L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 28 settembre 2013

Letta e voi tutti politicanti da niente state distruggendo l'Italia

LA LETTERA DI UN CITTADINO CHE CHIEDE A LETTA DI ANDARSENE
In nome del cielo, andatevene



Le coperture per il mancato rialzo dell’Iva a ottobre arriveranno dall’aumento dell’acconto dell’Ires (al 103%) e dell’Irap per il 2013, oltre che dall’incremento delle accise sui carburanti per 2 centesimi al litro fino a dicembre 2013 e poi fino al 15 febbraio 2015 di 2,5 cent al litro. Si legge nella bozza del decreto legge.(ANSA)

Caro presidente Letta, chi scrive ha sempre guardato a lei con umana simpatia, per il suo tratto caratteriale ed i modi da persona per bene. Ciò ha posto in secondo piano o depotenziato la critica ad alcune decisioni francamente prive di senso economico, e la tendenza ad usare la leva fiscale ad ogni pié sospinto, come ai bei tempi dell’andreottismo trionfante.

L’umana solidarietà per trovarsi a gestire una delle coalizioni col maggior tasso di cinismo politico e disonestà intellettuale della storia italiana hanno fatto il resto, aiutando l’empatia verso la sua persona. Ma questa notizia, se vera, chiude il discorso. Lei si sta rendendo complice di uno scempio e di un danno difficilmente reversibili in un paese ormai debilitato oltre ogni limite, malgrado una ancora robusta dotazione patrimoniale. Alzare imposte indirette per “scongiurare” il rialzo di altre imposte indirette non è una esigenza di realismo politico, men che mai una “soluzione-ponte” o, più propriamente, un ponte verso il nulla. E’ la prova del disprezzo verso l’intelligenza degli elettori (che può anche starci, lo vediamo ormai da lustri), oltre che verso la propria.

A questo punto, meglio il commissariamento dall’esterno che la prosecuzione di questo scempio. In nome del cielo, andatevene. E liberateci dai ributtanti rallegramenti di saltimbanchi che annunciano che “le tasse non saliranno”.

http://fb.me/L7KTWHO6

martedì 24 settembre 2013

devono arrivare i soldi pubblici dei contribuenti a sanare gli impicci di chi si è arricchito privatamente

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ILVA, l’errore si ripete

di Guido Viale

Letta ha annunciato che il prossimo impegno del governo, se resterà in piedi, sarà un grande programma di privatizzazioni, cioè di svendita di quote di aziende statali e di misure per costringere i Comuni a disfarsi del loro residuo controllo sui beni comuni e sui servizi pubblici locali. Il tutto, naturalmente, per far quadrare i bilanci, abbattere il debito pubblico e riportare il deficit (che ormai viaggia verso il 3,5% del Pil) entro il margine “prescritto”. Tutti obiettivi impossibili: ai prezzi odierni, la svendita anche di tutti i beni pubblici vendibili (un grande affare per chi compra) non porterebbe nelle casse statali che un centinaio di miliardi o poco più; cioè meno di quanto lo Stato pagherà in un anno tra interessi e rateo di rimborso del debito imposto dal fiscal compact. E l’anno dopo ci si ritroverà al punto di prima, ma senza più beni comuni e aziende pubbliche. La realtà è che il debito pubblico italiano è insostenibile e l’unico modo per farvi fronte è congelarlo.

