L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 4 gennaio 2014

Un capitalismo ingovernabile produce un sistema politico ingovernabile gestito da omuncoli e mezze tacche


Capitalismo 2013

di Antonio Carlo

Anatomia della politica attraverso l’economia: a) il caso italiano (1945 – 2013); b) la depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”
 20 ottobre 2013

 estratto
 1) Premessa. I motivi di un lavoro

Nei miei precedenti articoli sulla crisi mondiale1 ho sottolineato la centralità, quasi oppressiva, dell’economica sulla società nel suo complesso e sulla politica in particolare: una crisi strutturale senza soluzioni possibili, o meglio una depressione che è un crollo graduale già in atto ed irreversibile, produce l’impotenza della politica. Eppure c’è stato un tempo in cui la politica ha avuto un peso notevole negli equilibri della società capitalistica, non nel senso che essa potesse dirigere o pianificare l’economia capitalistico-mercantile, ma nel senso che la politica, lo Stato, sceglievano tra le alternative di sviluppo possibile e compatibili con la logica del capitalismo e del profitto: un esempio per tutti, l’alternativa che caratterizza tutta la storia del XIX secolo tra protezionismo e libero scambio, attorno a cui vi furono conflitti terribili all’interno della classe dominante che in un caso esplosero nella prima guerra dell’era industriale: la guerra di Secessione americana2. Oggi questo non è più possibile perché alternative di sviluppo non c’è ne sono più: gli Stati sopravvivono galleggiando sulla crisi, senza prospettive di medio-lungo periodo, cosa che evidenzio nell’ultimo lungo paragrafo di questo lavoro, dove si pone in luce come nessun Governo sappia in quale modo affrontare la cause della crisi, che appare una maledizione incomprensibile caduta dal cielo, al più si accenna a fenomeni che sono delle mere concause (gli eccessi speculativi) senza affrontare il nodo principale che è il fatto che questo sistema contrae stabilmente l’occupazione, mentre la popolazione mondiale cresce, ciò che crea una forbice insostenibile da cui derivano tutti i guai dell’economia mondiale3; certo si ammette che il problema occupazionale è centrale, ma nessuno ne affronta la vera causa che è nella natura di un sistema, in cui ormai la produzione può crescere riducendo l’occupazione in modo costante, ciò che crea tensioni insolubili.

L’ultimo lungo paragrafo è preceduto dai paragrafi 2-7 dove analizzo il sistema politico italiano nella sua relazione con l’economia capitalistica, ciò che potrebbe sembrare una ricerca dall’oggetto diverso rispetto al paragrafo finale, ma non è così perché anche nella parte “italiana” di questo lavoro ho cercato di evidenziare il legame profondo tra economia e politica nel senso che quando c’era uno sviluppo possibile la politica era in grado di operare scelte tra le alternative di sviluppo capitalistico, che però erano diverse e avevano grosse implicazioni pratiche: il miracolo economico italiano è impensabile senza la politica della DC. Poi la fine del miracolo italiano che, si noti, è parte del grande miracolo capitalistico post-bellico, determina da noi la crisi e il “deperimento” della politica sempre più incapace di dare risposte ai problemi creati da un’economia capitalistica impazzita. Le vicende italiane sono parallele ed analoghe alle vicende mondiali e spesso le anticipano, per cui l’analisi contestuale delle nostre vicende e di quelle mondiali mi pare giustificata ed opportuna.

7) Atto quarto (2008-2013). La fine del cavaliere azzurro e della Lega. Il mancato decollo del PD e del nuovo centro. Ingovernabilità crescente e senza prospettive


A) La mutazione dell’elettorato azzurro e il declino irreversibile del cavaliere
Nel 2008 B. vince le elezioni con una maggioranza umiliante e fa fuori Veltroni come Prodi e Rutelli, se fosse Toro Seduto la sua tenda sarebbe piena di scalpi dei suoi avversari stesi e umiliati. Poi nel 2011 lascia il governo sotto la spinta di uno “spread” che è arrivato a 550, di una impopolarità crescente, sinanche i suoi che senza di lui sono nessuno, sembrano sul punto di mollarlo. Che cosa è accaduto?

Non certo un ritorno di fiamma del centrosinistra che annega nella sua mediocrità, ma è accaduto che la crisi italiana, pesantissima dal 1990, si è saldata e confluisce nella grande depressione mondiale, che esplode nel dicembre 2007 e determina una situazione insostenibile: il nemico di B. non si chiama Veltroni o Prodi, ma Grande Depressione e per “Silviuccio” sono cavoli amari. Il suo elettorato, che sino ad allora gli aveva chiesto di salvarlo dalle tasse, facendo ricadere il peso delle lacrime e del sangue sui “coglioni comunisti”, davanti ad una situazione devastante gli chiede di intervenire. Il fatto è che lo sport di caricare tutto su salari, stipendi e pensioni sta bloccando i consumi, l’economia italiana è in caduta libera , i salari reali sono erosi, i consumi pure, si torna a livello di 20 anni fa, i negozi sono vuoti e falliscono, non si vendono case e auto e tutto va a rotoli.

Sembra proprio che se i “coglioni comunisti” non consumano anche “lor signori” se la passino male136.

Accade allora che le organizzazioni padronali, dalla Confindustria alla Confcommercio, scoprono che le tasse sul lavoro sono pesantissime e devono calare, assieme ovviamente a quelle delle imprese, dimenticando il piccolo particolare che le imprese evadono sfacciatamente137. Occorre ovviamente che il debito pubblico cali e che l’economia riprenda con tutti i costi che ciò comporta. Naturalmente tutto questo va fatto tenendo i conti in ordine; come dire botte piena, moglie ubriaca e uva nella vigna.

Nel frattempo l’evasione fiscale rimane elevatissima e non si pagano nemmeno le cartelle esecutive: chi ha scassato i conti con la propria evasione insultante, chiede di ridurre le tasse, rilanciare l’economia e salvare gli equilibri di bilancio, richieste che tenendo conto di quello che hanno fatto “lor signori” negli ultimi decenni sa di provocazione. Emblematico è quello che riferisce nel 2013 il quotidiano di Genova “Il Secolo XIX” dell’8/6/13 sul rifiuto del governatore ligure Burlando di andare ad un convegno degli industriali: avrebbe detto “non vado ad ascoltare chi da 20 anni non ha fatto un cazzo”.

Ciò che non è del tutto esatto poiché negli ultimi 20 anni (ed anche prima) qualcosa lor signori hanno fatto: tasse evase, soldi nei paradisi fiscali, imprese delocalizzate, cartelle esattoriali non pagate, tasche dei lavoratori dipendenti vuotate etc. Purtroppo Burlando è l’unico che risponda a costoro come meriterebbero, il centrosinistra dialoga e ascolta come sempre e del resto ha dialogato anche con B. come risulta dall’intervento di Violante nel 2002, la capacità di sdegnarsi, questi signori l’hanno persa da tempo, poiché, come è noto, sarebbe moralismo.

In altre parole il “popolo di Silvio” gli chiede di fare quello che Silviuccio non è mai stato, uno statista a livello di Roosevelt che affrontò la grande crisi; il guaio è che B. è un imprenditore che è entrato in politica solo per fare i fatti suoi e attorno a lui, al posto del “brain trust” che circondava Roosevelt, ha Verdini, Tremonti e la Santanché; inoltre negli anni ’30 una via di uscita dalla crisi era possibile e adesso non si vede. Si noti poi che un recente studio della CGIA di Mestre ha evidenziato che questa crisi è stata, per l’economia italiana, peggiore di quella del 1929, il che significa la peggiore di sempre: nel periodo 1929/34 il PIL cala del 5,1% e gli investimenti del 12,8%, nel periodo 2007-2012 il calo del PIL è del 6,9% e quello degli investimenti del 27,6%, il che significa che “Silviuccio” ed il suo formidabile “brain trust” dovrebbero confrontarsi con questa realtà. Da ridere.

Il poverino affoga, lo “spread” si impenna, forse manovrato, ma le manovre hanno successo sui mercati quando la sfiducia verso un’impresa o un governo sono a mille e nel caso di B. lo sono (o meglio sono solo a 550 il livello massimo raggiunto dallo “spread”).

Silviuccio deve andarsene sostituito da un tecnico nominato senatore a vita ed accolto come un liberatore o il salvatore della patria, di barzellette sulle mele che sanno di culo, di marocchine minorenni, e di politiche economiche fallimentari non se ne poteva più.

Le elezioni del 2013 sanciscono la fine di B.: perderà 6,3 milioni di voti e 16 punti percentuali. La Lega lo appoggia solo a patto che sia chiaro che non è leader della coalizione, ma la stessa Lega passerà dall’8,3% dei voti al 4,1%. Un disastro.

Il cavaliere è bollito , quello che avverrà dopo e che tutti sanno è solo il coronamento dell’opera: condanna definitiva, ineleggibilità etc. mentre all’orizzonte si delineano altri processi da affrontare con la prescrizione lontanissima , per uno di essi rimedia in primo grado una condanna a 7 anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

La parabola è finita.


B) Il mancato decollo del PD e del nuovo centro

B. , dunque, è finito ma il PD non vince e perde 3 milioni di voti, doveva limitarsi a fare l’avvoltoio cibandosi del cadavere del nemico ma neanche di questo è capace. Se fossi Scalfari direi che nel PD prosperano gli allocchi, ma sarebbe ingiusto: il gruppo dirigente di quel partito brilla per mediocrità ed ignoranza, ma il problema vero, l’ho detto un istante fa, è che nel capitalismo attuale via di uscita dalla crisi non ce ne sono , e questo favorisce l’emergere di una classe dirigente di incapaci e di mediocri, non si può essere all’altezza del compito quando il compito, cioè l’uscita dalla crisi, è impraticabile, e questo accade anche a livello mondiale, dove di Roosevelt in giro non se ne vede neanche uno.

Analogo discorso per il nuovo centro di Monti, partito con l’obiettivo del 20% alle elezioni del 2013, calato al 15% , poi al 12% per finire ad un modesto 10% dei consensi elettorali, in un paese dove un terzo circa dell’elettorato non si esprime.

Il centro non decolla e non esalta e questo perché puoi governare un paese al centro se c’è lo sviluppo (la DC degli anni ’45-’70) , se lo sviluppo è finito e la situazione economica è marcescente (più che nel resto d’Europa) ci vogliono soluzioni nuove e radicali che vadano al di là di un sistema ingovernabile, cosa che è al di fuori delle possibilità di un economista tradizionale ed ottocentesco che esprime la vecchia classe dirigente. Monti nel suo anno di governo ha fatto le stesse cose degli ultimi 20 anni: lacrime e sangue senza sviluppo, con provvedimenti a volte ridicoli come le srl costituite dai giovani con un solo euro di capitale, che avrebbero dovuto aprire il mercato alla concorrenza battendosi con le IM presenti in Italia, i cui AD avranno passato notti insonni davanti al nuovo pericolo creato dal professor Monti; stendiamo poi un velo pietoso sulla gaffe vergognosa e drammatica degli esodati138.

L’uomo poi (il prof. Monti) è la negazione vivente di un leader, dice cose banali in un modo soporifero, cerca (durante la campagna elettorale del 2013) di essere accattivante ed è semplicemente ridicolo, come quando si fa regalare un cagnolino durante una trasmissione de LA7. Due persone intelligenti come Vittorio Zucconi e Carlo Freccero sghignazzeranno su di lui durante una trasmissione televisiva, ma il problema per Monti come per il PD è sempre e solo lo stesso: non hanno nulla da proporre contro la crisi perché, all’interno del sistema, non c’è nulla da proporre139.

Chi guadagna dalle sconfitte altrui è il M5Stelle, che ha un programma elettorale non meno penoso degli altri140, con l’unica connotazione originale di un forte accento sull’economia verde. Il movimento non critica radicalmente il capitalismo, ma il sistema italiano dei partiti, qualificato con la realtà sordida e putrescente, davanti alla quale esplode in una gigantesca pernacchia che sembra evocare la celebre battuta “una risata vi seppellirà”141.

