono della sinistra
storica.
Esaminiamo adesso un
articolo di Claudio Mezzanzanica.
Siamo qui, in un certo senso, all’estremo opposto rispetto a Veltroni.
Mezzanzanica non accetta infatti come inevitabile la distruzione dei
diritti dei lavoratori, e propone misure per combattere il carattere
de-emancipatorio dell’attuale organizzazione economica e sociale. Ma le
sue proposte sono comunque interne all’orizzonte dello sviluppo e sono
quindi sconfitte in partenza. Le sue proposte sono le seguenti: da una
parte redistribuzione del reddito per sostenere la domanda, (cioè un
approccio tipico della fase fordista[8]), dall’altra il coinvolgimento
dei lavoratori per migliorare la qualità del prodotto. Ma le politiche
di redistribuzione del reddito a sostegno della domanda non sono più
possibili per i motivi che abbiamo sopra esposto, e questa impossibilità
ha un’evidenza solare proprio nel caso in questione, quello
dell’automobile: è ben noto che nei paesi avanzati vi è un enorme
sovrappiù di capacità produttiva di automobili rispetto alla domanda. Se
si aumentassero i redditi dei ceti subalterni, tale aumento non si
riverserebbe nell’acquisto di automobili. Lo stesso discorso vale per la
proposta di coinvolgimento dei lavoratori (fino all’autogestione) per
migliorare la qualità del prodotto: anche migliorato, si tratta di un
prodotto che non può più avere il mercato che aveva cinquant’anni fa.
Nel
caso di Mezzanzanica siamo di fronte ad una sinistra che non vuole
rinunciare ai propri ideali storici di emancipazione, ma, rimanendo
interna all’orizzonte dello sviluppo, non riesce a enunciare un percorso
credibile di difesa dei diritti dei lavoratori[9].
Esaminiamo infine un
articolo di Eugenio Scalfari.
Per Scalfari, come per Veltroni, l’accettazione da parte dei lavoratori
delle condizioni imposte dalla FIAT è inevitabile, ma egli, a
differenza di Veltroni, fa qualche proposta più concreta di aiuto ai
lavoratori stessi. Dice infatti Scalfari che i lavoratori, e in generale
i ceti subalterni, che devono subire condizioni sempre più dure sul
lavoro, devono essere risarciti su altri piani «
sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie» e «
compensando
quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi
pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in
abbondanza». Questa compensazione può essere finanziata tramite un «
maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti».
La
proposta di Scalfari sembrerebbe far quadrare il cerchio: da una parte
egli accetta lo sviluppo e i suoi costi per i ceti subalterni,
dall’altra sembra salvare gli ideali storici della sinistra nel proporre
una serie di “compensazioni” finanziate dal maggior prelievo fiscale
sui ceti dominanti. Ma si tratta di un’illusione. Le “compensazioni” di
Scalfari non potranno mai essere finanziate. L’attuale capitalismo
“neoliberista-globalizzato” non può accettare la tassazione a fini
“sociali” per le stesse ragioni per le quali non può accettare i diritti
dei lavoratori, perché in entrambi i casi si tratta di un costo
aggiuntivo all’interno di una spietata competizione mondiale. Il
passaggio fra capitale industriale e capitale finanziario è un passaggio
che si svolge continuamente, ed è una necessità all’interno
dell’attuale forma del capitalismo. Lo sviluppo, non potendosi svolgere
compiutamente tramite la produzione, ha bisogno di avere sempre a
disposizione la possibilità del passaggio della finanza, per ritornare
eventualmente alla produzione quando conveniente. Colpire rendite e
patrimoni significa colpire questi meccanismi e quindi la forma stessa
dello sviluppo capitalistico nella fase attuale. Se si accetta come
inevitabile lo scenario dell’attuale capitalismo
“neoliberista-globalizzato” e del suo sviluppo, e questo è il caso di
Scalfari, le “compensazioni” che egli propone sono in realtà illusorie.
Questo
esame di alcune posizioni concrete sostenute in riferimento a un
problema concreto come quello di Pomigliano ci sembra confermino la
nostra tesi generale: non è più possibile la difesa degli ideali storici
della sinistra all’interno della logica dello sviluppo.
6. Intermezzo: sinistra riformista e sinistra comunista.
Come
appare evidente dal tipo di argomentazioni da noi sviluppate, quando
parliamo di “sinistra” in riferimento ai paesi occidentali e al
Novecento, pensiamo soprattutto a quella sinistra che, comunque si sia
denominata, ha perseguito politiche di tipo riformista e
socialdemocratico. Si tratta di una realtà politica che ha segnato la
storia del Novecento, e che per questo va presa in seria considerazione.
La sinistra comunista, per quel tanto che nei paesi occidentali ha
avuto rilevanza storica, dal punto di vista che qui ci interessa non
presenta grandi differenze rispetto alla sinistra socialdemocratica:
dove hanno avuto un peso significativo (per esempio in Italia o in
Francia) i partiti comunisti hanno svolto una politica interna nella
sostanza indistinguibile da quella riformista, mentre l’unica differenza
rilevante era il sostegno all’Unione Sovietica nella politica estera.
Restano fuori da questo quadro solo gli infiniti e microscopici gruppi
della sinistra rivoluzionaria (trotskisti, bordighisti, maoisti
eccetera). Si tratta di realtà che dagli anni Venti in poi non hanno mai
avuto alcun peso nei paesi occidentali, non hanno mai inciso sulla
realtà, e non vale quindi la pena di parlarne sul piano storico[10].
7. E la destra?
Un’altra
possibile obiezione alla nostra tesi di partenza è la seguente: voi
dichiarate la fine dell’opposizione destra/sinistra, ma finora avete
parlato solo della sinistra. Non se ne potrebbe ricavare che quella che è
finita è la sinistra, mentre la destra ha ancora un ruolo storico? Per
rispondere a questa domanda dobbiamo riprendere la questione dello
sviluppo, e il punto cruciale qui è se la destra sia estranea oppure no
all’ideologia dello sviluppo. Ora, a noi sembra che questa estraneità
sia vera solo per la destra reazionaria contemporanea alla Rivoluzione
Francese o poco successiva ad essa. Se escludiamo il ritorno all’Ancien Régime
dall’ambito delle opzioni politiche oggi praticabili, vediamo che le
varie destre sono anch’esse interne all’ideologia dello sviluppo.
La
destra liberale si differenzia dalla sinistra perché vuole lo sviluppo
economico all’interno di una società gerarchica e disegualitaria, ma ne
ha bisogno proprio perché lo sviluppo rende possibile concedere qualcosa
alle classi popolari in termini materiali, impedendo quindi che la
lotta di tali classi possa trasformarsi in rivoluzione. La destra
antiliberale e reazionaria del Novecento assorbe a suo modo la retorica
del futuro e dell’uomo nuovo tipica della sinistra e si crea una
ideologia nella quale convivono nostalgie reazionarie e sogni
ipertecnologici. In un modo o nell’altro, quindi, anche la destra
accetta sostanzialmente lo sviluppo. La differenza sta nel fatto che la
sinistra cerca di conciliare lo sviluppo con i propri ideali
emancipativi, mentre la destra cerca di conciliarlo con la difesa di
alcuni valori della propria tradizione. Ma come lo “sviluppo reale”
finisce per rivolgersi contro gli ideali della sinistra, allo stesso
modo distrugge gli ideali della destra. L’impegno personale, il lavoro,
l’onestà, il senso di responsabilità verso la comunità vengono
ridicolizzati da un capitalismo privo di radici e nel quale il denaro,
in qualsiasi modo raggiunto, è l’unico metro di valutazione. La morale
familiare e sessuale tradizionale è spazzata via, l’idea di nazione
lentamente cancellata da varie forme di potere sopranazionale. Sembra
dunque, ad un rapido esame, che la posizione storica e culturale della
destra sia resa obsoleta, dagli attuali sviluppi, non diversamente da
quella della sinistra.
PARTE SECONDA. COMINCIARE UNA NUOVA STORIA.
1. Nuove demarcazioni.
In
questa seconda parte cercheremo di mostrare che la perdita di
significato politico dell’opposizione di destra e sinistra non equivale
alla fine della lotta per gli ideali di emancipazione che furono della
sinistra. Essa corrisponde piuttosto alla nascita di nuove opposizioni,
di nuove linee di demarcazione fra ipotesi differenti sulla società.
Cercheremo inoltre di indicare alcune idee generali a partire dalle
quali una forza politica alternativa potrebbe affrontare i problemi che
la realtà contemporanea presenta. Proprio questo esame di alcuni dei
problemi contemporanei mostrerà concretamente che la scelta di
affrontarli secondo principi di opposizione a quelli oggi dominanti
porta necessariamente al di là di destra e sinistra.
Abbiamo
sopra accennato a nuove linee di demarcazione. La principale fra di esse
è proprio quella che nasce attorno alla nozione di sviluppo. Ricordiamo
quanto abbiamo detto nella prima parte: oggi lo sviluppo capitalistico
(l’unico sviluppo che c’è) è inequivocabilmente de-emancipatorio, porta
cioè la società in direzione del tutto opposta a quella della
realizzazione degli ideali di emancipazione. Oggi “sviluppo” significa
abbassamento dei salari per recuperare competitività, riduzione e
precarizzazione dell’occupazione per lo stesso motivo, distruzione del Welfare State
per favorire la finanza internazionale[11]. E significa inoltre attacco
agli equilibri ecologici in forme e modi che stanno ormai cominciando
ad incidere sulla qualità della vita di larghe fasce della popolazione.
Lo sviluppo capitalistico attuale è possibile solo sulla base di un
sostanziale ritorno ad un crudele capitalismo discriminatorio e
disegualitario di tipo ottocentesco, a cui si aggiungono i problemi
ecologici che nell’Ottocento ancora non c’erano.
L’unica via per
costruire una alternativa al mondo attuale, che conservi gli aspetti
migliori della cultura della sinistra e della destra, è quella della
critica allo sviluppo. La lotta contro questo sviluppo, ormai
compiutamente de-emancipatorio, è quindi il primo punto qualificante di
una forza politica di alternativa al mondo attuale. Solo a partire da
qui sarà possibile affrontare le tante questioni che il mondo moderno ci
sottopone.
Facciamo qualche esempio. Nella discussione sui
problemi energetici è ben nota la contrapposizione fra i sostenitori del
nucleare e i sostenitori delle energie rinnovabili come l’eolico e il
solare. Si può osservare in primo luogo che questa contrapposizione non
corrisponde del tutto a quella di destra e sinistra (c’è una sinistra
nuclearista come c’è una destra ecologista), e questo è un ulteriore
indizio della scarsa rilevanza attuale dell’opposizione destra/sinistra.