Ma per capire dove portano le privatizzazioni già largamente praticate dai precedenti governi di centrosinistra guardate l’Ilva: un gioiello tecnologico (di 50 anni fa) creato dall’industria di Stato e ispirato alla cultura allora imperante del gigantismo industriale; poi svenduto, una ventina di anni fa – a una famiglia già compromessa che aveva fatto i soldi con i rottami di ferro – in ossequio alla cultura delle privatizzazioni messa in auge dagli allora campioni del centrosinistra: Andreatta, Ciampi, Prodi & Co. La motivazione di quel passaggio di mano era che le cattive performance del settore (peraltro in crisi, da allora, in tutta Europa) erano dovute ai condizionamenti della “politica”, ormai insediatasi nel management dell’azienda; e che solo una gestione privata l’avrebbe salvato da quelle interferenze. La validità di quella tesi può essere verificata dal fatto (tra gli altri) che i Riva sono oggi i principali azionisti privati di Alitalia, cioè di quella cordata fallimentare messa su da Berlusconi per gestire in nome dell’italianità della “nostra” compagnia aerea la sua campagna elettorale del 2006: le interferenze della politica funzionano tanto con la proprietà pubblica che con quella privata. In cambio di quell’operazione senza alcun senso economico i Riva si erano però garantiti mano libera nella prosecuzione di una gestione scellerata dell’azienda.

Nonostante due condanne penali in cui il capostipite della dinastia era già incorso. Tra i risultati di quello scambio di favori c’è stata un’autorizzazione integrata ambientale (Aia) confezionata su misura dell’Ilva dalla ministra Prestigiacomo e da un uomo per tutte le stagioni, vero “dominus” del Ministero dell’Ambiente, Corrado Clini.

Così i Riva hanno gestito gli impianti dell’Ilva “a esaurimento”: investendo cioè solo l’indispensabile per tenerli in funzione e fare profitti da imboscare all’estero, fottendosene dell’impatto ambientale, della salute, della sicurezza e della vita di maestranze e cittadinanza; contando sul fatto che gli impianti sarebbero andati a rottamazione più o meno nel momento in cui il mercato globale avrebbe reso insostenibile la gestione di uno stabilimento di quelle dimensioni.

Per questo l’idea di risanarlo e ammodernarlo (che è cosa differente dal mettere in sicurezza maestranze e città fin che continuerà a funzionare) è un po’ peregrina. Non c’era, dietro la gestione Riva, alcuna strategia che non fosse quella di spremere uomini, impianti e territorio fin che fosse possibile. Come non c’è altra strategia dietro la gestione dell’odierno commissario e del suo vice. In più, all’Ilva c’era – ed è rimasta operativa anche dopo la nomina di Bondi – una conduzione criminale del personale e delle lavorazioni, affidata a una struttura parallela e illegale di “fiduciari”: cioè di persone non incluse nell’organico dell’azienda, che comandano in fabbrica al posto dei capi – imponendo quelle operazioni pericolose che sono all’origine dei morti, degli infortuni e di gran parte dell’inquinamento della città – ma che non rispondono mai del loro operato, perché ufficialmente «non esistono»; una struttura che dipendeva direttamente dai Riva e che ora – verosimilmente – risponde al presidente Ferrante: un altro uomo per tutte le stagioni: già Prefetto, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, presidente di Impregilo sotto accusa per i disastri dei rifiuti in Campania e dell’alta velocità nel Mugello.

Sono stato un solo giorno a Taranto, nell’agosto dell’anno scorso, invitato dal Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, e in un giorno solo sono venuto a sapere tutto di quella struttura illegale. Tutti sapevano che c’era e che cos’era, con nomi e cognomi. Ma per mesi e per anni nessuno, a quanto mi consta – né sindacati, né partiti, né amministrazioni locali, né curia, né Regione, né governo, né tantomeno il nuovo presidente, il commissario o il suo vice – ha sentito il bisogno di denunciare una pratica del genere. E’ dovuta intervenire la magistratura, con diciotto anni – verosimilmente – di ritardo, per arrestare la cupola di quell’associazione a delinquere. Il che dà un’idea del livello di compromissione costruito intorno all’intreccio tra “politica”, in senso lato, e “privatizzazioni”. D’altronde l’Ilva ha un dopolavoro – l’Associazione Vaccarella – attraverso cui transitano ingenti finanziamenti gestiti dai sindacati, che non ne hanno mai dato conto; e a Taranto c’è un palazzetto dello sport dell’Ilva, denominato – chissà perché? – PalaFiom. Ve lo immaginate voi un PalaFiom della Fiat di fronte ai cancelli di Pomigliano o di Mirafiori? Evidentemente qualcosa non quadra.