Un quarto degli italiani che va ancora alle urne , stanchi della vacuità della sinistra, del conformismo surgelato di Monti e delle barzellette orripilanti di B., decide di votarli. Un voto di protesta certo, ma la protesta è una cosa seria, gabellarla come qualunquismo è da imbecilli o da struzzi che non vogliono vedere la frana che rovina a valle. Un capitalismo ingovernabile produce un sistema politico ingovernabile gestito da omuncoli e mezze tacche.



8) L’epilogo in terra. La depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”. L’impotenza senza ritorno degli Stati


A) L’evoluzione recente della crisi mondiale

Se questa è la situazione italiana quella mondiale, fatte le debite differenze, è tendenzialmente simile, nel senso che dappertutto gli Stati pur con i caratteri specifici dei differenti sistemi politici, sono impotenti davanti ad una depressione sorda ed invincibile. L’economia mondiale malgrado qualche squillo di tromba sempre meno convinto, continua nel suo corso irreversibile. Se consideriamo le due più significative aree economiche (USA ed Eurozona nel periodo 20082012) vediamo che il PIL evolve in USA in questa maniera: 2008 – 0,3%, 2009 –3,1%, 2010 + 2,4%; 2011 +1,8%, 2012 + 2,8%; nell’Eurozona abbiamo: 2008 + 0,4%, 2009 -4,4%, 2010 +2%, 2011 + 1,4%, 2012 -0,4%142.

In USA, dunque, durante la recessione si perde circa il 3,4% del PIL e si recuperano 7 punti nei tre anni della ripresa, la crescita media del quinquennio è dello 0,7% l’anno, un evidente ristagno pagato però a carissimo prezzo poiché a fine 2007 il rapporto debito federale –PIL era al 65,24%, mentre a fine 2012 è al 104,8% con una crescita del 39,6%, superiore 11 volte alla crescita del PIL durante il quinquennio considerato; durante gli anni di crescita positiva (2010-2012) la crescita del debito è solo 3-4 volte quella del PIL, che sarebbe tantissimo ma la media dell’intero quinquennio è quella indicata, semplicemente deprimente. Gli USA di fatto sono un paese fallito. Ancora peggio l’Eurozona che non ha ancora recuperato i livelli precrisi e per reggere ha dovuto anch’essa indebitarsi pesantemente come è noto: i parametri di Maastricht (60% debito pubblico-PIL) sono ormai un ricordo da libro dei sogni e il rapporto debito pubblico-PIL in media ha superato il 90%143. Ancora, a settembre 2013 l’OCSE dirama le stime per la crescita del 2013 che non sono per nulla esaltanti.


Come si vede i principali paesi capitalistici sono in netta decelerazione con le sole eccezioni di Francia e Canada per pochissimi decimali di punto, l’India è in netto calo, solo il Regno Unito segna una discreta performance, ma comunque a un livello modesto e inferiore alle previsioni del 2010. Un quadro globale decisamente depresso.

Non meno grave è la situazione occupazionale che non accenna a migliorare, qualche piccola limatura al ribasso in paesi come gli USA ma si tratta di un miracolo statistico buono per gli struzzi. L’OCSE segnala che a fine giugno 2012 il tasso di attività (percentuale occupati sulla popolazione attiva), è del 56,5% in Italia, del 54,6% in Spagna mentre in USA stiamo al 58,7%, due punti in meno del periodo pre-crisi145, ed analogo a quello americano è il tasso di attività giapponese, eppure in Giappone la disoccupazione supera di poco il 4%, in America siamo attorno all’8% (fine 2012) , in Italia all’11% ed in Spagna al 25% (sempre alla fine del 2012). Con tassi di attività molto vicini abbiamo sbalzi del 4% al 25% , il che sembrerebbe inspiegabile. La risposta a questo arcano è semplice: le statistiche spagnole chiamano i disoccupati con il loro nome, altri preferiscono chiamarli, inattivi, inoccupati, “missing men” (uomini che si sono persi o che sono scoraggiati e non cercano più lavoro): come dico da anni statistiche per struzzi. In realtà in un paese come gli USA, considerando gli scoraggiati, la disoccupazione raddoppia e tra gli occupati il 40% lavora ad orario o a salario ridotto146; in Italia i lavoratori a tempo pieno e indeterminato sono in calo e sono poco più della metà147, in Germania dove la disoccupazione ufficiale supera di poco il 5% ci sono 8 milioni di lavoratori (un quarto della forza lavoro globale) che lavorano ad orario e salario ridotto guadagnando 450 euro mensili148, i sottoccupati a livello mondiale sono il 50% della forza lavoro nel 2005 (ILO) cifra cresciuta negli anni della recessione. Nel complesso anche nei paesi industriali avanzati ormai la forza lavoro è formata in prevalenza da disoccupati, scoraggiati, inattivi o sottoccupati. Davanti a questo panorama desolante il FMI nel marzo 2013 ammoniva contro i facili ottimismi , la strada della ripresa è “sconnessa” e non esistono soluzioni ottimali al problema del debito ed al ristagno dei consumi, a settembre l’OCSE osserva che l’economia mondiale è caratterizzata da “occupazione debole, crescita globale a rilento, permanenti squilibri”149.

In altre parole si continua ad affondare senza che nessuno sappia come uscire dalle sabbie mobili. Ne è il caso di consolarsi con la crescita di paesi emergenti poiché anch’essi sono in decelerazione netta ed una crescita del 7,5% della Cina significa quasi sempre collocarsi sotto al livello 50 dell’indice PMI che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione150, e gli altri paesi emergenti si collocano decisamente sotto il livello cinese.


B) Crisi mondiale e mancanza di un potere mondiale. I funerali della “autonomia del politico”

Ormai è pacifico che per fronteggiare una crisi così radicale e così generalizzata prodotta da meccanismi mondiali, occorrono risposte mondiali, i vari G (siano essi 7,8 o 20) che si susseguono dovrebbero servire a questo, ma al G8 di giugno tenuto nel Regno Unito il padrone di casa Cameron riconosce che i G precedenti hanno prodotto solo un “cimitero di documenti”. Ma indipendentemente dalla candida ammissione di Cameron è chiaro che nessuno dei vari G che ogni anno si tengono , è riuscito ad ottenere un qualche risultato, le ammissioni di OCSE e FMI prima citate sono indicative, affondiamo più o meno lentamente, a seconda dei paesi, e nessuno riesce a capire come si possa uscire dal pantano.

Prendiamo due punti nodali: mentre il G8 si riunisce il Tax Justice Network diffonde i dati sull’evasione fiscale a livello mondiale, un volume di oltre 3.100 miliardi di dollari tasse evase ogni anno, nulla di scandaloso la commissione europea valuta in mille miliardi di euro le tasse evase nella sola UE151, se si proietta a livello mondiale il dato della UE si potrebbe pensare che forse la valutazione del Tax Justice Network è anche troppo ottimistica. Il G8 raggiunge un accordo sullo scambio di informazioni tra i paesi membri sul problema dell’evasione fiscale che diventerà operativo nel 2015, un risultato epocale, dal momento che l’evasione è galoppante ed ha raggiunto i livelli di cui sopra, possiamo attendere fino al 2015 perché cominci uno scambio di informazioni tra i paesi interessati , problema che esiste e si trascina da quando mi occupo dell’evasione fiscale cioè da una quarantina d’anni. Il Ministro delle Finanze austriaco davanti a questi risultati si è messo a ridere e ha affermato che le dichiarazioni trionfalistiche del suo collega inglese Osborne sono incomprensibili. Personalmente concordo con le opinioni della gentile signora che ricopre la carica di Ministro delle Finanze in Austria e ciò perché, come scrivo da anni, nessuno dei paesi interessati vuole veramente combattere l’evasione fiscale dal momento che ospita e protegge sul proprio territorio illustri e famosi paradisi fiscali, dagli USA all’Inghilterra, dalla Francia alla Cina. Tali paradisi servono per attirare investimenti in concorrenza con gli altri paesi. Si noti poi che lo scambio di informazioni si ferma sulla soglia dei paradisi fiscali, che notoriamente sono parchi nel fornire le stesse informazioni, a cominciare dal libro dei soci, che spesso è riservato, e spesso le azioni sono al portatore sicché è impossibile scoprire chi ha compiuto determinati movimenti di capitali. Non occorre poi alcuna informazione per sapere che le IM mettono la loro sede dove pagano meno tasse, sono cose di dominio pubblico e di recente la stampa italiana ed internazionale se ne è occupata in rapporto a giganti come la Fiat e al Apple, il problema non è l’informazione ma la volontà e l’interesse politico ad agire contro l’evasione fiscale.

È emblematico, a tal proposito, quelle che avvenne nel 2009 quando Obama attaccò la Svizzera cercando di ottenere il rientro dei capitali americani in fuga verso la Svizzera; in realtà però l’America è un grande paradiso fiscale al cui interno esistono autentiche oasi per evasori come il Nevada, Puerto Rico, o il Delaware, per cui Obama chiedeva semplicemente ai capitalisti americani di riportare in patria i loro soldi, dove avrebbero potuto continuare ad evadere ma patriotticamente152.

Non meno rilevante è il problema del lavoro poiché questo sistema produce sempre meno lavoro mentre la popolazione aumenta ed i meccanismi di recupero della forza lavoro esuberante sono usurati irreversibilmente. Che fare? Nessuno lo sa e al più si propone di ridurre il costo del lavoro per rendere più appetibili le assunzioni dimenticando che il capitale può contrarre l’occupazione aumentando la produzione e dimenticando che la flessibilità salariale attuata in un mercato del lavoro stagnante o calante, è solo “flessibilità cattiva” che produce sottoccupazione e sottosalario, questo perché i lavoratori e le loro istituzioni si trovano in una situazione di debolezza contrattuale e devono accettare quello che passa il convento.

In una simili situazione si producono solo lettere di intenti che esprimono desideri privi di strumenti attuativi, documenti destinati al cimitero o al massimo annunci di carattere propagandistico.

Un tempo non era così: il XIX secolo fu caratterizzato da grandi conflitti tra due ipotesi di sviluppo il protezionismo e il libero scambio, entrambe queste ipotesi erano ipotesi di sviluppo capitalistico alternative come notò Marx153. Si trattava di scelte alternative ed incompatibili tra loro che portarono a conflitti terribili il più grave di tutti fu la guerra di Secessione americana, che fu la prima guerra dell’era industriale, la cui causa fu la ribellione del Sud alla tariffa protezionistica decisa dall’amministrazione Lincoln154. Lo Stato si muoveva nelle coordinate e nei parametri del capitalismo ma in quell’ambito faceva delle scelte che erano delimitate dalle esigenze dello sviluppo capitalistico: il capitale determinava il campo delle scelte del potere politico ma in quel campo il potere sceglieva e la scelta aveva un peso e delle conseguenze notevoli: senza il protezionismo non possiamo immaginare lo sviluppo degli USA dopo la tariffa Morril, del Giappone dopo la rivoluzione del 1868, dell’Italia dopo la tariffa del 1887, della Germania da Bismark in poi etc.

Lo stesso discorso può farsi per quello che avviene dagli anni ’30 in poi: i tentativi di pianificare il capitalismo (New Deal, nazismo e fascismo) fallirono, nessuno riuscì a realizzare il sogno di un capitalismo dallo sviluppo prevedibile e pianificabile, capace di dominare il ciclo economico e le crisi, epperò nacque il welfare state, che garantì uno sviluppo miracoloso fino al 1970 anche se con costi, contraddizioni, pause recessive.

Il fatto è che allora il capitalismo si sviluppava sia pure tra tensioni e contraddizioni per cui gli Stati, il potere politico, avevano alternative di scelta tra le varie ipotesi di sviluppo. Oggi non più perché lo sviluppo non c’è più, al massimo si ha un ristagno asfittico con un indebitamento crescente ed insostenibile accompagnato da grandi masse di occupati e sottoccupati. I problemi sul tappeto sono insolubili e nessuno Stato può inventarsi soluzioni di sviluppo inesistenti. In altre parole gli Stati non sanno più che pesci pigliare perché non ci sono più pesci da prendere.