Ciò che più conta, però, è rilevare come il confronto fra le diverse
opzioni di politica dell’energia appaia bloccato per via di un
presupposto che quasi mai viene discusso, appunto il presupposto dello
sviluppo. La discussione è allora fra due posizioni entrambe favorevoli
allo sviluppo, e verte sulla questione di quale opzione energetica sia
in grado di assicurare lo sviluppo preservando contemporaneamente
l’ambiente. Ma la risposta a questa questione è semplice: se si accetta
il presupposto dello sviluppo non c’è nessuna soluzione nota del
problema energetico che sia anche rispettosa dell’ambiente; le stesse
energie alternative hanno effetti negativi, per esempio nel consumo del
territorio[12]. Lo sviluppo implica l’aumento dei consumi energetici, e
quindi il continuo ampliamento delle strutture invasive destinate a
reperire e distribuire l’energia, sia essa “pulita” oppure no. E’
evidente che occorre rifiutare il presupposto dello sviluppo e impostare
il problema energetico a partire da tale rifiuto. Questa impostazione
porta a privilegiare il risparmio dell’energia e le filiere corte sia
per la produzione e distribuzione di energia sia per la produzione e
distribuzione dei beni. Si tratta, come si vede, di una impostazione che
non è né di destra né di sinistra.
Facciamo un altro esempio.
Nel senso comune è dominante l'idea, non rispondente alla realtà,
secondo la quale c'è una chiara distinzione fra destra e sinistra
rispetto al tema dell'immigrazione: la destra vuole respingere gli
immigrati, la sinistra vuole accoglierli. E’ facile però rendersi conto
che tale contrapposizione, se mai vi è stata in passato, è ormai venuta
meno. Le concrete prese di posizione delle due parti tendono a
convergere verso una posizione mediana: accettazione di un numero
limitato di immigrati regolari[13], che vengono invitati a “integrarsi” e
a “rispettare le regole”. Le residue differenziazioni fra destra e
sinistra consistono in sfumature di questa posizione comune: la destra è
più chiusa rispetto alle diversità culturali degli immigrati e la
sinistra è più aperta; entro i limiti dati, la destra tende a ridurre il
numero degli immigrati da accettare e la sinistra ad ampliarlo. Le
posizioni più radicali, di rifiuto totale dell’immigrazione o di
tendenziale accoglienza universale, sono oggi proprie di gruppi
minoritari (settori della Lega e dell’estrema destra, sinistra
radicale), e anche in questi casi si tratta di slogan più che di scelte
politiche concrete.
E’ facile capire come tutte le posizioni
esaminate sull’immigrazione siano contraddittorie e impossibili da
applicare, e come questa impossibilità discenda dalla sostanziale
accettazione dei vincoli dello sviluppo capitalistico, e dal fatto che i
flussi immigratori sono legati a tale meccanismo. Non si può seriamente
pensare di bloccare il flusso degli immigrati, non si possono realmente
attuare politiche universali di accoglienza, non si può circoscrivere
l’immigrazione ai soli immigrati regolari. Perché non si possono
realmente bloccare i flussi? In primo luogo la cosa è tecnicamente
difficile e molto costosa. Si possono ovviamente fare molti gesti
isolati, molti respingimenti che hanno effetti crudeli sulle persone
coinvolte, ma rendere realmente impermeabili le frontiere è impossibile.
Ma
al di là di questa considerazione c’è un fondamentale aspetto
economico: l’immigrazione rappresenta, per i paesi di arrivo fra i quali
l’Italia, l’acquisizione di manodopera in condizioni di
quasi-schiavitù, che permettono di abbassare il costo di molte
produzioni e di rendere meno traumatica le lenta distruzione del Welfare State,
grazie all’offerta a basso prezzo di cure alla persona. Inoltre
l’immigrazione rappresenta un aumento del numero dei lavoratori, che è
fondamentale, nell’attuale organizzazione economica, per tenere in
ordine i conti finanziari da vari punti di vista, per esempio quello
delle pensioni.
Ma questi motivi, che impediscono di operare
realmente il blocco dell’immigrazione, sono gli stessi che impediscono
una autentica politica di accoglienza, universale o ristretta agli
immigrati regolari. Infatti, ciò di cui ha bisogno l’economia è proprio
di manodopera senza diritti, quindi ricattabile in tutti i modi. La
scomparsa, in un modo o nell’altro, dell’immigrazione clandestina,
priverebbe la manodopera immigrata proprio di quelle caratteristiche che
la rendono preziosa all’interno dello sviluppo capitalistico attuale.
Ma
allora che fare di fronte al problema dell’immigrazione? Innanzitutto
occorre rendersi conto che si tratta di un problema effettivo, e quindi
occorre liberarsi dalle immagini illusorie (tipiche della sinistra) di
una armonica società multiculturale. In un paese come l’Italia, gravato
da tanti problemi, l’immigrazione rappresenta un ulteriore elemento di
tensione per il corpo sociale. D’altra parte bisogna liberarsi dalle
illusioni (tipiche della destra) di soluzione del problema attraverso la
riduzione dei diritti degli immigrati. E’ proprio la privazione di
diritti a rendere gli immigrati carne pregiata per l’accumulazione
capitalistica, e quindi oggetto di una domanda da parte dell’economia:
la privazione di diritti alimenta l’immigrazione[14]. Allo stesso modo,
non ha senso, nelle condizioni reali in cui si attua l’immigrazione,
chiedere “il rispetto delle regole”. Le condizioni del rispetto delle
regole dipendono da chi accoglie gli immigrati. Se il nostro paese non
offre agli immigrati condizioni di vita decenti e in più di fatto
tollera l’economia criminale e l’economia sommersa, è chiaro che crea
tutte le condizioni perché non vi sia rispetto delle regole da parte
degli immigrati.
Occorre rendersi conto che, nelle condizioni
attuali, l’unica politica che può avere efficacia nel ridurre
l’immigrazione è una politica indiretta. L’immigrazione dipende da una
dinamica mondiale nella quale sono coinvolti fattori economici,
ecologici, politici e militari nei confronti dei quali il nostro paese
può fare ben poco. Non si può quindi pensare di eliminare il fenomeno,
ma si può certamente proporre una politica che ne riduca le dimensioni e
l’incidenza sulla tenuta sociale del paese. Come dicevamo, una politica
di questo tipo dovrà essere una politica indiretta: occorre un percorso
di ripristino della legalità, a partire dal ripristino dei diritti
umani garantiti dall’articolo 2 della Costituzione, quotidianamente
violati nei CIE voluti da destra e sinistra. Occorre poi una politica di
contrasto generale, a tutti i livelli, nei confronti della criminalità,
dell’economia sommersa, del lavoro nero e del lavoro privato di
diritti, che sono gli ambiti che possono attrarre gli immigrati privi di
alternative. E un tale percorso dovrebbe essere inserito all’interno di
un’economia della decrescita, che rifiutando il dogma dello sviluppo
rifiuti anche il lavoro semi-schiavile di cui oggi esso ha bisogno[15].
Si tratta di un percorso che ridurrebbe la domanda del lavoro
semi-schiavile offerto dall’immigrazione, e in questo modo ridurrebbe le
dimensioni del fenomeno. Un percorso di questo tipo, per i motivi che
abbiamo spiegato, è al di là degli orizzonti di destra e sinistra.
Facciamo
un ulteriore esempio, e riprendiamo la discussione sopra svolta sullo
stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco. Abbiamo fatto vedere come alcune
risposte “di sinistra” siano in realtà delle non risposte, e come sia
proprio il loro essere interne all’orizzonte dello sviluppo a renderle
tali. Ovviamente la destra non ha, allo stesso modo della sinistra,
nulla di sostanziale da dire. Ma che fare allora? Una possibile risposta
è stata delineata in un
bell’articolo di Guido Viale.
Si tratta della riconversione ecologica dell’economia. Il punto
fondamentale è che una simile proposta è concepibile solo fuoriuscendo
dall’ottica dello sviluppo. Sviluppando le considerazioni di Viale,
possiamo infatti osservare che una riconversione ecologica dell’economia
dovrà essere indirizzata verso il risparmio di materie prime e di
energia, e quindi, pur comportando investimenti, tenderà a far diminuire
il Pil. Per lo stesso motivo, una tale impostazione non può essere
lasciata alle libere forze del mercato perché porterebbe ad un aumento
della disoccupazione. E’ inevitabile che in una tale riconversione varie
fabbriche dovranno chiudere, e bisognerà quindi trovare modi per
compensare i lavoratori della perdita del posto di lavoro, modi che
potranno anche essere quelli suggeriti da Scalfari nell’articolo di cui
abbiamo sopra discusso, e che potranno essere realizzati solo uscendo
dall’ottica dello sviluppo. Fra queste “compensazioni” dovranno essere
privilegiate quelle non monetarie (per esempio: requisizione di
appartamenti sfitti offerti gratuitamente ai lavoratori). Questa
impostazione (riconversione ecologica finalizzata al risparmio,
accettazione della chiusura di fabbriche con compensazione dei
lavoratori fatta gravare sui ceti dominanti) permette di mantenere vivi
gli ideali storici della sinistra ma non è né di sinistra né di destra,
ed è al contrario comprensibile e accettabile per chiunque, proveniente
da sinistra o da destra, abbia superato e criticato l’ottica dello
sviluppo[16].
2. Una logica diversa dell’agire sociale e politico.
Abbiamo
fin qui fatto qualche esempio su come le diversità di obiettivi
specifici chiamate a segnare una convincente linea di demarcazione tra
destra e sinistra si dissolvano nella loro traduzione concreta. Rispetto
ai problemi economici ed ecologici posti dalla necessità di usi
crescenti dell’energia, l’obiettivo di rispondervi con tecnologie
pesanti e rigide come il nucleare, e quello di rispondervi con
tecnologie soffici e flessibili come il pannello solare, sembrano in
astratto obiettivi molti diversi, ma in concreto sono simili in quanto
obiettivi di sviluppo, economicamente ed ecologicamente inadeguati. Quel
che occorrerebbe in concreto non è una tecnologia ancora diversa per
alimentare usi crescenti di energia, ma usi decrescenti di energia
nell’ambito di una decrescita della produzione di merci. Questa
decrescita non è però un obiettivo specifico misurabile nella sua
particolarità concreta, e neppure una configurazione generale di
funzionamento della società, ma è una nuova logica secondo la quale
compiere le scelte politiche e sociali.
Generalizzando queste
considerazioni, possiamo affermare che ciò di cui abbiamo bisogno, per
combattere la crisi di civiltà cui l’attuale organizzazione economica e
sociale ci sta portando, è una nuova forza politica che sostenga non
tanto un nuovo genere di obiettivi precostituiti da opporre agli
obiettivi (solo retoricamente contrapposti) della destra e della
sinistra, ma sostenga piuttosto un modo nuovo di costituire di volta in
volta nuovi obiettivi.
Gli obiettivi di destra e sinistra,
retoricamente esibiti e contrapposti, celano una logica comune di
distruzione crescente della coesione sociale, dei diritti umani,
dell’identità nazionale e dell’ambiente naturale. Bisogna a questa
logica contrapporre un’altra logica, del tutto incompatibile con la
prima, secondo cui indicare percorsi, fissare parametri, perseguire
obiettivi, adottare ragioni.