Ora che i Riva hanno fermato per ritorsione tutti gli altri impianti italiani, Letta deve decidere che cosa fare. Ma non può fare niente, perché sia lui che i suoi predecessori si sono legati le mani con leggi e accordi di cui si sono fatti garanti e con cui hanno legato una pietra al collo del paese per mandarlo definitivamente a fondo. Il governo non può ridare l’Ilva ai Riva, per lo meno fino a che non avranno restituito almeno gli otto miliardi che hanno rubato. Non può cercare un compratore estero, perché questi userebbe l’impianto per mettere piede in Italia e poi dismetterlo il più in fretta possibile, come hanno fatto tutti gli altri cosiddetti «investitori esteri», non solo con la Lucchini nel siderurgico; ma con Alcoa, Siemens, Telecom, Alstom, Parmalat e tante altre. Non può nazionalizzare l’Ilva o gli altri stabilimenti dei Riva sotto sequestro perché l’Europa «non lo consente»; e perché “i soldi” per l’esproprio aumenterebbero deficit e debito; e non si può fare.

Ma la nazionalizzazione – dell’Ilva, o del Gruppo Riva, o degli stabilimenti Fiat condannati alla cassa integrazione perpetua, o di qualsiasi altra fabbrica in crisi – è per ora impraticabile anche per chi fosse eventualmente propenso a “passar sopra” a quei vincoli (e per ora nessuno di coloro che hanno voce in capitolo lo è). Perché manca la struttura per gestire aziende del genere. Una volta c’era l’Iri: una robusta struttura pubblica, che era anche una scuola di management di livello internazionale, quali che ne fossero le pecche politiche, che certo non mancavano. Adesso invece c’è solo più Bondi: un arzillo ottuagenario pronto a tutto, che si è lasciato dietro le spalle una intera carriera di aziende scomparse o distrutte: Montedison, Lucchini, Telecom, Ligresti e Parmalat (riempita, quest’ultima, di miliardi con le penali pagate dalle banche che avevano tenuto bordone a Tanzi, per finire subito tra le fauci di un pirata che li ha usati per farsi i fatti propri); più una breve permanenza al governo della spending review e alla formazione della lista Monti, dove, com’è ovvio, non ha combinato niente.

Così, se Landini ha promesso che la Fiom non permetterà più la chiusura di altre fabbriche, anche a costo di promuoverne l’occupazione da parte delle maestranze – e ha fatto bene – resta da definire che cosa fare poi di quelle aziende, che sono ogni giorno di più, una volta che i lavoratori le abbiano occupate: restituirle al padrone che le vuole chiudere? Cercare un nuovo padrone perché a chiuderle sia lui, dopo aver portato via macchinari, brevetti e marchio, come hanno già fatto in tanti? Affidare anche quelle a Bondi? Nazionalizzarle, anche se il management per gestirle non c’è?

In realtà quello che c’è da fare, e subito, è raccogliere e costruire, con un appello al paese, un nuovo management: un tessuto esteso di persone disposte a sostituire i vecchi proprietari – o, eventualmente, a integrare la precedente dirigenza – per mettersi a disposizione di tutte quelle situazioni che invece di accettare la chiusura sono disposte ad affrontare la sfida di una nuova gestione, socializzata e condivisa: non una mera “autogestione” da parte delle maestranze, anche se l’utilizzo della legge Marcora, o di un suo sostituto, potrebbe fornire uno strumento per imboccare una strada del genere. Ma una gestione che, accanto alle maestranze, coinvolga anche le comunità locali, le loro associazioni, le amministrazioni dei comuni e degli altri enti locali del territorio, le università (cioè i docenti e le organizzazioni degli studenti disponibili) la schiera crescente di ex manager messi sul lastrico, l’esercito di coloro che hanno fatto apprendistato di responsabilità gestionali nel terzo settore. E’ l’unico modo per mettere insieme, e mettere alla prova in un confronto serrato con situazioni concrete, una nuova classe dirigente: un passo indispensabile se si vuole esautorare quella attuale. Intanto bisogna mettere all’ordine del giorno espropri e requisizioni. O ci sono altre strade per salvarci dal disastro?

lunedì 23 settembre 2013

L'euro ha creato 19 milioni di disoccupati ...