C) Gli USA

Quanto sosteniamo può essere ulteriormente verificato analizzando i principali paesi o le aree dell’attuale capitalismo: ovunque lo Stato è impotente davanti alla “Grande Depressione” che viviamo.

In USA il PIL, come si è visto, ristagna, ed il debito federale cresce in modo esplosivo. Il prof. Roubini osserva che, potenzialmente, il PIL USA potrebbe crescere del 2,5-3% l’anno, ma l’attuale crescita è molto più bassa155; in realtà potrebbe crescere molto di più poiché nel 2011 il PIL USA cala di un -1,3% nel primo trimestre per impennarsi del 4,9% nell’ultimo trimestre, nel 2012 siamo ad un + 3,7% nel primo trimestre cui segue uno striminzito 1,2% nel secondo, nel 2013 siamo a 1,1% nel primo trimestre e a 2,5% nel secondo (dati su base annua). Come si vede l’economia USA può crescere anche del 5% circa in un trimestre, il guaio è che subito dopo il ritmo non tiene e si affloscia, ci troviamo in presenza di tipici rimbalzini da inventario passati i quali si ritorna al grigiore precedente156. Questo implica che il tasso di utilizzo degli impianti rimane inadeguato o basso con conseguente perdita degli investimenti che rimangono improduttivi157.

Quanto alla disoccupazione ad agosto 2013 sarebbe calata al 7,4%, secondo i dati ufficiali che abbiamo poc’anzi criticato considerandoli irreali, ma qui voglio aggiungere ulteriori considerazioni. Frugando tra i miei articoli passati sulla crisi ho scoperto che nel febbraio 2005, in USA, vengono creato 266.000 nuovi posti di lavoro e la disoccupazione cresce dello 0,2%158. Nel 2012 la disoccupazione cala lentamente ma si creano mediamente solo 183.000 posti di lavoro al mese159; nel giugno 2013 si creano 195.000 posti di lavoro e la disoccupazione è ferma al 7,6% il mese dopo 162.000 posti di lavoro e la disoccupazione cala al 7,4%, ad agosto 169.000 nuovi posti e siamo al 7,3%. Dati assurdi e misteriosi formalmente incomprensibili che si spiegano col fatto che gli scoraggiati (“missing men”) che hanno perso il lavoro e non lo cercano più non sono considerati disoccupati ma semplicemente scompaiono dalle statistiche del lavoro USA.

Come dico da anni queste statistiche sono fatte da struzzi per altri struzzi, le persone serie a cominciare dai Nobel Phelps e Krugman (o al prof. Rifkin) le trattano con sovrano disprezzo. C’è di più, i dati di luglio 2013 evidenziano anche che l’orario settimanale è ancora calato in USA si lavora solo per poco più di 34 ore settimanali160, il che significa che mediamente un lavoratore americano lavora per poco più di 4 giorni a settimana, in altre parole c’è chi lavora 44 ore settimanali e chi 20, 22, 25 etc. , la media è poco più di 34 ore, la forza lavoro è sottoutilizzata come sottoutilizzati sono gli impianti e questo avviene nel paese più ricco del mondo con la massima potenza tecnologica esistente.

Parallelamente il debito pubblico si impenna, abbiamo visto il dato del 2012 ma il sig. Lew, nuovo ministro del tesoro USA, dice che a ottobre 2013 raggiungeremo il tetto di 16.700 miliardi di dollari di debito federale, per cui bisognerà chiedere al Congresso una nuova autorizzazione per sforarlo, e questo malgrado Obama abbia fatto negli ultimi anni manovre lacrime e sangue161, l’ultima a febbraio di quest’anno con tagli generalizzati di ogni genere dalle spese militari ai parchi pubblici162.

È accaduto inoltre che in una pubblica manifestazione del 20.9.13 Obama abbia attaccato apertamente i repubblicani ricordando loro che l’America non è una repubblica bananiera che possa andare in default . In realtà varie entità pubbliche (municipalità, contee e sinanche uno Stato, il Minnesota) sono andate in default in USA ed uno Stato che non sia in grado di onorare i propri impegni fallisce, si chiami Nicaragua o USA; ciò che però, Obama voleva dire era che un default degli USA avrebbe conseguenze catastrofiche e si passerebbe da un 1929 strisciante e nascosto ad uno palese e devastante. Se il governo USA non paga più i buoni pasto o le indennità di disoccupazione assieme ai debiti che ha verso i propri fornitori, se taglia drasticamente le commesse che eroga all’industria, le conseguenze sarebbero immediate e disastrose. Il guaio è che in questa contesa i due contendenti hanno contemporaneamente ragione e torto. Ha ragione Obama nel dire che l’America non può fallire, sarebbe un disastro, la fine di un impero con ricadute su tutta l’economia mondiale; ma hanno ragione anche i repubblicani perché un debito di 16.700 miliardi che cresce di anno in anno come un torrente in piena, con un ritmo enormemente più elevato della crescita del PIL, è come un cancro irreversibile le cui metastasi si diffondono anno dopo anno, sicché la vita del paziente è sempre più a rischio.

Entrambi , però, hanno torto perché non propongono soluzioni valide al problema sul tappeto, soprattutto sul tema nodale dell’occupazione: la ricetta di Obama è fallita e quella dei repubblicani è la solita minestra riscaldata di stampo monetarista: meno spese pubbliche in modo da dilatare gli investimenti privati che rilanceranno produzione, occupazione e benessere. Romney durante la campagna elettorale del 2012 ha promesso agli americani milioni di posti di lavoro sin dai primi mesi del suo ipotetico governo, e questo più che un libro dei sogni ci sembra un delirio da ospedale psichiatrico: i repubblicani dimenticano che gli investimenti ormai non producono più occupazione ma disoccupazione e sottoccupazione e dimenticano, altresì, che la spesa statale non è uno spreco ma un sostengo all’economia capitalistica: i buoni pasto di 4,45 dollari al giorno e a persona significano domanda e consumi per cifre annue molto consistenti e lo stesso dicasi per le indennità di disoccupazione, se tagli queste spese tagli i consumi e quindi la dinamica dell’economia, lo stesso si può dire per i consumi pubblici come le spese per la scuola che si traducono in stipendi degli insegnanti e quindi in consumi, ed in commesse per le industrie fornitrici. In sostanza i repubblicani propongono una politica che avrebbe gli stessi effetti di un default e che è stata già sperimentata e sconfitta: nel 1981 Reagan cercò di tagliare la spesa ma siccome l’economia non reggeva si convertì, nel 1982, ad una politica opposta di spesa a sostegno dell’economia e come tutti sanno il rapporto debito federale-PIL si impennò dal 31,9% del 1981 al 50,99% del 1988; lo stesso avvenne con G. W. Bush e con Greenspan sotto la cui direzione il rapporto debito federale-PIL passò dal 57,34% del 2001 al 73,31% del novembre 2008163.

Un ulteriore nodo di contraddizioni dell’economia USA si colloca nell’ambito della politica della Fed che è uno dei capisaldi del governo dell’economia in USA. Da anni essa persegue una politica di sostegno che consiste anche nell’acquisto massiccio di bonds pubblici o collegati al mercato dei mutui al fine di sostenere l’economia: in altre parole si stampa carta moneta e si acquistano titoli, siano essi del debito pubblico che di imprese private; in questo modo si garantisce la copertura delle emissioni dei titoli pubblici a prezzi e a rendimenti accettabili e si sostiene l’economia privata in particolare il settore delicato dei mutui. Negli ultimi mesi nella Fed si è delineata una spaccatura tra coloro che intendono continuare il piano di acquisti (fino a 85 miliardi di dollari al mese) e chi vorrebbe contenerlo. In realtà la Fed può continuare ad acquistare i titoli che il mercato non acquisterebbe o acquisterebbe a prezzi molto più bassi, ma avendone già in portafoglio alcune migliaia di miliardi c’è il rischio alla lunga si trovi con un portafoglio titoli non collocabile sul mercato se non a prezzi stracciati. In Italia qualcosa di simile capitò alla Banca d’Italia nel 1931 che , dopo aver acquistato per anni titoli spazzatura , al fine di sostenere l’economia, si trovò con il portafoglio pieno di titoli che erano carta straccia, per cui correva il rischio di essere tecnicamente fallita. Il problema fu risolto con la creazione dell’IRI che acquistò a buon prezzo (per la Banca d’Italia) i titoli in questione, naturalmente qualcuno pagò per l’operazione: il contribuente italiano dalle cui tasche uscirono i soldi per costituire la dotazione dell’IRI. Ma è possibile in USA una soluzione simile alla nostra del 1931?

Assolutamente no. Un simile piano implicherebbe un costo di alcune migliaia di migliaia di dollari che si scaricherebbe sul consumatore americano già oberato di debiti164 e quindi implicherebbe una contrazione dei consumi già poco dinamici, in sostanza un rimedio peggiore del male; inoltre i repubblicani che controllano uno dei rami del Congresso (e condizionano il Senato) farebbero le barricate, ciò che poteva fare Mussolini non può fare Obama.

C’è di più il 20.9.13 la Fed ha spiazzato tutti affermando che il piano di lento e graduale rientro della politica degli acquisti e bonds (che tutti si attendevano) era rinviato a data da destinarsi, evidentemente l’economia americana non può fare a meno di una stampella di sostegno di 85 miliardi di dollari mensili. Questa posizione ha suscitato però le critiche di Warren Buffet famosissimo finanziere che però non è privo di atteggiamenti liberal, il quale ha rilevato che la Fed si comporta come un fondo speculativo ad altissimo rischio: il suo portafogli titoli è passato da 879 miliardi nel 2007 ai 3.600 attuali, ma i titoli in questione potrebbero devalorizzarsi esponendo la Fed a perdite anche di 500 miliardi poiché i tassi di interesse dei bond americani tendono a salire e per contro i loro prezzi tendono a deprimersi165. La preoccupazione di Buffet è tutt’altro che infondata poiché la situazione dell’indebitamento globale dell’economia americana è pesantissima: già nel 2009 tale indebitamento era vicino al 400% del PIL166 e da allora la situazione si è incancrenita, inoltre la concorrenza sul mercato mondiale per accaparrarsi i capitali necessari al finanziamento del debito pubblico dei vari paesi si sta acuendo per cui è prevedibile una crescita della concorrenza tra i paesi fondata sulla crescita dei tassi di interesse, è probabile quindi che titoli con tassi di interesse ritenuti bassi si devalorizzino. Come si vede la situazione dell’economia americana è un intrico di contraddizioni quanto mai esplosivo ed insolubile davanti al quale il governo, l’opposizione e la Fed sono del tutto impotenti, si procede per palliativi perché soluzioni strutturali, ipotesi di sviluppo praticabili non ne esistono.


D) Eurozona ed UE

La situazione in Europa, come arguibile dai dati sulla crescita del PIL, dopo il 2008 è sempre più pesante. A marzo 2013 l’ILO rileva che la disoccupazione nella UE a 27 è a 26 milioni contro i 10,2 milioni del 2008, e ancora una volta dobbiamo ricordare che questi dati sono pesantemente sottostimati. La disoccupazione giovanile a gennaio 2013 è al 24,4% nell’Eurozona e al 23,5% nella UE a 27 (Eurostat). Il debito e il deficit non accennano a calare, siamo a fine 2012 al 90,6% nella media dell’Eurozona per ciò che attiene il rapporto debito PIL mentre la media del rapporto deficit-PIL annuo è al 3,7%, ma anche i ricchi paesi del nord Europa o l’Inghilterra, estranea all’Eurozona, sono in una situazione difficile, la Germania, il paese più forte della UE ha un rapporto debito-PIL all’81,9% cresciuto di 1,5% rispetto al 2011 (Eurostat). Gli squilibri sono enormi e l’Eurostat riferisce che fatta base 100 il PIL procapite della UE a 27 siamo al 98 per l’Italia contro 108 (media Eurozona), 121 per la Germania, 271 per il Lussemburgo e il 47 per la Bulgaria (giugno 2013).