La logica delle scelte sociali da
cui sono guidate destra e sinistra è la logica conseguente alle ragioni
dei mercati finanziari, in cui sono incardinate le regole europee di
gestione della moneta, dei bilanci e dei debiti. Abbiamo già detto del
carattere distruttivo di tale logica. D’altra parte, disobbedire a ciò
che i mercati impersonalmente esigono come mezzi necessari ai profitti
significa subire i loro attacchi speculativi, che possono affondare
monete, banche e Stati. Per contraddire la logica mortale dei mercati
finanziari occorre preventivamente privarli delle armi che rendono
possibili e devastanti i loro attacchi speculativi, vale a dire le
enormi masse di denaro che possono spostare, e l’assoluta libertà di
movimento con cui possono portarle facilmente e rapidissimamente
ovunque. Una politica responsabile verso la nazione dovrebbe sottoporre i
movimenti dei capitali a filtri di controllo, a condizioni limitatrici,
e a secche proibizioni di formule contrattuali troppo opache e
rischiose. I capitali messi in movimento speculativo, inoltre,
dovrebbero venire tassati in maniera implacabile e spoliatrice.
Una
politica di tal fatta, resa purtroppo finora impensabile ai livelli
decisionali del paese, non sarebbe né di destra né di sinistra, dato che
destra e sinistra sono entrambe identificate con la necessità di
obbedire ai mercati, ma sarebbe una semplice e lineare espressione di
una logica di giustizia.
La giustizia non è, come ha capito per
primo Platone, il contenuto normativo di una decretazione umana o
divina, ma è una logica distributiva, la logica secondo cui a ciascuno
spetta ricevere ciò che intrinsecamente corrisponde alla sua sapienza,
al suo coraggio, ed all’attività che è chiamato a svolgere a vantaggio
della società oltre che suo proprio[17]. A ciascuno il suo, rettamente e
profondamente inteso, è davvero il principio della giustizia. La
giustizia, dunque, non è l’eguaglianza, secondo un’identificazione
sostenuta un tempo dalla sinistra (e poi da essa ripudiata in modo
vergognoso). O meglio, la giustizia è anche eguaglianza, non però nel
senso di un universale livellamento degli individui (che è anzi
ingiustizia, perché non dà a ciascuno il suo), ma nel senso che
entro uno stesso livello di espressione di doti umane (e non tra
livelli diversi) le condizioni ricevute da ciascuno devono essere
uguali. C’è poi un livello di espressione umana che consiste nella
dignità ontologica del semplice essere uomo e donna. La giustizia,
proprio perché consiste nel riconoscere a ciascuno il suo, esige dunque
l’universale rispetto della dignità dell’essere umano in quanto tale.
Questa dignità è calpestata quando l’individuo è privato delle risorse
economiche indispensabili ad esprimerla socialmente.
La nozione
di dignità umana nella sua connessione con la maniera in cui è
organizzata la produzione economica compare ripetutamente nella
Costituzione italiana, che è ispirata da una logica di giustizia, e che
perciò è stata rinnegata di fatto dalla sinistra, con l’ipocrisia di
esaltarne lo spirito sul piano puramente verbale. L’articolo 36 della
Costituzione esige che la retribuzione del lavoratore sia tale da
consentire “un’esistenza libera e dignitosa” non soltanto al lavoratore
stesso, ma anche ai suoi familiari. L’articolo 41 riprende
esplicitamente la nozione di dignità, parlando di una “dignità umana” (e
di una sicurezza sul lavoro in essa inclusa), cui l’iniziativa
economica privata, della quale è riconosciuta la libertà, non può in
alcun caso arrecare danno. L’articolo 37 presuppone la dignità della
donna lavoratrice e del minore avviato al lavoro riconoscendo loro, a
parità di lavoro, retribuzione pari a quella del maschio adulto, ed
esigendo limiti minimi di età e speciali forme di tutela per il lavoro
dei minori. L’articolo 38 presuppone un’intatta dignità umana nelle
situazioni in cui il lavoro è impedito da malattie, infortuni, vecchiaia
e licenziamenti, e stabilisce che chi, in queste situazioni, manca di
mezzi di sostentamento, ha un vero e proprio diritto ad essere mantenuto
dallo Stato.
E’ ben noto che i governi che si sono succeduti in
Italia negli ultimi tre decenni, di destra e di sinistra, hanno fatto
carta straccia di questi articoli della Costituzione. Basta guardare la
realtà delle cose oggi in Italia per vedere come questi e tanti altri
articoli della Costituzione siano totalmente disattesi: il lavoro
precarizzato e talvolta, specie per gli extracomunitari, addirittura
schiavile, cancella ogni progetto individuale di vita e ogni rispetto
della dignità delle persone; l’iniziativa economica privata viene
foraggiata con denaro pubblico e lasciata libera di creare lavori senza
sicurezza né economica né fisica per i lavoratori; le donne sono
sfavorite rispetto agli uomini nelle retribuzioni e nelle carriere; gli
ingressi nel lavoro sono spesso sottopagati o addirittura non pagati; e
una generale assenza di protezione sociale costringe ad accettare lavori
senza diritti.
La ragione di tutto questo è semplice: la destra e
la sinistra in politica, e naturalmente le classi dominanti
nell’economia, ritengono ineludibile la logica del governo della società
da parte dei mercati, che è oggi incompatibile con ogni altra logica,
in particolare con quella della Costituzione e della giustizia, che
viene perciò resa dalla prima totalmente inoperante[18].
Una
nuova forza politica, oltre l’orizzonte dell’alternativa di destra e
sinistra, dovrebbe prima di tutto individuare la necessità, per salvare
l’Italia dallo sfacelo sociale e civile, di un’inversione completa delle
priorità valoriali. La logica della giustizia e, sul piano giuridico,
della Costituzione formalmente vigente (ma di fatto inoperante) deve
essere considerata assolutamente inderogabile.
3. Difesa della giustizia e decrescita.
Un
primo fondamentale punto di partenza per una forza politica di
alternativa dovrebbe essere il seguente: occorre pretendere che nessuno
in Italia, ma proprio nessuno, sia privo dei mezzi necessari per
costruirsi un percorso di esistenza adeguato, secondo giustizia, alle
proprie doti personali, e per viverlo serenamente, e che nessuno, ma
proprio nessuno, sia costretto ad un lavoro che gli rubi il tempo e
l’energia per una vita sensata e metta a repentaglio la sua sicurezza
fisica. Folle utopia? No, unica alternativa realistica alla totale
disarticolazione della nostra società nel caos e nella violenza diffusa.
Impossibilità economica? No, come ci accingiamo a spiegare. La sola
difficoltà, certo gigantesca, è quella di spazzare via l’intero ceto
dirigente istituzionale, di governo e di sedicente opposizione, che
ostruisce ogni possibile via d’uscita all’attuale stato di degradazione.
Sul
piano economico ci sono ben quattro fonti di finanziamento dei grossi
costi richiesti dall’attuazione della Costituzione per quanto riguarda
il riconoscimento dei diritti previsti dal titolo terzo della sua prima
parte, quella relativa ai rapporti economici. Le elenchiamo in ordine
decrescente rispetto all'entità delle risorse che esse renderebbero
disponibili[19]:
1. Imposta ordinaria sul patrimonio
complessivo delle persone fisiche e giuridiche, capace di prelevare le
ricchezze là dove si sono concentrate e ingigantite negli ultimi decenni
attraverso la crescita delle diseguaglianze sociali e dell’evasione
fiscale. L’aliquota non dovrebbe essere alta, perché l’imposizione non
dovrebbe essere straordinaria, ma permanente come quella sul reddito, in
modo da assicurare regolari entrate annuali.
2.
Eliminazione dei costi della corruzione, che gravano pesantemente sui
bilanci pubblici, perché accrescono capillarmente in tutti i settori le
spese per gli appalti e creano nuove spese per opere inutili o lasciate
incompiute. L’attuazione di questo punto esige una riforma del sistema
giudiziario che gli dia i mezzi per operare in modo efficace e rapido, e
che ne accetti e solleciti il controllo di legalità sulla vita
pubblica. Gli sprechi nella spesa pubblica, di cui tanto si parla,
quando sono veramente tali non sono che il risvolto di fenomeni
corruttivi.
3. Riduzione delle spese militari attraverso la fine
di tutte le operazioni di guerra, disgustosamente chiamate missioni di
pace, fuori dall’Italia, e la correlativa fine dell’acquisto dei sistemi
d’arma ad esse necessari.
4. Riduzione del costo del ceto
politico mediante la riduzione sia del numero delle cariche di elezione o
nomina politica sia dell’entità dei compensi che assicurano, e mediante
la soppressione di spese indirette come i rimborsi elettorali e i
finanziamenti alla stampa di partito[20].
Attraverso
queste quattro fonti di prelievo di ricchezza potrebbero venire
mobilitate grandi risorse per finanziare un piano nazionale di piena
occupazione e di rispetto del diritto della persona al riconoscimento
della sua dignità sociale nel lavoro.
Eppure ciò non basterebbe,
perché si tratterebbe comunque di prelievi dal Prodotto Interno Lordo,
che per sua natura deriva dal valore monetario delle merci, ed è perciò
alimentato dal circuito commerciale e dalla competitività aziendale che
vi dà accesso. Come abbiamo spiegato nella parte iniziale di questo
saggio, l’incremento del Pil, cioè lo sviluppo, implica, in un paese
come l’Italia e in questa fase storica, riduzione dell’occupazione e
perdita di diritti del lavoro. Una logica di rispetto della dignità del
lavoro tende perciò a contrarre il Pil, contraendo, a parità di criteri
di prelievo, le risorse che ne vengono tratte.
Per affrontare
questo problema, guardiamo la questione da un altro punto di vista. Oggi
la dignità delle persone è compromessa anche dal fatto che mancano o
sono resi progressivamente meno efficienti e meno accessibili i servizi
pubblici necessari a soddisfare bisogni essenziali. Gli imperativi della
competitività derivanti dalla logica dei mercati fanno infatti arrivare
sempre meno risorse a questi servizi, obbligando ad una loro gestione
aziendalistica, che comporta minori gratuità per gli utenti e un minor
numero di addetti per le prestazioni, con conseguenti riduzioni
quantitative e qualitative delle prestazioni stesse. Dappertutto i
servizi pubblici hanno piante organiche inferiori al passato, e quasi
mai coperte per intero nonostante il minor numero di posti da coprire.
Mancano così infermieri negli ospedali, con grave pregiudizio per la
cura e per l’umanità nei confronti dei pazienti; mancano addetti
all’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, con
l'effetto o di un loro abbandono in condizioni degradanti o di un
pesante onere per le famiglie; manca il personale per asili nido e
scuole materne, rendendo difficile la vita alle donne lavoratrici con
figli piccoli; mancano professori e custodi nelle scuole, degradandone
il servizio; manca personale di sportello negli uffici, rubando alle
persone tempo di vita con le lunghe code necessarie per qualsiasi
adempimento burocratico; si viaggia su treni talvolta con un solo
macchinista e un solo ferroviere, esposti a pericoli di vario genere, e
si transita in stazioni abbandonate di notte.