The economists' warning
Financial Times, 23 settembre 2013
La crisi europea continua a distruggere posti di lavoro. Entro la fine del 2013 ci saranno 19 milioni di disoccupati nella sola zona euro , oltre 7 milioni in più rispetto al 2008 , un aumento senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale e nel 2014 se ne aggiungerà un altroLa crisi occupazionale colpisce soprattutto i paesi membri periferici dell'Unione monetaria europea, dove perdura, mentre la Germania e gli altri paesi centrali della zona euro hanno invece registrato una crescita sul fronte lavoro. Questa asimmetria è una delle cause della attuale paralisi politica dell'Europa e la successione imbarazzante di incontri al vertice che si traducono in misure palesemente incapaci di arrestare i processi di divergenza in atto. Anche se questa lentezza di risposta politica può apparire giustificata nelle fasi di ciclo normali e momenti di tregua sul mercato finanziario, potrebbe avere le conseguenze più gravi nel lungo periodo.
Come previsto da parte della comunità accademica, la crisi si sta rivelando una serie di contraddizioni nelle istituzioni e le politiche dell'Unione Monetaria Europea. Le autorità europee hanno preso una serie di decisioni che hanno, in realtà, con
trariamente a quanto annunciato, contribuito a peggiorare la recessione e ampliare il divario tra i paesi membri. Nel giugno 2010, quando i primi segni della crisi della zona euro sono diventati evidenti, una lettera firmata da trecento economisti ha sottolineato i pericoli inerenti le politiche di austerità, che deprimere ulteriormente la domanda di beni e servizi, nonché l'occupazione e il reddito, rendendo così il pagamento dei debiti, sia pubblici che privati​​, ancora più difficile. Questo allarme è stato, tuttavia, inascoltato. Le autorità europee hanno preferito adottare la dottrina fantasiosa di "austerità espansiva ", secondo cui i tagli di bilancio potrebbero ripristinare la fiducia dei mercati nella solvibilità dei paesi dell'Unione europea e quindi portare ad un calo dei tassi di interesse e la ripresa economica. Come il Fondo monetario internazionale si riconosce, oggi sappiamo che le politiche di austerità hanno effettivamente approfondito la crisi, provocando un crollo dei redditi che superano le aspettative più largamente diffusa. Anche i campioni della "austerità espansiva " ora riconoscono i loro errori, ma il danno è ormai in gran parte fatto.
Le autorità europee
, tuttavia, ora stanno facendo un nuovo errore. Essi sembrano essere convinti che i paesi membri periferici possono risolvere i loro problemi mediante l'attuazione di "riforme strutturali", che sarà presumibilmente ridurre i costi ed i prezzi, favorire la competitività, e quindi favorire la ripresa trainata dalle esportazioni e la riduzione del debito estero. Anche se questo punto di vista mette in evidenza alcuni problemi reali, la convinzione che la soluzione proposta può salvaguardare l'unità europea è un'illusione. Le politiche deflazionistiche applicate in Germania e altrove per costruire surplus commerciali hanno lavorato per anni, insieme con altri fattori, per creare enormi squilibri nel debito e credito tra i paesi della zona euro. La correzione di questi squilibri richiederebbe un'azione concertata da parte di tutti i paesi membri. Prevedendo i paesi periferici dell'Unione per risolvere il problema senza aiuto significa che richiede loro di sottoporsi a un calo dei salari e dei prezzi su tale scala da causare un crollo ancora più accentuata dei redditi e violenta deflazione del debito con il rischio concreto di provocare nuove crisi bancarie e produzione paralizzante in intere regioni d'Europa.
John Maynard Keynes oppose il Trattato di Versailles nel 1919 con queste parole lungimiranti: "Se prendiamo il parere ch
e la Germania deve essere tenuta impoverita e i suoi figli morire di fame e paralizzato [ ... ] Se puntiamo deliberatamente alla impoverimento dell'Europa centrale, la vendetta, oso predire, non sarà zoppicare. "Anche se le posizioni sono ora invertiti , con i paesi periferici in difficoltà e in Germania in una posizione relativamente vantaggiosa, la crisi attuale presenta più di una somiglianza con quella terribile fase storica , che ha creato il condizioni per l'ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Tutta la memoria di quei terribili anni, sembra essere stato perso, la Germania e gli altri governi europei stanno ripetendo gli stessi errori che sono stati fatti allora. Questa miopia è in definitiva il motivo principale per le ondate di irrazionalismo attualmente spazzano l'Europa, dal paladino ingenuo di tassi di cambio flessibili come una cura per tutti i mali per i casi più inquietanti della propaganda ultra- nazionalista e xenofoba.
E
’ essenziale capire che se le autorità europee continuano con le politiche di austerità e si affidanosole a riforme strutturali per ristabilire l'equilibrio, il destino dell'euro sarà chiuso con un sigillo. L' esperienza della moneta unica sarà giunta al termine con ripercussioni sulla sopravvivenza del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e di una politica monetaria e fiscale che consenta di sviluppare un piano per rilanciare gli investimenti pubblici e privati, contrastare le disuguaglianze di reddito e tra le aree, e aumentare l'occupazione nei paesi periferici della Unionela politica non potrà altro che scegliere modi alternativi fuori dall'euro