L’evasione fiscale è insultante: il commissario europeo Bailly afferma pubblicamente che le tasse evase sono pari a 1000 miliardi l’anno di euro167, cifra confermata da Barroso davanti al Parlamento europeo168.

Il fatto è che nessuno riesce a mettere in piedi una politica antievasione per i problemi che abbiamo già visto in precedenza parlando del G8, infatti il peso delle IM è immenso, secondo una recente indagine 387 colossi controllano 12.206 miliardi di dollari di fatturato con 32 milioni di addetti169, inimicarseli significa subire delocalizzazioni o sabotaggi delle aste dei bonds e gli Stati fanno a gara per ingraziarseli proprio dal punto di vista fiscale, così a maggio 2103 vari giornali pubblicano che la Fiat e la Apple mettono le loro sedi a Londra, dove si pagano meno tasse e tutti ricordano come quando Hollande minacciò la tassa del 75% sui redditi più elevati, altri paesi europei, dall’Inghilterra al Belgio si offrirono come rifugio ai poveri capitalisti espropriati da Stalin-Hollande. Avviene inoltre che la Tobin tax, che avrebbe dovuto partire nel 2013, viene rinviata di 6 mesi per mancanza di accordo tra i governi, qualcuno dice che è una tassa morta ancor prima di nascere170.

Ora se i bilanci soffrono (e tutti soffrono) a causa dell’evasione fiscale non hai mezzi per fare una politica seria e consistente, per sostenere i consumi, per aumentare i posti di lavoro etc.171; si delinea anzi un circolo vizioso, siccome i bilanci sono in deficit sei ricattabile e non puoi lottare contro gli evasori fiscali, che potrebbero non sottoscrivere le emissioni dei bonds, per cui finisci all’arrenderti all’evasione fiscale.

E se l’evasione fiscale dilaga , dilaga anche la corruzione che è la sua sorella gemella: a fine 2012 la Commissione europea pubblica i dati sul peso della corruzione e dell’economia sommersa nei principali paesi dell’Eurozona172.



Come si vede la tesi che l’Italia sia un paese eccezionalmente corrotto è campata in aria, la corruzione è un fenomeno generale e la UE impotente contro di essa come contro l’evasione fiscale. Degli Stati deboli, ricattabili finanziariamente e cioè a sovranità economica limitata, non possono fare una politica forte contro la corruzione, ammesso che questo nel capitalismo sia possibile173.

Ma chi non ha soldi non può fare nessun tipo di politica economica autonoma nel campo del lavoro e nella lotta agli squilibri: senza carburante non ti muovi. Così alla UE non rimane che fare l’unica politica che può fare: porre vincoli di bilancio “austeri” ai singoli paesi senza proporre alcuna soluzione positiva; eppure questa politica folle viene sempre più criticata sinanche il capo economista dell’OCSE prof. Padoan ne rileva l’assurdità174. Con i conti in ordine non crei posti di lavoro ma al massimo avrai la soddisfazione di affondare con i conti in ordine come capitò ad Hoover nel 1932, e c’è il rischio che alla fine neanche i conti siano in ordine perché se la ripresa non riparte e l’economia continua a ristagnare, le entrate fiscali si contraggono e i conti possono ritornare in rosso, cosa che sta accadendo nella UE.

Anche nella UE gli Stati e quel minimo di potere sovrannazionale creato con i vari trattati europei sono paralizzati ed impotenti, nessuno opera scelte di alternative di sviluppo perché alternative non ce ne sono.


E) Cina e Giappone

La Cina è chiaramente in fase di decelerazione, al punto più basso degli ultimi 13 anni la tabella che segue illustra chiaramente la tendenza in atto175


I dati si commentano da sé e alle anime candide per cui un 7% è tanto, ricorderò che per la Cina il 7% è poco: infatti l’indice PMI che monitora lo sviluppo di industria e servizi contiene un dato spartiacque che è 50, al di sopra c’è lo sviluppo al disotto il ristagno o la recessione, ebbene nel corso del 2012 e nella prima metà del 2013 questo indice si è collocato nella maggior parte dei casi sotto 50176, in altre parole l’1 % di sviluppo americano o tedesco ha ben altro valore di un 5-6% cinese177. La Cina, dunque, è vicinissima al ristagno e le previsioni di un rapporto fatto per conto del governo cinese dicono che negli anni prossimi saremo ad un tasso di sviluppo del 6,5%178 il che significa ristagno stabile, sempre che il paese non abbia una frenata di tipo indiano che non può escludersi, peraltro siamo lontanissimi dal picco del 14,2% del 2007. E questo ragionando sempre e solo in termini quantitativi poiché è noto che la qualità cinese è molto bassa spesso formata da falsi grossolani179, e questo è normale per un paese che ha una produttività media pari al 5% di quella dei paesi avanzati, con punte massime di appena il 15%180. E qui si pone il nodo insolubile dell’economia cinese: raggiungere l’occidente significa produrre con la nostra produttività, ma farlo, lo rilevo da anni, significherebbe rendere “esuberanti” 700 milioni di lavoratori cinesi181. Impensabile.

Inoltre il debito delle famiglie e delle imprese è al 207% del PIL182 ed è altresì in crescita il debito pubblico183, in altre parole la situazione debitoria della Cina si avvicina a quella dei paesi di capitalismo avanzato pur avendo la Cina stessa un PIL procapite molto più basso di quello dei paesi ricchi.

Anche qui ci troviamo ad un groviglio di contraddizioni assolutamente inestricabili per il governo cinese che non è meno impotente dei governi democratici. Cambia solo la fenomenologia della crisi: in Occidente assistiamo a conflitti e lacerazioni e ad un’instabilità estrema (le fibrillazioni della nostra politica, oppure Obama che deve vedersela con l’ostruzionismo repubblicano al Congresso), mentre in Cina un governo autoritario siede immobile sui propri problemi senza sapere come affrontarli e senza affrontarli: cambia la fenomenologia ma l’impotenza è la stessa.

Infine il Giappone. Paese che viene da 15 anni di ristagno di cui 5 con sviluppo negativo. Il premier Abe lancia la politica delle massicce iniezioni di liquidità e della sottovalutazione dello yen per sfondare sui mercati mondiali. Il prof. Sachs, consulente del segretario generale dell’ONU, è un estimatore del premier giapponese, ma la sua speranza nella politica di Abe ci sembra decisamente malriposta. Innanzitutto il fine di Abe è uno sviluppo dell’1-2% nei prossimi 10 anni e cioè una crescita modesta e moderata e le stime OCSE per il 2013 non sono esaltanti mentre il debito pubblico è arrivato al 240% del PIL (record mondiale)184. Inoltre puntare sui mercati mondiali mentre l’economia ed i consumi globali ristagnano non sembra una soluzione esaltante (il calo del PIL cinese sbilanciato verso le esportazioni è indicativo), anche perché se tieni lo yen basso riduci anche le potenzialità dei consumi interni dei lavoratori giapponesi, e quindi perdi all’interno quello che potresti guadagnare all’estero185.

C’è poi da considerare che per essere competitivi all’estero devi potenziare la tecnologia, che nel capitalismo deprime l’occupazione, oppure puoi imporre salari da fame come in Cina ma anche questa soluzione deprime i consumi interni. Nel caso di un paese tecnologicamente avanzato come il Giappone, la soluzione più logica è quella della competitività fondata sulla tecnologia e sulla produttività; il guaio è che però una simile soluzione urta con la necessità di espandere l’occupazione, in Giappone infatti, come già abbiamo notato, la disoccupazione supera di poco il 4% semplicemente perché c’è una massa enorme di donne (18-20 milioni) che viene chiamata pudicamente “inattiva”. Un paio di anni fa la Banca mondiale attribuì al Giappone il 74° posto nel mondo per l’occupazione femminile, sinanche dietro all’Italia (il che è tutto dire) e nell’intervista al prof. Sachs l’intervistatore gli fa notare che per quel che concerne il rapporto pari opportunità uomo-donna il Giappone è al 101° posto nel mondo su 135 paesi censiti186. Il prof. Sachs osserva che però le donne sono una risorsa se, infatti, la loro occupazione si avvicinasse ai livelli maschili, il PIL giapponese crescerebbe del 15%187.

Verissimo, anche da noi se l’occupazione femminile fosse a livello di quello maschile avremmo lo stesso risultato; a livello mondiale se il 50% della forza lavoro non fosse sottoccupata potremmo raddoppiare il PIL e così via elencando. Diceva Gaetano Salvemini: “Se mia nonna avesse avuto il trolley sarebbe stata un tram”. In altre parole se dai per scontato che i problemi si possano risolvere e trasformi la possibilità in realtà hai risolto il problema, chi però avanza queste ipotesi dovrebbe avere l’accortezza di spiegare come queste ipotesi possono concretamente realizzarsi: se in Giappone l’occupazione femminile è depressa, qualche motivo ci sarà e presumibilmente ciò sarà dovuto, in Giappone come in altri paesi, al carattere estremamente capital intensive e labour saving della produzione, sostanzialmente le donne pagano il prezzo di un sistema che produce sempre di più con meno addetti, che è un problema mondiale. Nel caso del Giappone poi la scelta di essere competitivi a livello mondiale puntando sulle esportazioni non può che spingere quel paese ad esasperare l’uso della tecnologia e della competitività. Anche nel caso del Giappone le politiche proposte sono armi spuntate prive di qualunque prospettiva. In occidente come in oriente gli Stati hanno esaurito le munizioni e rimangono seduti sulla loro impotenza.

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Note

1 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008: nel tunnel senza uscita, in www.crisieconflitti.it, 2009; ID. Capitalismo 2009: la via verso il crollo,  ID. Capitalismo 2010: uomo morto che cammina,  ID. Capitalismo 2011: decomposizione in atto, 2012 e in http://connessioni-connessioni.blogspot.it, 2012; ID, La putrescenza del capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo.

2 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura, Liguori, Napoli, 2000, pp. 540 e sgg.

3 Vedi gli articoli citati alla nota 1 ma in realtà sostengo questa tesi a partire da una monografia edita per la prima volta nel 1980, v. A. CARLO, La società industriale decadente, Liguori, Napoli, 2001, 3ª ed., cap. II e IV.

4 In realtà si sente parlare a vanvera di seconda o terza Repubblica, dimenticando che una Repubblica si fonda su una Costituzione, e la nostra è sempre ferma a quella del 1948.

5 Infatti sono state abrogate per incompatibilità le norme che facevano riferimento all’ordinamento corporativo, mentre, in tema soprattutto in famiglia, altre sforbiciate ha operato la Consulta.

6 C’è poi il licenziamento per giusta causa dovuto ad atti compiuti dai dipendenti fuori dal rapporto di lavoro e che minano la fiducia in lui: ad esempio si scopre che nel tempo libero il dipendente va in giro a rapinare banche.

7 Fonte ISTAT.

8 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit. par. 6. Come si vede 4-500 cause contro poco meno di 2 milioni di licenziamenti in due anni

9 Vi fu un caso, subito dopo l’emanazione dello Statuto dei lavoratori assai indicativo: un datore di lavoro trovò un dipendente che scopava allegramente con la propria moglie (quella del datore di lavoro) e lo licenziò in tronco, ma un simpatico Pretore del lavoro ne ordinò la riassunzione perché non c’era nessuna giusta causa o giustificato motivo.

10 Tale sistema si regge sullo sfruttamento del lavoro salariato, v. A. CARLO, La società industriale cit., cap. 1°.

11 Quando ero un giovane studente leggevo gli scritti antifascisti dell’esiliato Gaetano Salvemini, che sghignazzava sul “dovere di lavoro” previsto dalle norme fasciste che non impedivano ai disoccupati di rimanere tali ed ai rentiers di continuare a crogiolarsi al sole. La stessa ironia può valere per l’art. 4 della nostra Costituzione.