Immaginiamo ora che
una politica di piena occupazione porti ad immettere al lavoro, nei
servizi pubblici prima menzionati e negli altri, tutto il personale
necessario a garantire un loro ottimo funzionamento. Immaginiamo che,
con un numero sufficiente di infermieri, alcuni di loro possano venire
destinati, per una parte del loro tempo di lavoro, all’assistenza
domiciliare di qualche anziano. Immaginiamo che per svolgere questo
servizio abbiano a disposizione locali in cui possano vivere,
individualmente o con qualche loro congiunto[21]. L’anziano non
autosufficiente disporrebbe di un salario indiretto costituito dal
risparmio delle spese per una badante o del tempo dei suoi familiari,
l’infermiere disporrebbe di un salario indiretto costituito dal
risparmio di un canone d’affitto. I rispettivi salari indiretti
aumenterebbero il tenore di vita dei due soggetti persino con una
qualche diminuzione dell’erogazione finanziaria nei loro confronti (ad
esempio con un salario leggermente inferiore all’infermiere in presenza
di un suo ben più consistente risparmio nell’affitto della casa).
D’altra parte le spese risparmiate dall’anziano per una badante,
sostituite da un servizio non passante per via mercantile,
corrisponderebbero ad una decrescita della produzione di valori di
scambio.
Oppure si pensi al salario indiretto che può offrire una
scuola materna che accolga in modo gratuito i bambini, magari, in
conseguenza di una politica di piena occupazione, dalle abitazioni del
proprio circondario, e quindi senza costi di combustibile, e magari
facendo mangiare loro i cibi del proprio orto. Chi disponesse di un
salario indiretto di questo tipo risparmierebbe tempo e denaro, e
potrebbe quindi godere di un più alto tenore di vita anche con un
salario diretto leggermente più basso. Lo stesso lavoro di maestre e
maestri di scuola materna, fornitori di questo salario indiretto,
potrebbe a sua volta venire parzialmente retribuito con salario
indiretto, costituito, ad esempio, dalla gratuità di servizi sanitari e
servizi di trasporto.
Questi esempi servono a mostrare la
possibilità logica di un miglioramento del tenore di vita individuale a
Pil e spesa pubblica decrescenti.
La logica del rifiuto degli
obiettivi, di destra o di sinistra, realizzabili solo attraverso lo
sviluppo, e quindi insensati, vale a dire la logica della decrescita del
Pil, è dunque l'unica logica di scelta sociale capace di rimuovere gli
ostacoli economici ad una vita dignitosa delle persone. Occorre
naturalmente che la contrazione del Pil sia una demercificazione
dell'economia al di fuori dei parametri dello sviluppo, e non una crisi
recessiva dello sviluppo, che avrebbe effetti sociali negativi anziché
positivi. Per questo è necessario, come si evince dagli stessi esempi
fatti, il contesto di una politica di piena occupazione e di intervento
dello Stato nell'iniziativa economica privata e nei diritti di
proprietà. L'esempio che abbiamo fatto di una scuola materna funzionale
alla decrescita presuppone uno Stato in grado di assumere personale,
disporre di una grande quantità di edifici pubblici, requisire terra per
gli orti.
La logica della decrescita nega quindi la logica del
mercato, così come la logica del mercato nega la logica della
decrescita, ovvero ogni logica di giustizia e rispetto della dignità
delle persone. La logica del mercato è la logica dello sviluppo perché
lo sviluppo è accrescimento del Pil, vale a dire del valore complessivo
delle merci di cui il prodotto interno lordo consiste, ed il valore
delle merci si realizza nell'ambito del mercato, secondo la sua logica.
La logica del mercato, come funzione della logica dello sviluppo, è la
logica della competitività aziendale. Se un'azienda vuole stare sul
mercato, riuscendo a realizzarvi il valore delle merci che vi immette, e
che vanno così ad accrescere il Pil, deve essere competitiva con le
altre.
Per capire le conseguenze della logica del mercato riprendiamo ancora una volta il tema di Pomigliano e leggiamo
la lettera
scritta dall'amministratore delegato della FIAT Sergio Marchionne agli
operai di Pomigliano per dire loro che la Panda sarà costruita nella
loro fabbrica. In un brano di questa lettera scrive:
«Le
regole della competitività internazionale non le abbiamo scelte noi e
nessuno di noi ha la possibilità di cambiarle. L'unica cosa che possiamo
scegliere è se stare dentro o fuori dal gioco. Non c'è perciò nulla di
eccezionale nelle nostre richieste. Abbiamo solo la necessità di
garantire normali livelli di competitività ai nostri stabilimenti […]
Non c'è niente di straordinario nel voler aggiornare il sistema di
gestione, per adeguarlo a quello che succede a livello mondiale».
Anche
in una lettera tutta miele quale Marchionne avrebbe inteso scrivere (vi
esordisce infatti dicendo che non parla come azienda, che è un'entità
astratta, né tanto meno come padrone, quale non si sente, ma come
persona che vuole comunicare in modo diretto ed umano con amici con i
quali va deciso un comune futuro), traspare il veleno mortale della
logica di mercato. Garantire ad uno stabilimento “normali livelli di
competitività”, dice infatti Marchionne, è una necessità, altrimenti
esso non sopravvive. Ma cosa determina i “normali livelli di
competitività”? «Quello che succede a livello mondiale», risponde
giustamente Marchionne, per cui è a suo parere ovvio che “quello che
succede a livello mondiale” costituisca il criterio a cui adattare il
sistema di gestione di ogni stabilimento affinché sia competitivo. Il
mercato mondiale spinge dunque ad innovare i sistemi di gestione in
funzione dei suoi criteri di competitività, ma poi sono proprio le
innovazioni accrescitive della competitività che, generalizzandosi,
determinano ulteriormente quei criteri, rendendoli sempre più severi.
Ecco,
chiaro davanti ai nostri occhi, il veleno: se la competitività
“normale” per stare sui mercati cambia nel tempo, ovviamente in una sola
direzione, cioè esigendo uno sfruttamento sempre più duro del lavoro,
ed è escluso per principio un limite, appunto perché è escluso per
principio non essere competitivi, cosa diremo quando per stare sui
mercati occorrerà un lavoro di quindici ore giornaliere a pane e acqua?
Diremo che questo è pur sempre meglio che morire proprio di fame?
Accetteremo un referendum che chieda ai lavoratori: preferite quindici
ore di lavoro ad acqua e pane sufficiente per voi e per le vostre
famiglie, magari con l'aggiunta di un po' di buon companatico se di ore
ne farete diciassette (soltanto, per carità, se deciderete voi stessi
liberamente di accettare gli straordinari) oppure preferite morire
fisicamente di fame, visto che l'azienda non può darvi nessun lavoro e
nessun reddito in quanto ci sono polacchi disposti, pur di sopravvivere,
a lavorare quindici ore al giorno a pane e acqua, ed anche ad essere
frustati se non seguono i tempi giusti (e questo, pensate, non ve lo
chiediamo neppure)?
Ecco: tutto il verbalismo insulso della
destra e della sinistra, per cui per fare quello e quell'altro “ci vuole
la crescita”, non si sente mai tenuto a rispondere a questa
semplicissima obiezione: dopo l'avvento della cosiddetta
globalizzazione, la crescita è impossibile senza competitività, è
impossibile senza una progressiva perdita di diritti e dignità del
lavoro, come è provato dai fatti stessi, perché proprio questo è
avvenuto negli ultimi venti o trent’anni. Dobbiamo davvero continuare ad
andare in questa direzione, fino all'avvento della schiavitù? Oppure
dobbiamo uscire dai mercati?
E’ sulla risposta a questa domanda
che si gioca il discrimine vero fra chi si oppone alla degradazione
della società contemporanea e chi la accetta.
Destra e sinistra,
con mille sfumature diverse, rispondono che non si può uscire dai
mercati, il che significa che esse accettano la degradazione del lavoro,
la distruzione dei diritti, il caos sociale, la violenza, la
distruzione ambientale che il capitalismo attuale crea. E’ questa
accettazione di fondo che rende appunto semplici sfumature le differenze
che possono continuare ad esserci fra destra e sinistra. Chi voglia
invece costruire una forza politica di alternativa alla crisi di civiltà
che ci aspetta deve invece rispondere “sì, occorre uscire dai mercati”.
Certamente uscire dai mercati non è indolore, e i danni dell'uscirne
sono tanto maggiori, e persino insostenibili, quanto più la
configurazione economica generale dipende dai flussi del commercio
internazionale. Ma se puntassimo davvero sulla decrescita, consumando
sempre più beni non in forma di merci, e sempre più merci provenienti da
filiere corte e stagionali, riducendo drasticamente consumi energetici e
produzione di rifiuti, ed ampliando aree di produzione economica
cooperativa o statale a scapito di quelle private e commerciali, il
paese potrebbe non stare sui mercati e non tributare i suoi sacrifici
umani al dio della competitività. Se tutto ciò non risulta chiaro, è
perché non siamo ancora usciti dal nebbioso politichese di destra e di
sinistra, con i suoi luoghi comuni dementi, ma ancora influenti. Il
ripristino di un linguaggio che parli della realtà è un altro dei grandi
temi di una forza politica di alternativa.
4. Tornare ad un linguaggio che parli della realtà.
Chiunque
sia interiormente orientato da una logica di ricerca della trasparenza e
della verità delle cose è spinto prima di tutto da un suo istinto
mentale al disgusto verso l'intero spettro della politica istituzionale
segnata dalle articolazioni di destra, centro-destra, centro, sinistra
moderata e sinistra cosiddetta radicale[22].
Ciò che suscita un
disgusto primario, anteriore cioè alla considerazione stessa delle
dinamiche di potere svolte entro quello spettro, è il verbalismo
retorico vacuo e truffaldino dei loro protagonisti, con il quale essi
fanno evaporare la realtà nelle parole, negano di fare ciò che fanno, si
attribuiscono meriti che non hanno, e conciliano nei discorsi ciò che è
inconciliabile nei fatti, in modo da dare per già fatto ciò che non
hanno alcuna intenzione di fare. I politicanti dell’Italia contemporanea
hanno inventato un linguaggio-argilla, che può essere manipolato in
tutti i modi, e che permette loro di non essere mai vincolati a nessun
impegno. L’invenzione di questo linguaggio è una conseguenza della
trasformazione del ceto politico da rappresentante degli interessi dei
diversi ceti sociali a ceto sociale autoreferenziale, che cura solo i
propri interessi, e che lascia la società in balia dell’economica
capitalistica. Il meccanismo di questa trasformazione, e lo svuotamento
di destra e sinistra che essa comporta, li abbiamo descritti nella prima
parte. Il fatto che destra, centro e sinistra convergano nell’uso di un
linguaggio privo di qualsiasi aggancio con la realtà è un indizio in
più della loro sostanziale omologazione. Così, non è importante sapere
chi sia stato a inventare espressioni ignobili come “missioni di pace”
per definire interventi di guerra fuori d'Italia. L’importante è capire
che un ceto politico che fa proprie simili espressioni è in grado di
dire qualsiasi cosa. Potrebbero dirci che sono dimagriti arrivando a
pesare dieci chili più di prima, che sono saliti dalla pianura in
collina percorrendo una strada sempre in discesa, che hanno spento un
incendio con getti di benzina. Ed in effetti ci dicono ogni giorno cose
simili. Che vogliono i CIE per gli extracomunitari, ma nel rispetto dei
diritti di costoro. Che sostengono il diritto dei palestinesi ad avere
un proprio Stato in Palestina, ma in uno spirito di amicizia e nel
rispetto della cooperazione politica e militare con lo Stato di Israele
(Stato nato e cresciuto come coloniale, etnico e religioso, e disposto a
far nascere uno Stato palestinese come l'OAS lo sarebbe stata a far
nascere uno Stato algerino). Che auspicano la costruzione di
rigassificatori marini, ma sicuri e rispettosi dell'ambiente. Il vertice
di questo assurdo linguaggio senza referente è stato forse toccato
l'anno scorso dall'esponente del PD spezzino Moreno Veschi. Riferiscono i
giornali di allora che, dopo la campagna scatenata sul suo blog da
Beppe Grillo, e un’inedita mobilitazione di gruppi ambientalisti, il
Consiglio regionale della Liguria ha votato l'esclusione del parco
naturale di Monte Marcello dall'applicazione dell'appena annunciato
piano-casa di Berlusconi, autorizzante aumenti di cubatura edilizia e
cambi di destinazione d'uso di locali in deroga alle norme urbanistiche.