Emiliano Brancaccio and Riccardo Realfonzo (Sannio University, promoters of “the economists’ warning”), Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), Giuseppe Fontana (Leeds University), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).


...and also: Georgios Argeitis (Athens University), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Malcolm Sawyer (Leeds University), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Lefteris Tsoulfidis (University of Macedonia

domenica 22 settembre 2013

Siamo dalla parte dei popoli che resistono all'imperialismo

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Sulla necessità di schierarsi

di Elisabetta Teghil

Il 26 luglio del 1956 Nasser annunciò la nazionalizzazione del canale di Suez. In risposta Israele il 29 ottobre occupò la striscia di Gaza e la penisola del Sinai. Il 31 ottobre gli Inglesi e i Francesi bombardarono Il Cairo e il 5 novembre occuparono Port Said.

Nasser affondò le 40 navi presenti nel canale di Suez per impedirne la navigazione.


Secondo una lettura che oggi serpeggia a sinistra, le manifestazioni fatte, a suo tempo, a sostegno dell’Egitto e di Nasser sarebbero state improvvide e sbagliate perché avremmo dovuto dire né con Nasser, né con gli Israeliani, Francesi e Inglesi.

E, sempre secondo questa lettura, capziosa e pretestuosa, Nasser non era socialista, tanto meno comunista e, pertanto, non avremmo dovuto essere dalla sua parte.


Nell’aprile del 1962 gli Stati Uniti organizzarono/finanziarono un’invasione di Cuba, quella che è passata alla storia come l’invasione della Baia dei porci.

Anche in quell’occasione scendemmo in piazza a favore di Cuba contro gli Stati Uniti. Altro errore, secondo la vulgata di quella sinistra di cui parlavamo prima, perché dietro Cuba ci sarebbe stata l’Unione Sovietica e quindi rientrava tutto nelle dinamiche della “guerra fredda”.


Giovanni Ardizzone che partecipò ad una manifestazione indetta il 27 ottobre del1962 a Milano in sostegno di Cuba e contro gli USA e la presenza delle loro basi in Italia, fu ucciso dalla Celere di Padova. Sicuramente, secondo i soliti di cui parliamo, non aveva capito niente. L’allora ministro degli Interni disse che era stato un incidente automobilistico, oggi raccontano che era un pacifista, omettendo volutamente che era un militante comunista e che partecipava ad una manifestazione antimperialista.