12 Vedi G. ZAGREBELSKY, Fondata sul lavoro, Einaudi, Torino, 2013, pp. 39 e sgg.

13 Su ciò v. A. CARLO, Ricerche di sociologia negativa, Liguori, Napoli, 1994, pp. 134 – 5, dove ripubblico un mio vecchio saggio del 1977.

14 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2.

15 Sono infatti costituite con i contributi versati durante la vita produttiva del lavoratore.

16 Su questo vedi la mia analisi, A. CARLO, Il capitalismo impianificabile, Liguori, Napoli, 1979 ,
2ª ed. , dove analizzo le cause strutturali del fallimento della programmazione in Italia.

17 Oltre al lavoro citato alla nota precedente sono ritornato varie volte sull’argomento. Vedi A.
CARLO, La società industriale cit.; ID. Il leviatano morente, Liguori, Napoli, 2001, 3ª ed. , cap.
1°; ovviamente sono tornato varie volte sul tema negli articoli indicati alla nota 1 e in svariati altri
casi.

18 Vedi A. CARLO, Il Capitalismo impianificabile cit., pp. 270-71.

19 Su ciò v. i miei articoli citati alla nota 1 ed infra par. 8.

20 Vedi A. CARLO, op. ult. cit. , pp. 249 e sgg.

21 Ivi , pp. 244 e sgg.

22 Vedi G. MANN, Storia della Germania moderna, Sansoni, Firenze, 1964, p. 275.

23 Sul perché v. infra part. 3.

24 Vedi K. MARX, Storia delle teorie economiche, II, Einaudi, Torino, 1955, p. 631.

25 Vedi K. MARX, Il Capitale, I, Ed. Riuniti, Roma, 1964, p. 491. Vedi anche vol. III, p. 317 dove si dice che gli operai salariati crescono in cifra assoluta ma decrescono in senso relativo.

26 Vedi W. BEVERIDGE, La libertà solidale, Donzelli, Roma, 2010, alle pp. VII e sgg. una introduzione lucida ed informata di Michele Colucci.

27 Vedi G. KOLKO, Ricchezze e potere in America, Einaudi, Torino, 1964, p. 55. Per inciso qualche tempo fa RaiNews 24, una delle poche trasmissioni TV decenti, ricordò agli sprovveduti che non tantissimo tempo fa in USA la tassazione sui redditi più elevati arrivava al 90%.

28 Vedi A. PIETTRE, Le grandes problémes de l’économie contemporaine . Où va le capitalisme?, Cujas, Paris, 1976 pp. 63 e sgg.; per inciso si leggono con un sorriso le ultime pagine del volume sulla ricerca di una nuova moneta internazionale (pp. 297 e sgg.) o sulla necessità di una nuova giustizia fiscale (pp. 204 e sgg), dal lontano 1976 sono passati quasi quarant’anni e siamo fermi su questi punti nodali senza aver progredito di un centimetro.

29 Vedi A. FORNI, I fuorilegge del fisco, Ed. Riuniti, Roma, 1981, p. 78.

30 Ivi , p. 92.

31 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 5; ID. Capitalismo 2010 cit., par. 4; ID. Capitalismo 2011 cit., par. 4

32 Ibidem.

33 Ibidem.
34 Vedi su ciò E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, Contro la “questione meridionale”, Savelli,
Roma, 1975, 3ª ed. , pp. 157 e sgg.

35 Vedi A. CARLO, Il capitalismo impianificabile, pp. 82 sgg.; G. ARE, Radiografia di un partito,
Rizzoli, Milano, 1980, p. 90 ove tabella.

36 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 66 e 71.

37 Vedi H. MAGDOFF, Problemi del capitalismo americano , in “Critica marxista”, n. 1, 1966, pp.
13 e sgg., a p. 27.

38 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi della società industriale, Loffredo, Napoli, 1984, p. 110 testo
e nota 13.

39 I ricercati dell’ILO parlano di un settore “fuori mercato” che cioè non opera secondo una logica
capitalistico-mercantile, ciò, però non mi sembra del tutto esatto poiché la logica della politica
dell’assunzione della PA, pur essendo opposta a quelle delle imprese private, è funzionale e
complementare ad essa: siccome le imprese creano disoccupazione la PA, per sostenere il mercato
ed i consumi, opera assunzioni anche in fase di crisi, ciò che giova indirettamente anche le imprese
capitalistiche.

40 Vedi G. ARE, op.cit., pp. 297-98.

41 Vedi su ciò A. CARLO, Il leviatano cit., pp. 208 e sgg.

42 Vedi G. ARE, op. cit., p. 301.

43 Ovviamente c’è chi , come i leghisti impreca contro questo clientelismo assistenziale, il guaio è
però , che il sistema non produce più posti di lavoro e il disoccupato disperato può essere spinto ad
arruolarsi nella criminalità organizzata e questo potrebbe costare al sistema molto di più.

44 Vedi infra, par. 5.

45 Vedi su ciò G. TAMBURRANO, Storia e cronaca del centro sinistra, Feltrinelli , Milano , 1973, 3ª ed., pp. 42 sgg.

46 La scelta del PCI fu tanto più assurda perché in Sicilia quel partito condusse lotte molto dure contro la mafia, che contrastano con il moderatismo che PCI e CGIL manifestarono nel resto d’Italia. Tuttavia tale lotta era inficiata alla base dalla scissione tra mafia e capitalismo, assolutamente insostenibile poiché la criminalità organizzata economica è una componente normale e strutturale del capitalismo (su ciò vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 149 e sgg.); inoltre la scivolata tattica del PCI, che univa i suoi voti della destra monarco-fascista, non aiutava certo i sindacalisti che in quegli anni rischiarono la vita (50 morirono) nella lotta alla mafia stessa. Intendiamoci in politica ti puoi alleare con il diavolo, Lenin e Mao erano maestri in ciò, ma a patto che finisca arrosto il diavolo, se invece è il diavolo ad ingannarti allora la spregiudicatezza tattica si chiama imbecillità.

47 Vedi in tal senso G. GALLI, Il bipartitismo imperfetto, Il Mulino, Bologna, 1966 p. 217.

48 Vedi La politica economica italiana, 1945-75. Orientamenti e proposte dei comunisti, edito a cura della Sezione centrale scuole di partito del PCI, Roma, 1976, 2ª ed., p. 26, si tratta di un’antologia di 40 documenti di politica economica approvati dalla direzione del PCI nel periodo 1945-75 con in più alcuni articoli di Palmiro Togliatti che citeremo tra breve.

49 Ivi, pp. 10-11.

50 Ivi, p. 11.

51 Inoltre a p. 15 Togliatti esorta i sindacata a non essere solo organi conflittuali ma a porsi problemi relativi alla produzione. Si noti, però, che si tratta di una produzione capitalistica, sicchè Togliatti esorta a collaborare con il capitale per risolvere i problemi della produzione. Collaborazione di classe, dunque, normale in un partito socialdemocratico, strana per un partito che vorrebbe essere comunista.

52 Ivi, p. 59.

53 Vedi A. CARLO, Il leviatano cit., p. 194; per ulteriori critiche al piano del lavoro v. S. TURONE, Storia del sindacato in Italia 1943-80, Laterza, Roma-Bari, 1981, pp. 180 sgg.

54 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 99-160 ove tale politica è esposta; per una critica alla stessa v. E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, op. cit., p. 213 e sgg.

55 Vedi E. BERLINGUER, La questione morale, Aliberti, Roma-Reggio Emilia, 2012, p. 36; in senso analogo v. N. COLAJANNI, L’economia italiana tra ideologia e programmi, Laterza, Roma-Bari, 1983, p. 193. Tuttavia in materia si potrebbero fare decine di citazioni su questa posizione che nel PCI è univoca.

56 Vedi E. BERLINGUER, op. cit., pp. 37-38.

57 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 235 sgg. Quanto al fallimento delle politica antimonopolio è evidente dalla crescita gigantesca delle concentrazioni industriali e finanziarie dell’ultimo secolo su cui v. A. CARLO, La putrescenza del capitalismo contemporaneo cit., par. 11 dove analizzo la sfacciata e dilagante prepotenza delle IM.

58 Per una critica di questi progetti v. A. CARLO, Il capitalismo impianificabile cit. , pp. 38 e sgg.

59 Vedi in tal senso E. BERLINGUER, op. cit. , p. 73.

60 Su ciò v. A. CARLO, op. ult. cit., cap. II; c’è però un’eccezione (isolatissima) nel PCI rappresentata da L. BARCA in AA. VV. Il capitalismo italiano e l’economia internazionale, I, Ed. Riuniti , Roma, 1970, pp. 234-5, che insiste su un legame organico ed inscindibile tra profitto e rendita ma si tratta di una posizione del tutto isolata.

61 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 169 e segg. e 198 e sgg. ove i vari documenti sulla politica europea del PCI prodotti nell’arco di vari anni.

62 È questa la caratteristica del Pci che, periodicamente, esibisce grandi anime di combattenti che avevano donato la propria vita al partito (Terracini, Li Causi, Di Vittorio, Grieco, Vidali, Teresa Noce, Negarville, etc.) cui fa firmare iniziative di bassissimo livello e di cui sfrutta il prestigio enorme per una politica di piccolo cabotaggio elettoralistico.

63 Per un’analisi della genesi e della natura dello Statuto dei lavoratori e dei vari progetti che vennero presentati v. A. CARLO, Ricerche cit., pp. 217 e sgg, ove ripubblico un mio saggio del 1973 sull’origine dello Statuto dei lavoratori.

64 Vedi su ciò G. TREVISANI, Storia del movimento operaio italiano, II, Ed. del Gallo, Milano, 1965, pp. 292 e sgg.

65 Ivi II, p. 316.

66 Ivi, III, pp. 59 e sgg. e 78 e sgg..

67 V. retro nota 46.

68 Su ciò v. A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 201 e sgg. ove un saggio sulle grandi lotte che
caratterizzano il periodo 1968-1980 e sull’evoluzione, seguita poi da un’involuzione del sindacato.

69 Su ciò v. G. GALLI, Storia del partito comunista italiano, Schwarz, Milano, 1958, p. 239 dove
si rileva che questa spiegazione fu avanzata come alibi per giustificare il moderatismo del PCI.

70 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., pp. 214-15.

71 Vedi D. F. FLEMING , Storia della guerra fredda, Feltrinelli, Milano, 1964 , pp. 249 ed sgg.

72 Ivi, pp. 257 e sgg.; v. anche J. GUILLERMAZ, Storia del partito comunista cinese 1921-1949,
Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 387-401

73 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., pp. 218 e sgg.

74 Vedi retro testo e note 24 e 25.

75 Vedi su ciò A. CARLO, La società industriale cit., p. 158, testo e nota 58 ove citazione di Kautzky.

76 Per le posizioni di Togliatti v. P. TOGLIATTI, La politica di Salerno, Ed. Riuniti, Roma, 1969, pp. 15 e sgg.

77 Vedi il lavoro citato alla nota 75 ove dati sul censimento italiano del 1951.

78 Vedi La politica economica italiana cit., pp. 27 e segg. dove è riproposto il famoso discorso di Togliatti.

79 Vedi G. DI VITTORIO, in AA. VV., Lo stato operaio, II, Ed. Riuniti, Roma, 1964, pp. 221 e sgg., l’articolo è del 1934. Più in generale per quel che concerne le differenze di interessi tra operai e ceti medi nella società capitalistica sviluppata, v. A. CARLO, La società industriale cit., pp. 29 e sgg., la mia analisi del 1980 si riferiva alla situazione allora esistente ma già allora rilevavo come la crisi incipiente della società tardo-industriale, che produceva sempre meno occupazione e sempre più inflazione, tendesse a erodere i privilegi che la società capitalistica concedeva ai ceti medi, fenomeno questo che negli ultimi anni è diventato estremamente evidente.