Ebbene: subito dopo il voto il consigliere regionale Moreno Veschi si è
rivolto ad una persona presente nel pubblico dicendogli: «Visto? Siamo finalmente riusciti a salvare il parco di Monte Marcello!»,
proprio lui, che dodici ore prima (dodici ore soltanto, neppure un
giorno prima!) si era opposto ad un emendamento volto a salvare il parco
dal cemento, per poi accodarsi al nuovo atteggiamento strumentalmente
assunto dal suo partito[23].
Moreno Veschi può venire dunque
considerato la raffigurazione stessa del linguaggio vuoto, senza verità e
senza significato, adottato da tutto intero il ceto politico. Quando ad
esempio, Prodi, appena tornato nel 2006 a governare l'Italia con una
coalizione di centro-sinistra che lasciava qualche strapuntino di potere
a Rifondazione comunista, ha predisposto una legge finanziaria che ha
ritoccato qualche aliquota fiscale, la stessa Rifondazione comunista ha
fatto comparire nelle città un suo manifesto in cui sotto l'immagine di
un'imbarcazione di lusso campeggiava una scritta “Anche i ricchi
piangono”. Forse Prodi aveva preparato un'imposta patrimoniale sulla
grandi ricchezze? Oppure aveva deciso di tassare le rendite finanziarie
secondo la media europea, e non meno della metà di quanto fosse tassato
un povero libretto di risparmio postale? Oppure aveva riportato le
aliquote fiscali sui redditi massimi a quelle che erano state vigenti
nell'Italia democristiana? Nulla di tutto questo. Limitati e
cervellotici cambiamenti di aliquote erano stati predisposti riguardo ai
redditi di fascia media e medio-alta, tassando un po' di più i redditi
medi superiori e un po' di meno i redditi medi inferiori, scontentando
giustamente tutti gli interessati (i beneficiati accorgendosi che i loro
benefici erano spiccioli, gli aggravati ritenendosi vittime di
un'ingiustizia), senza neppure sfiorare i redditi alti e altissimi.
Perché allora i ricchi avrebbero dovuto piangere? Semmai potevano
ridersela. Si è trattato, è evidente, di un puro verbalismo senza
contenuto, il cui scopo era di propagandare l'immagine di una
Rifondazione che è entrata nel governo per togliere ai ricchi e dare ai
poveri.
All’inizio del 2007 vi è in Parlamento la relazione sulla
politica estera del governo Prodi. Due parlamentari della maggioranza
(Turigliatto di Rifondazione e Rossi del PdCI) fanno mancare il loro
voto, per esprimere la loro opposizione alla partecipazione italiana
alla guerra in Afghanistan, rischiando di far cadere il governo. Il
mondo mediatico e intellettuale della sinistra scatena una campagna di
lapidazione morale dei due, dagli attacchi diretti del segretario di
Rifondazione Comunista Franco Giordano fino alle volgarità di Luciana
Littizzetto durante la trasmissione Che tempo che fa, nel suo monologo comico davanti a Fabio Fazio.
Siamo
anche in questo caso in presenza di un linguaggio che non tiene più
conto della realtà, se si tiene presente che Rifondazione e Comunisti
Italiani avevano in precedenza sempre votato contro la spedizione in
Afghanistan. I dissidenti non erano dunque Turigliatto e Rossi, ma tutti
gli altri parlamentari di PRC e PdCI, che avevano votato questa volta
in dissidenza dalle loro prese di posizione precedenti, semplicemente
perché chi li chiamava al voto era Prodi e non Berlusconi.
Ancora
sul linguaggio della cosiddetta sinistra radicale: tutte le volte che,
trovandosi in una maggioranza di governo, ne ha avallato, pur di non
esserne estromessa, provvedimenti contro il lavoro, ha usato, con
meccanica e fastidiosa ripetitività, l'espressione “macelleria sociale”,
per sostenere di averla potuta evitare soltanto con quell'avallo. Il
linguaggio diventa in questo modo assurdo, perché evoca l'assenza di ciò
che è presente e prodotto, come se uno dicesse, mentre sta mangiando,
“non sto toccando cibo”. Così nel 1997, sotto il governo Prodi,
l'approvazione parlamentare del cosiddetto “pacchetto Treu”, che apriva
le porte all'inferno del lavoro precario e senza prospettive per i
giovani, avvenne con il voto determinante di Rifondazione comunista, e
tale voto, che fu un vero atto di “macelleria sociale”, se le parole
devono avere un senso, fu presentato come un atto che era servito ad
impedire la “macelleria sociale”[24].
C'è dunque un'altra
necessità, oltre quella imposta dalla logica della giustizia che abbiamo
prima considerato, di andare oltre la falsa dicotomia destra-sinistra,
ed è la necessità di non far morire quello che i greci chiamavano il logos, cioè un linguaggio che nel suo articolarsi sia svolgimento del pensiero, esprimendo la realtà e la verità delle cose.
Il
ceto politico nella sua interezza negli ultimi decenni ha diffuso una
retorica della comunicazione in cui non c'è la minima traccia di logos,
perché le sue parole non aderiscono a nulla che non sia una
valorizzazione pubblicitaria di chi le dice, senza alcun referente nello
stato dei fatti. Questa retorica della comunicazione senza logos
produce le risse televisive tra politicanti di destra e di sinistra,
che cercano di sopraffarsi a vicenda senza conoscere ciò di cui parlano e
senza far capire nulla al telespettatore. In questo c'è un'enorme
responsabilità di quasi tutti i conduttori, che quando trattano un tema
di attualità chiamano a dibatterlo, nei loro salotti televisivi, la
solita platea affollata di politicanti di destra, centro e sinistra che
si beccano senza costrutto come galli nel pollaio, mentre si dovrebbero
far parlare soltanto persone competenti.
Il fatto che il vuoto verbalismo senza traccia di logos
sia diventato bastevole alla comunicazione politica ha contribuito,
accanto ai meccanismi sempre più perversi di selezione del ceto
dirigente, a portare in parlamento e nel governo figure opache e senza
radici culturali né consapevolezza storica, puri manichini del presente.
Non dobbiamo dare più peso alle distinzioni tra destra e sinistra entro
il ceto politico anche perché non dobbiamo più sopportare di essere in
mano a politicanti, quali sono quelli di destra e di sinistra, per cui
la cultura, le ragioni, la sostanza delle questioni, non hanno
significato, non avendo essi neanche le parole per significarle.
5. Non consumiamo il territorio.
L'Italia
è trascinata nel baratro, oltre che dall'imperativo della competitività
che la spinge verso la cancellazione dei servizi sociali e la riduzione
del lavoro a schiavitù, anche dagli obiettivi di uso del territorio per
generare profitti privati, introiti comunali e finanziamenti politici,
che la spinge al dissesto geologico, alle frane che inghiottono abitati,
all'avvelenamento delle falde acquifere, alla compromissione del
turismo.
Destra e sinistra mettono continuamente in campo
obiettivi specifici, talora diversi talora simili o identici, di uso del
territorio come mezzo di produzione di plusvalore. Per quanto riguarda
gli obiettivi messi in campo dalla destra, si pensi alla grande
tangenziale esterna est di Milano, voluta dal presidente della regione
Lombardia Roberto Formigoni, e all'espansione delle infrastrutture
edilizie nel cosiddetto Parco Sud, l'unica area verde di Milano
sopravvissuta, voluta dal sindaco di Milano Letizia Moratti. Per quanto
riguarda gli obiettivi messi in campo dalla sinistra, si pensi ad una
regione come la Liguria, negli ultimi decenni quasi continuamente
amministrata dal centrosinistra, che ha accettato la costruzione di
sempre nuovi porticcioli turistici, il progetto del raddoppio
dell'autostrada a Genova (la cosiddetta “gronda”), la costruzione di un
parcheggio sotterraneo a Genova nel sito dello storico parco
dell'Acquasola. Su scala nazionale, la destra è favorevole al megaponte
sullo stretto di Messina, a cui tutta la sinistra è contraria. Ma si
trovano nel PD i fautori dell'alta velocità ferroviaria, come i
piemontesi al seguito del sindaco di Torino Chiamparino, volutamente
immemori dei disastri ambientali prodotti dai cantieri dell'alta
velocità in una vasta area tosco-emiliana, fortemente voluti dagli
esponenti del PD di quelle regioni, Bersani in testa.
La
salvaguardia della nazione esige che agli obiettivi, differenziati o
identici, della destra e della sinistra, di uso del territorio a scopo
di profitto economico, una nuova forza politica contrapponga non
obiettivi diversi, ritenuti più razionali e più ecocompatibili, ma una
logica opposta a quella che guida la scelta di quegli obiettivi, vale a
dire una logica di assoluto non ulteriore consumo del territorio. Qui è importante sottolineare l'aggettivo assoluto:
il consumo del territorio deve cioè essere arrestato del tutto, senza
più alcuna grande opera aggiuntiva, senza più neppure pale eoliche e
sistemi fotovoltaici, ad eccezione, tra questi ultimi, di quelli
impiantabili su territorio già consumato, come sui tetti degli edifici.
Si tratta ora di spiegare la necessità di questa assolutezza.
La
logica del consumo del territorio è imposta dalla logica della crescita.
Se cioè si ritiene necessaria la crescita annuale significativa del Pil
(e destra e sinistra concordano nel ritenerla assolutamente necessaria,
perché entrambe non sanno concepire altre realizzazioni sociali se non
mercantili, e quindi realizzabili soltanto con finanziamenti prelevati
dal prodotto interno lordo), poiché manifatture e servizi generano oggi
nel loro complesso ben poco plusvalore, e poiché sul terreno produttivo,
a prescindere cioè dalla finanza, solo il consumo del territorio
assicura un'alta redditività, per molteplici ragioni (drenaggio
massiccio e nascosto di risorse pubbliche, possibilità di sfruttamento
molto pesante di mano d'opera, facilità di elusione fiscale, alta
domanda finale da parte di pubblici amministratori e privati
speculatori), non si può far altro che promuovere il consumo del
territorio.