Tanti e dolorosi sono gli episodi che potremmo ricordare: Mossadeq in Iran, Sukarno in Indonesia…. a proposito, quando l’11 marzo del 1966 fu rovesciato da un colpo di Stato promosso dagli Stati Uniti, la prima iniziativa del generale golpista filo occidentale,
Suharto, fu di uccidere 500.000 comunisti, per la maggior parte di origine cinese; evidentemente apparteneva alla stessa scuola che pensa che siano tutti imperialismi e che dietro Sukarno c’era l’imperialismo cinese… Che errore le manifestazioni a favore del Vietnam, dettate dalla giovane età e dall’inesperienza! Finalmente qualcuno ci avrebbe aperto gli occhi: dietro il Vietnam c’erano la Cina, l’URSS e gli equilibri imperialisti!


Ci dobbiamo fermare qui o dobbiamo continuare con Allende, Bosh, Aristides, Sankara….per non parlare di Lumumba e delle guerre interetniche promosse in Angola e Mozambico?


Questo modo di leggere le vicende nei paesi del terzo mondo si traduce, volente o nolente, in una forma di complicità con l’imperialismo occidentale, con una rilettura di quelle lotte di liberazione a cui viene tolta ogni valenza politica e vengono ridotte ad uno scontro tra imperialismi.

Risultato? L’aggressione alla Jugoslavia, all’Iraq, alla Libia e oggi alla Siria.


Il 9 ottobre del 1967 in Bolivia, in una località chiamata La Higuera, veniva ucciso Che Guevara. Nel dolore per la sua perdita almeno un conforto: oggi, in questa stagione , con il consenso e/o le prese di distanza di alcuni che si autodefiniscono di sinistra, sarebbe stato portato all’Aja per essere processato dal TPI per i così detti “crimini” commessi dal governo rivoluzionario cubano.

Lo stesso Che, nella sua ultima lettera scritta prima di lasciare Cuba e di andare in Bolivia, scrisse che i popoli non dovevano più fare il tifo nello scontro con l’imperialismo statunitense, ma entrare nell’arena e partecipare alla lotta.

Quando uno muore si dice sempre che la terra gli sia lieve, noi aggiungiamo almeno non hai dovuto assistere a queste miserie morali che accompagnano le vicende attuali.

Naturalmente oggi ci sono tutte le condizioni per invadere Cuba, perché in quel paese non ci sarebbe il socialismo, quella di Castro sarebbe una dittatura e noi dovremmo stare dalla parte della classe operaia cubana.

E’ il trionfo del neoliberismo, la stadio dell’autoespansione del capitalismo i cui valori ideologici sono introiettati da segmenti della sinistra ed il fatto che siano in buona o cattiva fede a questo punto diventa secondario.

E la delegittimazione delle lotte dei popoli del terzo mondo si trasforma in razzismo perché noi occidentali, buoni e disinteressati, portiamo loro la democrazia e, anche se loro non lo capiscono, lo facciamo per il loro bene.

Questo meccanismo si traduce nelle vicende nazionali con l’occupazione militare della Val di Susa, di L’Aquila e di tutti i territori sottoposti a servitù militari o alla presenza delle basi Nato, maniera elegante per dire statunitensi.

Una volta si discuteva: fuori l’Italia dalla Nato o fuori le basi Nato dall’Italia. Oggi dal dibattito il tema dell’Italia nella Nato o delle basi Nato in Italia è completamente rimosso.

Queste persone che perseguono la lettura di cui parlavamo, che si presentano tanto colte, che tutto sviscerano, non vedono il legame diretto tra le guerre umanitarie e lo smantellamento delle conquiste sociali nel nostro paese? Non leggono la correlazione tra il non schierarsi e l’essere partecipi della demonizzazione, di volta in volta, di una categoria sociale? e della demolizione di tutte le forme di resistenza al neoliberismo?