80 Vedi su ciò G. BOCCA, Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 520.

81 Ivi, pp. 512 e sgg.

82 Vedi P. ALLUM, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino, 1975, pp. 195265; a livello più generale l’analisi di Antonio Baldassarre sui gruppi parlamentari del PCI dal dopoguerra agli anni ’70 ha evidenziato come in essi predominassero personaggi di chiara estrazione borghese mentre gli operai veri e propri fossero praticamente assenti, v. A. BALDASSARRE, in AA. VV., Il partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione, 1921-1970, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 445 e sgg.

83 Vedi C. DE PALMA, Sopravvivere senza governare, Il Mulino, Bologna, 1978; ho criticato le tesi di De Palma già nel 1981, v. A. CARLO, Il leviatano cit., p. 192 e sgg.

84 Su ciò vedi infra par. 6 e 7.

85 Su ciò v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., p. 268.

86 Vedi E. TODD, L’illusione economica, Tropea, Milano, 1999, p. 157.

87 Vedi A. CARLO, Il leviatano cit., p. 150.

88 Vedi su ciò G. CHIAROMONTE, Quattro anni difficili, Ed. Riuniti, Roma, 1984, p. 112, dove si rileva che la scala mobile copre solo i redditi fino a 500.000 lire mensili.

89 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 219.

90 Vedi A. CARLO, Ricerche cit., pp. 134-5 , testo e nota 87.

91 Vedi su ciò A. BULGARELLI, L. RICOLFI, Le tendenze del lavoro in Italia: meno lavoro,
meno lavoro stabile, più lavoro precario
, in “Monthly Review”, ed. it., n. 4, 1978, pp. 23 e sgg.; A. CARLO, Saggi di sociologia marxista, Cues, Salerno, 1979, pp. 52 e sgg.

92 Vedi C. GHINI , Il terremoto del 15 giugno, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 11.

93 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 220 e 217.

94 Su ciò vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 128 sgg.

95 In quegli anni venne pubblicata anche una ricerca del prof. J.P. MOCKERS, L’inflation en France, Cujas, Paris, 1975, in cui questo studioso di estrazione liberale faceva carico dell’inflazione alla politica dei monopoli e non alle lotte operaie, egli osservava che così facendo dava ragione ai marxisti, ma se i marxisti avevano ragione la colpa non era sua. A quel tempo in Italia chiunque sostenesse le lotte operaie non causavano inflazione era guardato come un evaso da un manicomio, o come un estremista il che era anche peggio. Tentai disperatamente di far pubblicare il libro in italiano ma non vi riuscii e dovetti limitarmi a recensirlo, v. A. CARLO, Saggi cit. , pp. 265 e sgg.

96 Vedi G. NAPOLITANO, “Non tirarsi indietro” ma spingere a scelte coraggiose , in “Rinascita” n. 30, 1978, p. 8; tesi analoghe vennero sostenute da Luciano Lama v. S. BEVILACQUA, G. TURANI, La svolta del ’78, Feltrinelli, Milano, 1978. Come si vede Napolitano (PCI) e Lama (CGIL) procedono di conserva con buona pace della tanto sbandierata autonomia sindacale. La CGIL, sindacato autonomo dal PCI, è però a maggioranza comunista e da sempre il segretario del sindacato è un uomo del PCI che dice autonomamente cose confluenti con la politica del PCI. La verità è che l’autonomia fu una strada tentata, dopo il 1968, sotto la spinta di lotte operaie veramente autonome, ad opera di alcuni sindacati dell’industria che da tali lotte erano investiti. Ma, alla fine degli anni ’70 le lotte della sinistra sindacale sono in ripiegamento ed il vecchio sindacalismo confederale, collaterale ai partiti e moderato, sta riprendendo il sopravvento

97 Ciò che ho ribadito più volte agli articoli citati alla nota 1 e che era evidente per me sin dalla fine degli anni ‘70.

98 Su ciò vedi A. CARLO, Saggi cit., pp. 64 e sgg.

99 Ivi, p. 74.

100 Ivi, p. 76.

101 Vedi La politica economica italiana cit., p. 269.

102 Vedi G. GALLI, L’Italia sotterranea. Storia, politica, scandali, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 210-11.

103 Il programma comune delle sinistre francesi fu pubblicato in Italia, ad iniziativa di un gruppo si
socialisti milanesi, vedi, Un documento da studiare: il programma comune delle sinistre in Francia, in “Rivoluzione socialista”, 30.4.1977, p. 22 e sgg. Il PCI si guardò bene dal farlo.

104 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., , pp. 209 e sgg.

105 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2.

106 In genere i difensori degli sciagurati anni dell’unità nazionale rilevano che almeno un risultato il PCI l’avrebbe ottenuto: salvare la democrazia, messa in pericolo dall’attacco delle brigate rosse e delle forze oscure che operavano alle loro spalle. Ora, che io sappia, gli unici casi di una democrazia liberale consolidata buttata giù e sostituita da una dittatura sono quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista, dove i becchini della democrazia liberale furono due movimenti reazionari di massa che avevano un largo consenso popolare (piaccia o no). Nel nostro caso non credo le BR potessero neanche lontanamente paragonarsi al fascismo e al nazismo e quanto alle forze reazionarie che eventualmente le manovravano è appena il caso di rilevare che il modo migliore per opporsi ad esse è la mobilitazione delle masse e non l’accettazione passiva del programma della peggiore destra economica che fu fatto proprio da PCI. Il PSI degli anni eroici (1892-1900) che operava in una situazione drammatica dove era normale l’eccidio operaio e l’uso dei cannoni contro gli scioperi nonché le leggi eccezionali, non reagì calandosi le braghe ma con la lotta popolare e vinse.

107 Su ciò vedi S. TURONE, op. cit.

108 Vedi R. STAFANELLI, Metà dei redditi non è dichiarato al fisco, ne “L’Unità”, 15.4.81, p. 7. Sono cose vecchie di trent’anni e più eppure quest’articolo sembra scritto oggi.

109 Vedi M. CACIAGLI, Democrazia cristiana e potere nel mezzogiorno, Guaraldi, Rimini-Firenze, 1977, pp. 297 sgg.

110 Vedi infra nel testo.

111 Vedi ad esempio la prefazione di Luca Telese al volume di Berlinguer già citato sulla “questione morale”.

112 Vedi E. BERLINGUER, op. cit., pp. 28-29.

113 Vedi G. GALLI, L’Italia sotterranea cit. p. 106; l’articolo de “L’Unità” a cui allude Galli è di R. STEFANELLI, Scandalose evasioni: ecco l’Italia cui bisogna chiedere dei sacrifici, ne “L’Unità”, 16.4.81, pp. 1 e 16.

114 Vedi G. BARBACETTO, P. GOMEZ, M. TRAVAGLIO, Mani pulite, Ed. Riuniti, Roma, 2002, p. 45; il libro in questione è letteralmente infarcito quasi a ogni pagina di notizie relative a uomini del PCI o di organismi collegati al PCI che sono implicati nelle vicende di “mani pulite”, risparmio perciò al lettore l’indicazione di qualche centinaio di pagine, perché di questo si tratterebbe.

115 Per una critica alle teorie funzionaliste di R. K. Merton e della sua scuola , v. A. CARLO, Studi
cit. , pp. 150 e sgg.

116 Vedi G. GALLI, op.ult. cit. , pp. 169 e sgg.

117 Vedi A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., p. 125 ove indicazioni.

118 Vedi A. NEVINS, H.S. COMMANGER, Storia degli Stati Uniti, Einaudi, Torino, 1960, pp. 278 e sgg; la situazione non è cambiata nel ‘900, durante gli anni di Kennedy, che la sinistra perbene idealizza (quelli come Veltroni per intenderci) la corruzione e gli intrecci con la criminalità organizzata erano cose normali e banali, su ciò vedi il documentatissimo libro di R. FAENZA, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978.

119 Vedi retro paragrafo 2.

120 Vedi M. WEBER, Economia e società, I, Comunità, Milano, 1968, 2ª ed. , p. 334.

121 Ibidem.

122 Vedi G. GALLI, op.ult.cit.

123 Su ciò vedi A. NEVINS, H.S. COMMANGER, Storia cit., p. 194.

124 Vedi su ciò H. M. ENZENSBERGER, Politica e gangsterismo, Savelli, Roma, 1979, pp. 119 e sgg.

125 Il PCI si scatenò contro i sostenitore del referendum del ’78 accusandoli di connivenza con i neo-fascisti, che semplicemente cavalcarono lo scontento popolare, che si esprimeva in una iniziativa che era un cavallo di battaglia dei radicali. Il malcontento popolare tuttavia, era un dato reale e larga parte dell’elettorato dei partiti al potere votò per un’iniziativa che riteneva giusta e che non molti anni dopo venne riproposta e passò con maggioranze bulgare e con il sostegno dello stesso PDS erede del PCI. Emerse in quel caso (referendum del ’78) l’abitudine del PCI di insultare chiunque mettesse in campo iniziative che lo ponevano in imbarazzo e che veniva accusato di essere di volta in volta strumentalizzato dai neofascisti, provocatore, fiancheggiatore delle BR e così via insultando; abitudine vergognosa e disgustosa che non ha salvato il PCI da una fine ingloriosa quanto meritata.

126 Un fiore che è stato citato e riproposto varie volte ad esempio da Sabina Guzzanti in “Viva Zapatero”. Come si vede rasentiamo quasi la dichiarazione d’amore nei confronti di Berlusconi, il che ci dà la misura di quanto sia pezzente la nostra sinistra o presunta tale.

127 Peraltro dai diari di Ciampi, che egli ha ceduto ad un giornalista perché li commentasse e li illustrasse, risulta che nel periodo 2001-2006 vi furono notevoli conflitti con Berlusconi, che interferiva moltissimo nel campo della politica estera tentando di esautorare il ministro Ruggiero, arrivato lì con la benedizione di Gianni Agnelli e di Kissinger; come è noto la cosa finì con le dimissioni di Ruggiero che venne sostituito con un lungo interim dallo stesso Berlusconi che si appiattì sulle posizioni di politica estera del suo caro amico G.W. Bush, v. U. GENTILONI SILVERI, Contro scettici e disfattisti, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 160 e sgg. Non sembra proprio che B. fosse così a corto di poteri come si lamenta.

128 Si ricordi che all’inizio degli anni ’80 alcuni pretori “indisponenti” oscurarono le televisioni del nostro, ma Craxi, allora presidente del Consiglio, intervenne con un D.L. che regolarizzò la posizione di Berlusconi, risolvendogli il problema.

129 Vedi E. SCALAFARI, Un incubo di meno, in “La Repubblica”, 31.3.2013, pp. 1 e 27, a p. 27.

130 Su ciò vedi A. CARLO, Capitalismo 2010, par. 4, lett. C).

131 Vedi N. PENELOPE¸ Soldi rubati. Salani, Milano, 2011.

132 Vedi S. FASSINA, Il lavoro prima di tutto, Donzelli, Roma, 2012, p. 18

133 Vedi infra, par. 8.

134 S. FASSINA, op. cit., p. 48.

135 Vedi S. CESARATTO, L’agenda che non c’è, note sul programma economico del centrosinistra , in “MicroMega”, n. 2, 2013, pp. 117 e sgg.

136 Vedi A. CARLO , Capitalismo 2011 cit., par. 4.

137 Su ciò v. A. CARLO, La putrescenza cit., par. 6.

138 Su ciò v. idibem.

139 Su ciò v. M. PASSARELLA, L’agenda Monti ai raggi X, in “MicroMega”, n. 2, 2013, pp. 128
e sgg.

140 Vedi V. GIACCHE’, Grillonomics, ivi, pp. 107 e sgg.

141 Nell’ormai lontanissimo 1976 una rivista (“La biblioteca della libertà”) pubblicò un numero monografico sui programmi dei partiti per le drammatiche elezioni del 1976 e dette al numero il titolo “le scatole vuote”. Anche “MicroMega” nella sua puntuale rassegna sui programmi dei partiti per le elezioni del 2013, avrebbe potuto usare lo stesso titolo.