Senonché, al punto in cui siamo giunti in Italia, il
consumo del territorio è una triplice follia. È follia, in primo luogo,
perché il dissesto idrogeologico del paese è tale che la sua ulteriore
cementificazione non può che moltiplicare disseccamenti e avvelenamenti
di corsi d'acqua, e, contemporaneamente, tracimazioni e frane, con la
finanza pubblica chiamata a pagare i danni del profitto privato
dissennatamente perseguito.
Il consumo del territorio è follia
anche perché, al punto in cui siamo, esso non può che completare la
distruzione già avanzata della bellezza dei paesaggi italiani e della
straordinaria eredità storico-archeologica del paese. Si pensi che
secondo l'ONU l'Italia possiede circa metà del patrimonio
storico-artistico dell'umanità. Impoverire i siti archeologici,
imbruttire i paesaggi naturali, alterare gli insediamenti storici,
indebolisce la cultura e l'identità della nazione, cosa però di cui
nulla importa ai nostri incoltissimi politicanti di destra e di
sinistra. Rimane tuttavia il fatto che in questo modo non si coltiva il
turismo, che difatti ha registrato già, nell'ultimo decennio, una
significativa flessione, a vantaggio di altri paesi come la Spagna e la
Croazia. Ora, puntare tutto sulla crescita del Pil, come fanno i nostri
politicanti di destra e di sinistra, e nello stesso tempo depauperare
una sorgente fondamentale di introiti mercantili, e quindi di crescita,
come il turismo, non è certo sensato.
Il consumo del territorio è
infine follia perché, all'intensità con cui avviene, si è calcolato che
nel giro di pochi anni, forse appena una quindicina anni, non ci sarà
più in Italia territorio da consumare senza spese esorbitanti. Dunque
promuovere la crescita attraverso il consumo del territorio significa
far correre il paese verso un arresto traumatico della crescita stessa,
generando quindi non la decrescita della demercificazione, ma una grave
crisi recessiva con tutti i danni economici e sociali che comporta.
Una
logica di assoluto non ulteriore consumo del territorio consente invece
di far convergere l'attività economica in una estesa e prolungata
manutenzione dell'esistente, migliorando la qualità della vita degli
abitanti, creando molti posti di lavoro, e rendendo possibile una
parziale demercificazione dei loro compensi. L'assoluto non ulteriore consumo del territorio
consente inoltre i necessari interventi riparativi sul territorio già
consumato, valorizzando preziose competenze professionali, come ad
esempio quelle dei geologi. L'assoluto non ulteriore consumo del
territorio consente infine di risolvere l'emergenza abitativa che si è
determinata in Italia. Uno dei pregiudizi più diffusi, ma completamente
sbagliati, è che per dare casa a chi non ce l'ha occorra costruire nuove
case. Si pensi che secondo le statistiche ufficiali dell'ultimo mezzo
secolo (1960-2010) la popolazione italiana è cresciuta del 25%, mentre
il numero delle case costruite è cresciuto nello stesso periodo del
250%. Non dovrebbe quindi esserci nessuno senza casa. Invece, dopo il
rifiuto democristiano, nel 1964, di accettare la posizione di Riccardo
Lombardi secondo cui a quel punto la cosa più urgente da fare per
l'Italia era una legge urbanistica che abolisse la proprietà privata dei
suoli e riconoscesse ai privati solo un diritto di edificabilità su
concessione pubblica, e di dar corso ad un progetto di legge del genere
predisposto da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo, l'edilizia
pubblica è diminuita decennio dopo decennio. Le case le hanno costruite
sempre più soltanto i privati, in un'ottica di sfruttamento selvaggio, e
perciò redditizio, del territorio, ma proprio per questo si è trattato
in larga parte di ville per ricchissimi, di seconde e terze case di
villeggiatura per i ceti medio-alti, e di case per grandi società
immobiliari intenzionate a lasciarle sfitte per innestarvi circuiti di
compravendite speculative, come se si trattasse di azioni (si pensi ad
un Ricucci). Promuovere il consumo del territorio significa dunque bensì
costruire, ma non dare casa a chi ne ha bisogno. Non consumare
territorio significa invece spezzare una crescita speculativa e malata
dell'edilizia (fonte, ma questo richiederebbe un altro lungo discorso,
di uno sfruttamento brutale del lavoro che ne fa luogo di incidenti
mortali, e di grandi investimenti e guadagni per mafie di ogni genere) e
rendere così possibile la destinazione delle case già pronte per essere
abitate, e di quelle che potrebbero esserlo con lavoro di manutenzione
della mano pubblica, a quanti sono oggi senza casa.
Un altro
aspetto del consumo del territorio è l'invasione degli spazi pubblici da
parte della pubblicità. I luoghi di sosta dei cittadini (uffici
postali, stazioni) sono invasi dalla pubblicità e da luoghi di vendita
dei più diversi tipi. In questo modo tali luoghi pubblici accentuano il
loro carattere di non-luoghi, meri supporti del flusso delle
merci, e il cittadino, che vi si reca non per acquistare ma per altre
esigenze, è così spinto all'acquisto inutile. Anche questo è un consumo
del territorio da combattere.
6. Ripristino della legalità.
Abbiamo
fin qui spiegato che una forza politica alternativa dovrebbe rifiutare
la competitività mercantile per la dignità della persona, rifiutare la
crescita del prodotto interno lordo per una decrescita delle merci
migliorativa della qualità della vita, rifiutare il consumo economico
del territorio per un suo reintegro sociale, rifiutare il verbalismo
retorico privo di realtà per un linguaggio espressivo della verità delle
cose.
Dovrebbe anche, però, perseguire una logica di legalità.
La legalità, oggi, è disprezzata, a destra, per non mettere in questione
il malaffare, e, a sinistra, per mantenere il primato della politica
anche quando non è più vera politica ma pura lotta per le poltrone. Non
c’è qui materia per una discussione razionale, perché le motivazioni in
questi casi nascondono malamente gli sporchi interessi della casta
politica.
L’unica critica al principio di legalità che abbia una
dignità culturale è quella che viene dall'estrema sinistra, con
l’argomento che la legge vigente è sempre quella delle classi dominanti,
per cui il legalitarismo è contrario agli interessi delle classi
subalterne. A questa obiezione si può rispondere che la realtà è più
complicata, perché le leggi riflettono anche momenti di tregua nei
conflitti di classe non svantaggiosi per le classi subalterne, e che le
leggi che svolgono una certa funzione in una certa fase storica possono
svolgerne un'altra in una fase successiva in cui sono rimaste vigenti.
In Italia, in particolare, il principio di legalità rettamente inteso
legittima, o addirittura impone, il rifiuto di leggi ordinarie alla luce
di quella suprema fonte di legalità che è la Costituzione, e il punto
decisivo è che il concreto percorso storico ha reso oggi la Costituzione
stessa una trincea avanzata proprio nella lotta contro le classi
dominanti (i cui esponenti non a caso ne chiedono spesso cancellazioni).
Occorre quindi che forze nuove e fresche vadano a presidiare la trincea
della Costituzione, per dare all'Italia l'unica rivoluzione al momento
scritta nelle cose, una rivoluzione che spazzi via senza compromessi
l'attuale ceto dirigente politico ed economico, per imboccare una nuova
strada di civiltà dal percorso e dall'esito sociale non prefigurabile.
Chi
pensa che lottare per imporre al paese una logica di legalità fondata
sui principi della Costituzione sia poca cosa dovrebbe meditare su una
considerazione fatta l'anno scorso dal procuratore Vito Zancani. Questi,
parlando della realtà non di Corleone o di Casal di Principe, ma della
padana Modena, ha affermato che se, magicamente dotato di poteri
miracolosi, potesse far sì che nella città emiliana non andasse più a
buon fine alcun reato, ne distruggerebbe l'economia, e non avrebbe il
plauso di una popolazione ridotta in miseria.
Non si tratta di
una battuta, ma della pura verità, perché oggi l'economia
autoreferenziale del plusvalore, alimentata dalla crescita del Pil
attraverso la crescita dello sfruttamento del lavoro e del consumo del
territorio, può andare avanti solo violando continuamente ed estesamente
le stesse leggi borghesi. Battersi per la legalità significa dunque
oggi spingere al deragliamento l'economia del plusvalore, ed allo
sfaldamento le basi di potere del ceto politico, mettendo in difficoltà
anche d'immagine le classi dominanti, che non possono rivendicare
apertamente per se stesse la libertà di delinquere per svolgere le loro
attività.
Una nuova forza politica oltre la destra e la sinistra
deve dunque saper convincentemente proporre una politica della legalità,
che deve partire dalla piena applicazione dell'articolo 104 della
Costituzione, secondo cui la magistratura è un ordine autonomo ed
indipendente da ogni altro potere. Sappiamo come in determinate
situazioni, e con determinati soggetti, il potere indipendente della
magistratura abbia dato luogo ad inconvenienti ed arbitrii. Ma, nella
situazione odierna, non c'è cosa più importante che garantire la
possibilità di un controllo di legalità della magistratura sull'attività
economica e politica, quali che ne siano in pratica i limiti. Per
contrastare questi limiti occorre promuovere trasparenza e velocità dei
processi. Cosa che né destra né sinistra hanno mai fatto, né mai
faranno, perché proprio i dispositivi costituzionali dell'indipendenza
della magistratura, dell’inamovibilità dei giudici da parte del potere
politico, dell'obbligatorietà dell'azione penale, fanno temere
l'efficienza della giustizia, spingendo la casta politica a favorire
l'inefficienza come unico mezzo per sottrarre il potere politico e
quello economico ad ogni controllo di legalità. Le statistiche dicono
del resto che la lentezza dei processi è costantemente aumentata sotto i
governi indifferentemente di Berlusconi e di Prodi: entrambi hanno
fatto mancare al sistema giudiziario i mezzi per funzionare[25].
7. Per una economia del bene comune.
Destra
e sinistra hanno abbandonato ormai da trent'anni l'idea che uno Stato
civile debba poter disporre di una sfera pubblica dell'economia per
essere in grado di assicurare gratuitamente alcuni servizi essenziali e
di compiere interventi strategici di indirizzo nei mercati. L'unica
economia ritenuta accettabile è oggi quella mercantile, naturalmente con
forme residuali di partecipazione pubblica volte a garantire che col
mercato e con la corruzione che lo alimenta ingrassino non soltanto
azionisti e manager privati, ma anche pezzi del ceto politico.
La
scomparsa di un'economia pubblica non ha prodotto soltanto crescenti
diseguaglianze sociali, nuova povertà, distorsioni dei consumi e fattori
di crisi finanziaria, ma ha avuto anche effetti culturalmente e
moralmente devastanti sul piano della mentalità collettiva. Il
messaggio, ossessivamente ripetuto, che il pubblico sia di per se stesso
inefficiente, che il privato sia di per se stesso efficiente, e che le
privatizzazioni introducano dinamismo e meritocrazia nella società, ha
legittimato, con il favore di un ceto politico fradicio di corruzione in
tutte le sue componenti, il perseguimento dell'utile privato al di
fuori di ogni regola. Non sono forse il dinamismo e la meritocrazia
socialmente più utili di qualsiasi regola?