Noi lo ribadiamo con forza: siamo partigiane, ci schieriamo, siamo dalla parte dei popoli che resistono all’imperialismo.

Lo diciamo con chiarezza, in Siria come in Libia non c’è nessuna sollevazione popolare. E’ un’aggressione perpetrata da terroristi fondamentalisti islamici, finanziata dagli emirati arabi con mercenari addestrati e armati dai Servizi americani e inglesi.

Se avessimo voluto parlare di “pace”, saremmo andati tutte/i a San Pietro. E saremmo state/i ipocrite/i, perché sappiamo benissimo tutte/i che non esiste pace se c’è un aggressore e un aggredito.

Vogliamo la sconfitta dell’aggressore e questa passa attraverso la sconfitta dell’imperialismo occidentale.

Non ci facciamo irretire in discussioni pretestuose sul fatto che tutto è imperialismo e tanto meno che a noi interessano solo le sorti della classe operaia e dei popoli, perché gli interessi di questi ultimi passano attraverso la sconfitta dell’imperialismo statunitense. Conseguita quella andiamo a qualsiasi trattativa e ci mettiamo attorno a qualsiasi tavolo.

Ragionando come i soliti di cui parlavamo non avremmo dovuto fare neanche la Resistenza e Mao non avrebbe dovuto allearsi con Chiang Kai-Shek per cacciare i giapponesi dalla Cina.

Questo paese, sto dicendo l’Italia, che è stato sempre a sovranità limitata, in passato con tutti i limiti della democrazia rappresentativa si sceglieva i propri governanti, oggi è diventato un protettorato anglo americano e ci mandano i quisling.

Il neoliberismo è ideologia, è lotta di classe, quella a cui ci hanno convinto a rinunciare per averne il monopolio.

Tutto è cominciato con l’aggressione alla Jugoslavia e mira, attraverso la tattica delle foglie di carciofo, passando attraverso la preventivata guerra all’Iran, alla resa dei conti con la Russia e la Cina.

Non ci sono terze vie, non ci sono spazi di neutralità.

Nella vita tutto è politico anche quando qualche anima bella afferma che siamo apolitici o che qui non si fa politica, di fatto la fa e si colloca.

E quando, sempre le anime belle, dicono di essere né con una parte né con l’altra, ed evocano strumentalmente la classe operaia e non prendono posizione, non solo non la aiutano, ma contribuiscono a perpetuare l’oppressione dei popoli in questo paese e nel terzo mondo.

Dobbiamo schierarci , il neutralismo del governo del Fronte Popolare francese durante la guerra civile spagnola, ha contribuito in maniera importante alla vittoria del franchismo.

L’antimperialismo va calato nel concreto, non va annullato nell’indistinto magma “sono tutti imperialisti”.

Le prese di posizione non possono essere rinviate in attesa di una catarsi perché un evento rivoluzionario viene costruito nelle continue scelte dettate dall’agenda e dagli avvenimenti politici.

Ora e qui abbiamo il dovere di collocarci, di prendere posizione, di lottare contro l’imperialismo anglo-americano e il nostro contributo è di mettere all’ordine del giorno l’uscita dell’Italia dalla Nato e la chiusura di tutte le basi.

Secondo la lettura di cui parlavamo, non dovremmo appoggiare il movimento NoMuos, né quello NodalMolin e neanche la lotta della Val di Susa perché non parlano di classe operaia e di lotta di classe.

Ma che modo di procedere è questo di separare i momenti e non riportarli mai ad unità e non vedere le interconnessioni che ci sono!

Sempre secondo la lettura di cui sopra non dovremmo essere antiamericane/i, ma solo antimperialiste/i come se l’una e l’altra cosa fossero in contraddizione.

Annullando tutto nel calderone di un indistinto imperialismo si rimuove il ruolo centrale dell’imperialismo americano, quello con cui tutti dobbiamo fare i conti quando tentiamo di percorrere strade alternative a questa società.