142 Fonte Dipartimento del Commercio Americano ed Eurostat.

143 Vedi infra nel testo.

144 Le fonti ovviamente sono l’OCSE e FMI. Si noti che a inizio settembre FMI ha diramato le sue previsioni per il 2013-2014. Nel 2013 dovremmo crescere a livello mondiale del 2,9%, contro una crescita superiore al 5% del 2010. Per il 2014 si prevede una lieve accelerazione senza escludere la possibilità di stime al ribasso che sembrano quanto mai probabili.

145 Sugli USA v. F. RAMPINI, E’ tornata l’America del lavoro, Wall Street record trascina le borse, in “La Repubblica”, 4-5-13, p. 15. Come spesso accade il contenuto dell’articolo è assai meno trionfalistico del titolo. Quanto all’Italia nel corso del 2013 la situazione è ulteriormente peggiorata: luglio 2013 disoccupazione 12% , tasso di attività 55,8% (ISTAT).

146 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 3 dove cito i dati del Nobel Krugman.

147 Vedi retro par. 2.

148 Vedi L. GALLINO, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel , in “La Repubblica”, 22.8.13 , p. 2.

149 Vedi V. da ROLD, Ocse: PIL italiano a -1,8% nel 2013, ne “Il Sole 24 ore”, 4.9.13, p. 4.

150 Vedi infra nel testo.

151 Vedi infra nel testo.

152 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 2, lett. F).

153 Vedi K. MARX, Discorso sulla questione del libero scambio, in appendice a K. MARX, Miseria della filosofia, Samonà e Savelli, Roma, 1968, pp. 243 e sgg.

154 Vedi retro testo e nota 2.

155 Vedi E. OCCORSIO, “Non facciamoci troppe illusioni. L’Europa è ferma e i Bric frenano”, in
“La Repubblica”, 1.8.13, p. 10, ove intervista al prof. Roubini.

156 Alludo al fatto ben noto che le imprese (ma ciò accade anche alle famiglie) a causa del ristagno
della domanda non rinnovano le scorte se non quando gli scaffali sono vuoti, si ha allora una
ripresa degli acquisti del tutto momentanea e congiunturale che si affloscia subito dopo.

157 L’anno scorso il Centro studi della Confindustria pubblicò una ricerca che valutava il tasso di
inutilizzo degli impianti nell’Eurozona equivalente ad una perdita del 2,6% del PIL, ovviamente
tale perdita non è considerata nelle ormai criticatissime stime del PIL stesso.

158 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo, in www.crisieconflitti.it , 2005,
par. 2.

159 Il prof. Krugman osserva che per tornare ai livelli pre-crisi occorrerebbe un incremento di 300.000 posti al mese, per cui conclude amaramente: “La piena ripresa appare tuttora molto di là da venire. E, per quanto mi riguarda, torno a temere che possa non venire. Vedi P. KRUGMAN, Lo stimolo della ripresa, in “La Repubblica” , 11.7.13, p. 27.

160 Vedi su ciò Disoccupazione USA al 7,4% minimo da 4 anni, in “La Repubblica”, 3.8.13, p. 23, articolo anonimo. La vastità del fenomeno della disoccupazione (reale o ufficiale) e della sottoccupazione spiega perché dal 2007 sia esploso il fenomeno dei buono pasto pari a 4,45 dollari a persona e al giorno, che sono coperti dal governo USA per sfamare chi non ha nulla: il loro numero passa da 26 milioni a 48 milioni di assistiti dal 2007 all’estate 2013 (v. P. KRUGMAN, Gli americani liberi ma di morire di fame, in “La Repubblica”, 24.9.13, p. 39). Si noti che in India il governo ha varato un piano di assistenza alimentare per 800 milioni di persone (il 67% della popolazione) con un costo di 20 miliardi di dollari (v. R. BULTRINI, Il giovane guru della finanza al capezzale della rupia in crisi, ivi, 5.9.13, p. 31), epperò l’India è un paese con un PIL procapite tra i 1000 e i 2000 dollari contro i 50.000 degli USA , paese che raccoglie tra 1/5 e 1/4 del PIL mondiale, col 5% circa della popolazione. Ciò posto il 15% della popolazione USA assistita (48 milioni sono tanto) fa più impressione del 67% degli assistiti indiani, e l’India sarebbe per alcuni il nuovo colosso economico.

161 Vi ho accennato varie volte negli articoli citati alla nota 1, qui mi limiterò a ricordare che qualche anno fa fu abbandonato il progetto faraonico ed odioso di una “cortina di ferro” al confine tra USA e Messico con lo scopo di bloccare l’immigrazione clandestina. La “nuova grande muraglia” si fermò verso l’ottantesimo miglio, non c’era più un dollaro.

162 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Sanità, voli, parchi, difesa, gli USA sono a rischio paralisi, in “La Repubblica”, 25.2.13, p. 13, la manovra consiste in 85 miliardi di dollari di tagli che colpiranno gli stipendi di 800.000 dipendenti del Pentagono fino alle spese per i parchi nazionali e per i controlli igienici sulla carne.

163 Mentre concludo questo articolo la situazione della finanza pubblica americana si è drammatizzata; il 30 settembre 2013 non si è raggiunto l’accordo per il bilancio federale ed è stato necessario ricorrere allo shutdown cioè al taglio di tutte le spese pubbliche considerate inessenziali, pertanto 800.000 dipendenti civili federali corrono il rischio di rimanere a casa senza stipendio, chiusi i musei, i parchi e sinanche la statua della libertà, mentre l’Istituto Nazionale Americano per la Salute ha dovuto sospendere le cure oncologiche sperimentali per 30 bambini e 200 adulti , cosa che potrebbe significare per loro una condanna a morte. Si badi che non siamo ancora al default che si avrà di qui a un paio di settimane se non si raggiungerà un accordo con i repubblicani moderati del congresso al fine di alzare il tetto del debito federale.

164 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2009, par. 3, lett. E)

165 Vedi M. LONGO, Buffet “la Fed è un’enorme hedge fund”, ne “Il Sole 24 ore”, 21.9.13, p. 8.

166 Vedi lavoro citato alla nota 164.

167 Vedi Televideo Rai, 4.4.13, p. 827.

168 Ivi, 21.5.13, p. 135; per una tabella riassuntiva dell’evasione fiscale in Europa e nel mondo vedi F. RAMPINI, G8 oggi il vertice sul lavoro e Siria, spiati i leader, in “La Repubblica” 17.6.13, p. 3 ove pubblicati i dati del Tax Justice Network cui abbiamo accennato pocanzi.

169 Dati come questi non meravigliano più, negli ultimi 40-45 anni ne ho trovati di simili a iosa e sempre in crescita, si noti poi che questi colossi realizzano qualcosa come 1/6 del PIL mondiale con 32 milioni di addetti e cioè lo 0,1-0,2% della occupazione mondiale.

170 Vedi P. ROMANO, Europa, la Tobin tax verso il rinvio, ne “Il Sole 24 ore”, 26.6.13, p. 25; W. RIOLFI, Una tassa fallita prima di nascere, ibidem.

171 E’ sintomatico che il programma per l’occupazione giovanile preveda 3 miliardi da spendere entro il 2015 per tutti i paesi della UE, un miliardo e mezzo l’anno che diviso tra i componenti dell’unione è una cifra irrisoria.

172 L’unico organo di informazione che ha pubblicato la tabella che segue all’inizio del 2013 è “Il Sole 24 ore”, giornale della nostra Confindustria, che a volte è assai meno perbenista e conformista di altri giornali che si vorrebbero espressione della borghesia illuminata e che hanno taciuto su questo punto.

173 Su ciò vedi retro par. 5.

174 Vedi E. OCCORSIO, “Basta con i sacrifici, si allenti il rigore, la UE dia più tempo a tutti i paesi”, ne “La Repubblica”, 25.4.13, p. 12, ove intervista a Padoan. C’è da chiedersi perché tanti governi perseguano una politica così palesemente ottusa, e la risposta è facile: non sanno che altro fare e continuano a praticare una politica di galleggiamento senza prospettive , anche perché è più facile prendersela con lavoratori e pensionati piuttosto che con le IM.

175 Fonte FMI e OCSE.

176 Vedi G. VISETTI, Dal PIL in frenata alle banche ombra, a Pechino il tramonto dell’età dell’oro”, in “La Repubblica”, 26.6.13, p. 20.

177 Qualche mese fa in una intervista a RaiNews 24 il prof. D. Salvatore osservò che una crescita dell’1% in Germania o in USA equivaleva ad un 5-6% cinese.

178 Vedi M. WOLF, Per Pechino una strada accidentata, ne “Il Sole 24 ore” , 3.4.13, p. 11.

179 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1.

180 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2011 cit., par. 5.

181 Vedi i miei articoli pubblicati negli ultimi anni e citati alla nota 1.

182 Vedi F. RAMPINI, Ora tremano India e Brasile, capitali in fuga, in “La Repubblica”, 21.8.13, p. 23.

183 Vedi il lavoro citato alla nota 180 dove riporto i dati del prof. Roubini.

184 Vedi P. D’EMILIA, Non dubitate dell’Abenomics, ne “L’Espresso”, 4.6.13, pp. 106 e sgg, dove
intervista al prof. J. Sachs

185 E’ il limite di tutte le politiche fondate sul binomio esportazione-svalutazione, finchè il mercato
internazionale tira possono funzionare ma se il mercato ristagna i nodi vengono al pettine.

186 Vedi P. D’EMILIA, op.cit., p. 107.

187 Ivi, p. 108.
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3116-antonio-carlo-capitalismo-2013.html 

venerdì 3 gennaio 2014

riportare la comunità all’interno della storia universale, della filosofia della storia, della critica radicale e senza compromessi al capitalismo ed all’imperialismo

Il modo di produzione comunitario- Il problema del comunismo rimesso sui piedi
di Costanzo Preve

estratto

12. Il modo di produzione comunitario oggi nell’epoca della dittatura totalitaria della globalizzazione capitalistica neoliberale

Il comunismo è quindi stato storicamente del tutto legittimo, perché le classi dominate hanno una sorta di diritto naturale e storico assoluto nel loro progetto di abbattimento dello sfruttamento da parte delle classi dominanti. Certo, esse dovrebbero intraprendere un autonomo processo di “purificazione” dei sentimenti regressivi di odio, invidia e vendetta maturati in millenni di oppressione, ma questo non può avvenire soltanto sulla base di invocazioni pecoresche alla bontà universale, ma può svilupparsi soltanto in un processo di apprendimento progressivo a base filosofica e razionale. Così come sono, l’invidia e la gelosia sono sentimenti regressivi. Bastano per i primi saccheggi ed i primi massacri di oligarchi, ma non possono fare da base stabile per una ricostruzione sociale comunitaria. Questo assomiglia al diritto di saccheggio nel mondo feudale. Ventiquattro ore, al massimo quarantotto ore, poi bisogna cominciare a decapitare i saccheggiatori. Ma per poterlo fare ci vuole uno stato politico, non basta l’armonia prestabilita assembleare, il feticcio di tutti i residui anarco-marxisti.

Rimettere il comunismo sui piedi significa sempre e comunque rimetterlo sui suoi piedi comunitari. Se in futuro la distruzione delle oligarchie mercantili che oggi dominano il pianeta, la classe dominante più abbietta dell’intera storia dell’umanità (e sono perfettamente consapevole della apparente “enormità” estremistica che sto dicendo), darà luogo ad un modo di produzione alternativo migliore, non si tratterà certo di un generico “comunismo” (che c’è già stato, ed ha fallito), ma di un nuovo modo di produzione comunitario edificato consapevolmente su basi nuove, che si tratta di esplicitare con chiarezza.