Il fatto è che il
postulato di base sulla maggiore utilità sociale del privato sganciato
dal pubblico è quanto di più falso ci possa essere. Quel che la
legittimazione dell'utile privato comunque perseguito produce è dunque
semplicemente la diffusione universale e coatta dell'avidità come regola
di comportamento.
La società ne è devastata come da una
metastasi cancerosa. La soluzione di ogni problema sociale viene fatta
passare attraverso attività private (non importa se formalmente del
tutto tali, o come forma di gestione privata del pubblico), e le
attività private passano soltanto attraverso l'avidità di guadagno.
L'avidità, da elemento soggettivamente motivante di una realizzazione
socialmente utile, diventa di fatto l'unico fine da realizzare. Non
vengono dati appalti per compiere un'opera, ma è l'opera che viene
compiuta per dare appalti. Così ogni opera costa tre o quattro volte
quello che dovrebbe costare, e spesso, quando sono già state incassate
le prebende dei privati e le tangenti dei politici, non viene portata a
compimento. Le cosiddette grandi opere non sono messe in cantiere per la
loro utilità, neanche per la loro utilità strettamente economica, ma
per il giro d'affari che mettono in movimento con la corruzione e le
tangenti. Tutto ruota attorno all'avidità, e l'idea stessa di un bene
comune scompare. Il mercato compie una selezione meritocratica a
rovescio, nel senso che le aziende che sanno come manovrare gli appalti e
farseli pagare, perché collegate o alla malavita o al ceto politico o a
entrambi, prosperano e si allargano, mentre le aziende fondate sul
talento di imprenditori e operai, se fuori dal giro della corruzione,
non ottengono appalti e si vedono negare o ritardare i pagamenti per i
lavori fatti, finendo così fuori mercato.
Gli apologeti del
mercato, di fronte a queste evidenze, ribattono in genere che quello che
abbiamo appena descritto non è il Vero Mercato. Ma si tratta dello
stesso atto di fede di chi si appellava al Vero Comunismo per rendere
inoffensive le critiche all’ideologia comunista basate sulla realtà dei
paesi socialisti. L’evidenza pratica e le riflessioni teoriche degli
studiosi non appiattiti sull’apologia dell’esistente mostrano che il
mercato reale è sempre stato attraversato e strutturato da brutali
rapporti di forza esterni alla pura concorrenza su costi e prezzi, e
questi rapporti di forza sono nell'Italia di oggi determinati dalla
malavita organizzata e dalla corruzione politica interna, oltre che
dalle pressioni finanziarie esterne.
Il mercato reale è questo,
non quello astrattamente pensato da Walras e mai realizzatosi nella
storia, proprio come il comunismo reale è stato quello dell'Unione
Sovietica e dei paesi satelliti, e non quello astrattamente pensato da
Marx e mai realizzatosi nella storia.
Se si capisce questo si
capisce come oggi occorra combattere con la massima durezza i privilegi
del ceto politico per il costo che fanno gravare sull'Italia non tanto
in termini economici, quanto in termini culturali e sociali.
L'autoreferenzialità privilegiata del ceto politico ne fa infatti il
perno dell'asocialità, dell'antimeritocrazia e della criminalità
dell'attuale economia di mercato, e della diffusione universale
dell'avidità come unico criterio comportamentale. Siamo tutti lesi,
nella nostra vita quotidiana, da rapporti sociali posti in essere
soltanto dall'avidità.
Una nuova forza politica, capace di andare
altre l'orizzonte della destra e della sinistra, dovrebbe imporre la
competenza e la disposizione alla solidarietà come criteri ineludibili
di carriera, e nuove regole che stronchino sul nascere, con la massima
durezza, ogni avanzamento di chi, anche senza commettere reati
specifici, abbia mostrato, da comportamenti oggettivamente rilevabili,
di essere mosso soltanto dall'avidità. Ricordiamo Piscicelli,
l'imprenditore che esulta la notte del terremoto a l'Aquila per gli
affari che gli farà fare. È reato ridersela alle tre di notte, al
telefono con un socio d'affari, dei morti di un terremoto? No, non è un
reato. Ma dovrebbe bastare ad escludere per sempre il figuro da ogni
affare in cui metta soldi lo Stato.
Oppure ricordiamo D'Alema e
Fassino che esultano, perché, grazie a Consorte, “abbiamo una banca”. È
reato esultare perché il proprio partito fa buoni affari economici? No,
non è reato. Ma comportamenti simili dovrebbero escludere da ogni carica
politica.
L'Italia ha disperato bisogno, per non sprofondare
sempre più nella melma, di una soluzione radicale: occorre cacciare via
non soltanto tutti i politici visibilmente corrotti, ma anche quelli che
sono stati in partiti che non hanno individuato i corrotti prima dei
giudici e non li hanno espulsi, e che non hanno rinunciato al sostegno
di sistemi corruttivi. Si tratta, è evidente, di una rivoluzione, e
certo una rivoluzione autentica non può essere fatta per via
giudiziaria, ma ha bisogno di una forza politica. Si tratta di crearla.
Una
nuova forza politica, capace di andare oltre l'orizzonte della destra e
della sinistra dovrebbe battersi per togliere al ceto politico, di
destra e di sinistra, ogni status differenziato da quello della
popolazione comune che esso concordemente si autoattribuisce. Non si
tratta di una rivendicazione da perseguire per un suo supposto valore
generale. Se i politici del dopoguerra (De Gasperi, Togliatti, Nenni, La
Malfa, Almirante) avevano uno status differenziato, esso era
loro in qualche misura dovuto per le funzioni politiche che svolgevano.
Ma oggi la politica non svolge più alcuna funzione, se non quella di
lasciar dettare dall'economia le sue leggi e di non interferirvi se non
come mediatrice d'affari, per lucrarne finanziamenti. I politicanti di
oggi non meritano quindi alcuno status differenziato. Quello
che si danno ha l'effetto di far loro subordinare ancora di più la
politica agli affari, e ad allontanarli ancora di più non si dice dal
risolvere, ma anche soltanto dal pensare di dover affrontare, i problemi
della società.
Pensiamo al drammatico problema sociale della
difficoltà, quasi proibitiva per i giovani, di trovare un posto di
lavoro sensato e sensatamente retribuito, anche quando avrebbero il
talento per svolgerlo. I politici non conoscono questo problema, e non
lo conoscono i loro figli, parenti, amici, i quali, anche quando sono
desolatamente privi di capacità e meriti, ottengono sempre ottimi e
ottimamente retribuiti posti di lavoro, preesistenti o appositamente
inventati. Vogliamo un ceto politico che possa assaggiare il sapore
amaro della mancanza di un posto di lavoro, e sia quindi motivato a
visualizzare il problema nella società? Battiamoci per diminuire i posti
di lavoro a disposizione dei politici: per abolire, quindi, consigli ed
assessorati provinciali, del tutto inutili; per dimezzare il numero dei
parlamentari, dei ministri (che non dovrebbero essere più di
dodici-quindici, più che sufficienti per ogni compito possibile), dei
consiglieri regionali e degli assessori regionali; per limitare per
legge il numero degli incarichi assegnabili da ministri, governatori
regionali ed altre figure politiche, e via dicendo. Chi non trova posto
rimanga disoccupato e senza trattamento pensionistico, e si arrangi come
gli altri comuni mortali.
Pensiamo al drammatico problema della
casa. Occorrerebbe un divieto esplicito, per conflitto di interessi, di
dare in affitto ai politici edifici di proprietà pubblica, ed
occorrerebbe un apposito, severo monitoraggio degli affitti privati, per
evitare che nascondano scambi di favori. Che anche il ceto politico
abbia da pensare al problema della casa.
Questo ed altri
provvedimenti dovrebbero servire, più che a moralizzare un ceto politico
ormai irrecuperabile, in ragione del modo in cui è stato selezionato, a
favorire la sua cacciata e l'ascesa di politici nuovi, disposti da
accettare nuove regole di condotta per la loro funzione. Una nuova
cerchia di politici, che sappia mettere al passo un ceto capitalistico
anch'esso corrotto, capace di far soldi solo sfruttando in modo brutale
il lavoro e usando quel denaro pubblico (ed altri tipi di favori) che
non vuole venga dato in servizi sociali[26].
Una nuova forza
politica dovrebbe cercare spasmodicamente di aprire le menti degli
italiani su quali classi non dirigenti, ma “digerenti”, hanno sulle
spalle nell'economia e nella politica, e delle quali non sono per nulla
migliori, se le accettano. C'è una recente, splendida vignetta di
Massimo Bucchi che dice a questo proposito la verità: si vede una
persona reclinata in atteggiamento disperato su una poltrona che dice:
“sono senza lavoro e con una classe dirigente da mantenere”.
La
prima cosa che dovrebbe essere chiesta ai politici, e di cui essi
mancano del tutto a destra, al centro e a sinistra, suscitando ciò
nonostante una indignazione molto inferiore a quella che sarebbe
naturale, è l'attenzione verso ogni grave fattore di disagio a cui
vengono richiamati dalle persone. Faccia il lettore un esperimento
mentale. Immagini che in una qualsiasi città (escludendo quindi i
piccoli borghi, perché lì il sindaco è talvolta vicino ai suoi
compaesani, non in quanto politico, ma appunto in quanto compaesano), un
qualsiasi cittadino, senza usare alcuna violenza, senza entrare in un
gruppo di pressione, e senza usare forme drammatiche di protesta,
segnali un suo grave fattore di disagio: ad esempio è sotto sfratto e
non ha altra casa dove andare ad abitare, oppure ha un congiunto
invalido che non è in grado di assistere, oppure non gli arriva ai
rubinetti che acqua inquinata, oppure non può arrivare a casa senza
passare per una strada deserta e non illuminata dove si sono verificate
aggressioni, oppure deve attraversare in bicicletta una rotonda dove
sono all'ordine del giorno investimenti da parte degli automobilisti,
oppure abbia qualche altro problema. Immagini il lettore che il
cittadino faccia presente il suo disagio a qualche autorità deputata ad
interessarsi di cose del genere da lui richiamate ed a risolverle. Si
prosegua nell'esperimento mentale: che cosa succederà? Niente. Nessuno
presterà attenzione al suo disagio, per non parlare di risolverlo. Ecco:
questa disattenzione come regola segnala che abbiamo a che fare non con
politici, ma con miserabili politicanti, e con autorità di nomina
politica che non sono autorità, ma complici del degrado. Come quel Mauro
Moretti amministratore delegato di Trenitalia che non ha avuto la
minima attenzione di fronte alle richieste dei viareggini di rinforzare
il muro di separazione tra abitato e ferrovia, con le conseguenza che
sappiamo. E come negli infiniti altri casi in cui non si risponde ai
problemi che vengono segnalati. Si tratta di una forma estrema di
inciviltà, che tuttavia non è propria del solo ceto dirigente politico e
dominante economico, ma di tutto un paese che non manda a casa i suoi
politici perché essi rispecchiano in larga misura, con il loro
comportamento, i suoi rapporti interni. Si pensi a quanta indifferenza
verso il disagio ritroviamo quotidianamente tra il personale degli
ospedali e dietro gli sportelli di un ufficio. Ai politici, se fossero
tali, dovrebbe essere richiesto di inibire, anche con adeguate forme di
repressione, comportamenti incivili diffusi nel tessuto della vita
quotidiana, e con i quali ognuno lede i suoi vicini. Perché tollerare
gli automobilisti che mettono i pericolo l'incolumità di pedoni e
ciclisti? Perché tollerare che strombazzino per farsi largo nelle
strade, che non dovrebbero essere loro, ma di chi vuol passeggiarvi?
Perché tollerare gli schiamazzi notturni? Perché tollerare
l'insudiciamento delle strade? Perché tollerare le musiche a tutto
volume nella notte? Perché tollerare che i gas di scarico dei motori
avvelenino l'aria delle città? Il fatto che vi siano norme in proposito
non vuol dire nulla, perché una forma di inciviltà dall'Italia è quella
di abbinare norme complicate alla mancanza di qualsiasi intervento che
le faccia rispettare. I politici di destra, di centro e di sinistra non
si preoccupano di inibire i comportamenti incivili perché, essendo loro
stessi incivili, non si lasciano coinvolgere da simili problemi, e
perché possono utilmente (dal loro infame punto di vista) deviare il
disagio su capri espiatori la cui persecuzione è portatrice di consenso
elettorale. Così il degrado urbano viene attribuito agli
extracomunitari, o alla vendita di merci contraffatte, o ai turisti che
girano d'estate e torso nudo, o a chi sosta a rinfrescarsi sulle
scalinate dei monumenti, e simili piacevolezze, mentre le città affogano
nello smog, nel rumore, negli ingorghi delle automobili, nella
sporcizia. Ma, al solito, i politici sono così degradati perché la
popolazione stessa è degradata.
Compito di una nuova forza
politica è anche, e fondamentalmente, quello di risvegliare l'esigenza
di una rinascita di civiltà dei rapporti umani. È un compito di destra,
di centro o di sinistra? È un compito nuovo, perché sono state la
destra, il centro e la sinistra del nostro spettro politico che ci hanno
spinto all'attuale inciviltà.
Conclusioni
Questa
seconda parte potrebbe ovviamente continuare ancora a lungo affrontando
i tanti problemi che oggi si pongono a chi abbia a cuore gli ideali di
emancipazione e giustizia sociale che furono della sinistra. Concludiamo
qui perché questo saggio è già molto lungo e non era nostra intenzione
scrivere un programma di partito, ma solo indicare il tipo di
impostazione mentale con la quale una forza politica di alternativa
dovrebbe affrontare la realtà contemporanea. La creazione di una forza
politica che, a partire dall’esaurimento storico delle categorie di
destra e sinistra, imposti, secondo le linee indicate, la lotta contro
la crisi di civiltà alla quale l’attuale sistema economico e sociale ci
sta portando, è oggi il compito fondamentale per gli uomini e le donne
“di buona volontà”.
[1] M.Badiale, M.Bontempelli, Il
mistero della sinistra, Graphos, Genova 2005. Id., La sinistra rivelata,
Massari editore, Bolsena 2007.
[2] Come Norberto Bobbio nel suo fortunato pamphlet: N.Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli editore, Roma 1994.
[3]
E’ l’interpretazione di Paul Krugman: “L’America ha ridotto
l’inflazione nel modo più classico: congegnando un congruo periodo di
stagnazione produttiva e di forte disoccupazione per indurre i
lavoratori a ridimensionare le loro rivendicazioni salariali e le
imprese a moderare i loro aumenti di prezzo. Durante gli anni Ottanta il
governo federale degli Stati Uniti ha deliberatamente posto l’economia
nella più profonda depressione sperimentata dopo gli anni Trenta”
(P.Krugman, Il silenzio dell”economia, Garzanti, Milano 1991, pag.66).
[4]
“Possiamo pertanto affermare che, da svariati punti di vista,
l’economia internazionale è stata più aperta nel periodo precedente il
1914 di quanto non lo sia mai stata in un qualsiasi momento successivo,
incluso il periodo dalla fine degli anni Settanta in poi”. P. Hirst, G.
Thompson, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997,
pag. 43.
[5] 2010
[6] Giugno 2010.
[7]
Pescando qua e là: ”Io credo sia il tempo di un grande patto tra i
produttori. Un patto non per fronteggiare un'emergenza ma per un
cambiamento radicale”; “il nostro è un Paese che ha una profonda
malattia che si chiama assenza di innovazione”; “la Cgil deve stare
dentro una sfida di innovazione”.
[8] “Una politica che
cerchi di stabilizzare la domanda passa attraverso una diversa
distribuzione dei redditi. È inutile strillare che la domanda è in calo
se al tempo stesso ci si frega le mani perché la concentrazione della
ricchezza è crescente. Politiche di riequilibrio sono assolutamente
necessarie per uscire da questa recessione”, da Claudio Mezzanzanica,
Pomigliano: la soluzione? la gestione passi ai lavoratori, il manifesto,
17 giugno 2010.
[9] Le vicende successive, con la scelta
della FIAT di spostare parte della produzione in Serbia, confermano il
nostro giudizio. Secondo le analisi apparse sulla stampa, la FIAT va in
Serbia essenzialmente per approfittare di finanziamenti UE e locali, e
probabilmente con lo scopo di avviare la produzione per poi cederla. Si
tratta in sostanza di un ulteriore passo della strategia di sganciamento
dall'automobile perseguita dalla proprietà..
[10] Diverso è
il discorso sul piano intellettuale: molti intellettuali di valore, in
rotta con la società borghese ma disgustati dal conformismo menzognero
dei partiti comunisti ufficiali, finivano per aderire alle piccole
formazioni comuniste dissidenti, e ivi trasportavano la propria
intelligenza, cultura e capacità di analisi. In questo modo, pur in
mezzo a molta paccottiglia dogmatica, emergevano talvolta da questi
ambiti produzioni intellettuali di grande interesse.
[11]
Come provano con solare evidenza le vicende della crisi economica
recente: prima si sono trasformati debiti e passività del mondo
finanziario in debiti pubblici, perché altrimenti la finanza sarebbe
crollata e questo avrebbe bloccato il meccanismo dello sviluppo
capitalistico; poi questo debito pubblico, accollato agli Stati per
salvare la finanza, diventa occasione per attacchi speculativi della
finanza stessa agli Stati, e questa situazione a sua volta si traduce in
un attacco generalizzato alle condizioni di vita dei ceti subalterni,
come quello realizzato dalla recente manovra finanziaria in Italia, e
dalle analoghe misure prese negli altri paesi europei.
[12]
Un altro punto che mostra come le tecnologie”ecologiche”, se messe al
servizio dello sviluppo, abbiano effetti negativi, è quello del
cosiddetto “effetto rimbalzo”: le tecnologie di risparmio energetico,
proprio perché rendono più conveniente il consumo, possono in realtà
stimolare un aumento del consumo stesso. Su ciò si veda per esempio
C.Gossart, Quando le tecnologie “verdi” spingono a maggiori consumi”, Le
Monde Diplomatique-edizione italiana, luglio 2010.
[13]
Ovviamente né destra né sinistra pongono in discussione il fatto che la
distinzione fra “regolari” e “clandestini”è una arbitraria creazione
delle leggi del paese di arrivo, nel nostro caso l'Italia.
[14] Su questi temi si veda il Dossier statistico immigrazione 2008, a cura della Caritas-Migrantes.
[15] Questo tema è approfondito in M.Pallante, Decrescita e migrazioni, Edizioni per la Decrescita Felice, Roma 2009.
[16]
Non casualmente, Guido Viale non riesce a trovare un soggetto politico
al quale fare carico delle sue proposte, ed è costretto nel suo articolo
a rivolgersi ad una generica “iniziativa dal basso”. Poiché tutte le
attuali forze politiche sono interne all’orizzonte dello sviluppo, le
proposte di Viale non possono essere prese in seria considerazione da
nessuna di esse.
[17] Una simile definizione rinvia a molte
altre domande basilari (ad esempio: chi e come decide il ruolo di
ciascuno nella società? E dove sta la giustizia nell’accesso ai ruoli?),
le risposte alle quali sono depositate nella storia della filosofia.
Qui ne prescindiamo, per arrivare diritti allo scopo del nostro
discorso.
[18] La sinistra aggiunge, alla sua totale
sottomissione di fatto alla logica dei mercati, la disgustosa ipocrisia
degli omaggi verbali alla Costituzione e agli ideali emancipativi della
sinistra storica. Ciò vale anche per la cosiddetta sinistra radicale,
che quando è stata al governo ha lasciato mano libera al mercatismo di
Prodi.
[19] Le stime sull'entità di tali risorse sono ovviamente approssimative.
[20]
Ci sarebbe una quinta fonte di finanziamento: l’esproprio delle
ricchezze della criminalità organizzata. Non l’abbiamo inserita
nell’elenco precedente, perché in questo intendevamo elencare le fonti
permanenti di entrate. Coltiviamo la speranza che la criminalità
organizzata non sia destinata ad essere una realtà permanente per
l’Italia. L'importanza di tali misure di esproprio sta soprattutto nel
fatto che permetterebbero la ricostituzione di un patrimonio pubblico
(immobiliare, agricolo, edilizio) da utilizzare per una politica
economica di tipo nuovo.
[21] In qualche edificio vicino di
proprietà pubblica, se c’è, o in qualche appartamento che dovrebbe
essere requisito alle società immobiliari per ragioni di pubblica
utilità.
[22] Inseriamo la sinistra radicale nell’arco della
politica istituzionale perché ha dimostrato nei fatti che quello è il
suo unico ambito di interesse, anche se per i suoi stessi errori ne è
momentaneamente estromessa.
[23] La vicenda è raccontata per
esempio all’indirizzo
http://preve.blogautore.repubblica.it/2009/10/29/piano-casa-stoppata-la-colata/.
All’ovvio rilevamento della contraddizione, Moreno Veschi ha risposto
che dodici ore prima non aveva letto il documento in questione.
[24]
Per altri esempi dell’insensatezza del linguaggio della sinistra
radicale si veda M.Badiale, Rumore molesto, in R.Massari (cura di), I
Forchettoni rossi, Massari editore, Bolsena 2007, pp.217-255.
[25]
Un discorso a parte meriterebbe l'argomento fondamentale della lotta
alle mafie, ma è un discorso che non facciamo per non allungare
ulteriormente questo scritto. Il punto fondamentale qui è capire che le
mafie non si sconfiggono senza spazzare via l'intero attuale ceto
politico, che per convenienza ad esse si intreccia.
[26]
L'esempio migliore viene dalla Marcegaglia, attuale presidente di
Confindustria, la cui ditta di famiglia ha ricevuto a prezzi bassissimi
tratti di costa sarda in occasione del G8 del 2009.