Così come ce lo ha consegnato la tradizione teorica e storica, il “comunismo” significa soprattutto due cose. In primo luogo, sul piano teorico, si tratta di un anarchismo sociale, liberato dalla famiglia, dalla società civile, dalla religione e dallo stato nazionale, che sulla base di un enorme sviluppo delle forze produttive e della produttività industriale (la fine marcusiana della vecchia “utopia”) realizza il principio per cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i propri bisogni. In secondo luogo, sul piano storico-politico, si tratta di un grande esperimento di ingegneria sociale a base “scientifica”, protetto da una cupola geodesica che lo isola dalle influenze capitalistiche, che supplisce alla evidente e pittoresca incapacità strategica diretta delle classi dominate con la concentrazione monopolistica del potere economico, politico ed ideologico-culturale in una “cupola” di amministratori monopolistici della riproduzione sociale, teleologicamente orientata ad una fantomatica (e palesemente impossibile) finalità utopica comunista.

Mi sembra evidente che la seconda concezione non deriva dalla prima se non nei suoi aspetti “dichiarativi”, teleologico-utopistici. Ma qui non si tratta di fare l’ennesima discussione marxologica, quanto di capire che entrambe le varianti, la teorica-filosofica e la pratica-politica, hanno fallito, e non conviene riproporle. In breve, diciamo che l’errore di entrambe le varianti è unico, e si trova nel comune (e patologico) nesso di individualismo e di utopismo. Togliamo al modello di comunismo l’impasto di individualismo e utopismo, rinveniamone le radici profonde, estirpiamo queste radici, e potremmo finalmente parlare di modo di produzione comunitario.

Il codice culturale del comunismo storico-politico che abbiamo conosciuto nel novecento (e che fortunatamente sopravvive ancora oggi in alcuni benemeriti stati) è stato un collettivismo a base individualistica. Questa formulazione, provocatoriamente incomprensibile a coloro che non sono stati educati filosoficamente al pensiero dialettico, è parimenti incomprensibile per i confusionari bene intenzionati che confondono la comunità con il collettivismo. Eppure il modello del collettivismo individualistico è stato formulato in modo chiarissimo da Rousseau (democrazia diretta, volontà generale, passeggiata dell’individuo solitario, abbandono dei figli alla ruota dei conventi, eccetera), e vale la pena di osservare che l’individualismo rigoroso è il solo minimo comun denominatore di Rousseau con il restante pensiero illuministico. Rousseau non condivide quasi nulla del modello illuministico (in particolare, non condivide l’ideologia del progresso), ma su di un punto è perfettamente “allineato” con gli altri illuministi, e cioè sull’individualismo più estremo. Il nuovo contratto sociale russoviano, che dovrebbe sostituire il vecchio contratto sociale iniquo e disegualitario, viene stipulato fra individui isolati già svincolati dalle precedenti comunità. Rousseau e Smith, per il resto apparentemente su sponde opposte, hanno in comune il culto di Robinson Crusoè come monade lavorativa originaria isolata. Il comunismo storico novecentesco eredita da Rousseau l’idea per cui la collettività antiborghese è composta da individui “di sinistra” svincolati da qualunque appartenenza comunitaria precedente, familiare, professionale, statuale, nazionale, linguistica, religiosa, eccetera. Un incubo ultraindividualistico scambiato per solidarismo comunitario, sulla base della distruzione delle comunità precedenti, ritenute reazionarie e conservatrici.

Hegel aveva già a suo tempo capito perfettamente che cosa non andava nella concezione illuministica dell’individuo, assolutamente identica nella versione di “destra” (Voltaire) e di “sinistra” (Rousseau). L’ho già detto, e non ci ritorno sopra per brevità. Allievo di Hegel, anche Marx avrebbe dovuto capirlo, ma il suo nominalismo gli rende assai difficile farlo, perché il nominalismo è sempre e soltanto una rivendicazione di individualismo, anche quando la sua funzione sociale è positiva (pauperismo francescano di Occam,eccetera). Inoltre, a fianco del suo essere comunista, Marx è talvolta sciaguratamente di “sinistra”, nel senso che è interno alla critica artistico-culturale (Boltanski) all’ipocrisia borghese, critica vista come premessa culturale indispensabile alla critica economico-sociale del modo di produzione capitalistico.

Ma così non è. O meglio, così è soltanto per un limitato periodo della storia del capitalismo. In realtà, l’individualismo di sinistra, nutrito dello smascheramento avanguardistico dei costumi sessuali ipocriti della famiglia borghese, è un alleato tattico e nello stesso tempo un avversario strategico del solidarismo comunitario. In questo modo tragicomico, il comunismo non viene pensato come modo di produzione comunitario, privo di dominio oligarchico privatistico ma pur sempre caratterizzato da una piccola e media produzione mercantile, dalla permanenza della famiglia, della società civile, dello stato, della religione (per chi la vuole, ovviamente), dell’identità nazionale, eccetera, ma viene pensato come una sorta di anarchismo sociale anomico, di tipo futuristico-prometeico. Il mondo orribile dell’anarcoide Toni Negri al posto del mondo immensamente più sensato del benemerito musulmano Ahmadinejad.

Mi rendo perfettamente conto che individuare nella cultura dissolutiva dell’anarchismo individualistico della odierna “sinistra” un alleato strategico delle oligarchie capitalistiche liberali apparirà a prima vista talmente straniante da essere incomprensibile anche ai meglio intenzionati. Eppure è la verità, per di più espressa in forma moderata. E tuttavia, è necessario indagare, a fianco dell’anomia individualistica superficialmente collettivizzata, l’elemento utopico.

L’utopia è la religione del collettivismo individualistico. In quanto religione, essa ne rappresenta anche l’alienazione nel senso proprio delle filosofie di Feuerbach e del giovane Marx. Il collettivismo individualistico è talmente impregnato di distruttività nei confronti di qualunque elemento solidaristico e comunitario precedente (la famiglia, la professionalità, lo stato nazionale, la religione comunitaria, eccetera), da essere mosso da una vera e propria distruttiva “furia del dileguare” (l’espressione è di Hegel nella sua critica a Rousseau) nei confronti di tutto ciò che resiste al suo cannibalismo (sia eterofagico che soprattutto autofagico). Tutto deve essere distrutto, perché si possa finalmente arrivare, magari accelerando la storia (Koselleck) al punto finale utopico di essa. Esso non esiste, ma non fa nulla. Anche il Dio dell’inquisitore Torquemada non esisteva, ma ciononostante esigeva continui sacrifici umani. E questa, appunto, è la funzione della teoria utopico-teleologica. 

In proposito, i numerosi confusionari che hanno affollato la storia del marxismo, hanno spesso contrapposto il lato utopico del marxismo al lato meccanicistico e deterministico. Sciocchi e base teorica nel teleologismo prefissato della storia. Bisogna rompere con ogni forma di utopismo teleologico, oppure non sarà possibile arrivare a concepire un sobrio e praticabile modo di produzione comunitario. 

Bisogna quindi rendersi conto fino in fondo che l’utopismo non è il punto terminale di un delirio religioso, ma è il punto terminale di un delirio positivistico a base individualistica. Per questa ragione, sono costretto a malincuore a ritornare su di un punto già ampiamente discusso, ma temo (e parlo per lunga esperienza pregressa) poco assimilato. In breve, l’utopismo che sta alla base del collettivismo individualistico, tallone d’Achille del comunismo storico recentemente defunto (senza che questo implichi la madre di tutti gli incubi, la fine capitalistica della storia), non deriva assolutamente da un fondamento religioso, e cioè la famosa secolarizzazione della escatologia messianica giudaico-cristiana, ma deriva in modo pressoché esclusivo da una utopia positivistica, la fine della storia attraverso la perfetta amministrazione scientifica e tecnica dei rapporti sociali ridotti a “cose”. Paolo di Tarso non c’entra niente. Centra, semmai, l’eredità illuministica di Saint-Simon. Non c’entra il messianesimo. C’entra la reificazione.

Una volta assodato questo punto, che peraltro è un sottoprodotto concettuale del riorientamento gestaltico dal futurismo prometeico dell’impossibile società interamente trasparente a se stessa alla ricollocazione del comunitarismo nella storia generale dell’umanità, si sono poste le basi filosofiche per pensare il modo di produzione comunitario. Ed il discorso non solo finisce, ma inizia. Inizia, però, con il piede giusto e con una mappa aggiornata dei possibili percorsi. 

Anziché seguire il metodo platonico della costruzione dello stato comunista utopico ideale seguiamo il metodo aristotelico della classificazione delle “costituzioni” politiche oggi (2009) esistenti al mondo. Il totalitarismo capitalistico neoliberale, incondizionatamente il nemico principale (altro che populismo, fascismo, integralismo, fondamentalismo, eccetera, come urlano i gruppi universitari al servizio delle oligarchie!), è un edificio solidamente costruito con criteri antisismici (i muri di burro sono riservati alla plebe lamentosa che auspica il governo dei giudici, la peggiore forma di governo dai tempi di Attila re degli Unni). Essendo un edificio solidamente costruito con criteri antisismici, la recente crisi esplosa nell’agosto 2008 lo ha soltanto purtroppo sfiorato. Gli eserciti delle oligarchie finanziarie sono ancora tutti intatti (ceto politico, circo mediatico, clero universitario,apparati polizieschi e militari, Nato mondiale, eccetera). E quindi, nessuno stupido ottimismo “crollista”.

In posizione assolutamente marginale di fronte a questo sistema oligarchico di nemici dell’umanità esistono alcune formazioni statali e politiche, in parte residuali. Ci sono ancora due stati a pianificazione statale integrale dell’economia (le benemerite Cuba e Corea del Nord). Ci sono due stati autoritario-confuciani di comunismo capitalistico ad economia mista (Cina e Vietnam). Ci sono meravigliosi esempi di regimi popolari ad economia mista (il benemerito Chavez e l’ancora più benemerito Ahmadinejad, che Allah lo conservi a lungo). Ci sono ancora tribù comuniste residuali in Portogallo e Grecia, che possano resistere ancora a lungo. In Francia il comunismo resiste ancora, sia pure impotente, perché alleato con i residui del gaullismo di sovranità nazionale, all’interno di una Sarkolandia che mi ricorda il secondo impero di Napoleone III. L’Italia è un caso particolare ed insuperabile (un vero e proprio caso di scuola) di degenerazione assoluta, in cui la cosiddetta “sinistra” è ormai un gruppo impazzito di veri e propri nemici del popolo realmente esistente, in quanto costoro hanno sciolto il popolo veramente esistente e ne hanno nominato un altro composto da culto dei migranti, gay prides, golpismo moralistico, religione olocaustica, dovrebbe accompagnarlo) è che non avrebbe senso cercare di “accreditarsi” presso queste compagini dissolutive. La loro dissoluzione, allo stato attuale delle cose, non può essere arrestata.

Il modo di produzione comunitario, in poche parole, è la forma naturale della convivenza umana. Questo non elimina assolutamente la storicità, perché la storicità è la forma temporale in cui si manifesta la specificità ontologica dell’uomo come animale specifico. La comunità umana, infatti, a differenza delle forme comunitarie trasmesse geneticamente (animali sociali, ecc...), ha una storia che ne modifica radicalmente le forme culturali, economiche e politiche. Naturalità e storicità sono dimensioni complementari, che soltanto lo storicismo e il naturalismo mettono in contrapposizione. Il modo di produzione comunitario, oggi, è semplicemente il comunismo spogliato della sua inapplicabile ed insopportabile forma utopica. A differenza di come oggi sostiene la comunità universitaria dei filosofi liberali e postmoderni, la verità non comporta assolutamente l’autoritarismo ed il totalitarismo di chi vuole applicarla ad ogni costo. È la falsità storica ed ontologica che comporta necessariamente la violenza per poter essere applicata. L’utopismo è una inapplicabile menzogna positivistica, e non può essere applicato senza la violenza. Detto questo, non è possibile eliminare dalla storia la violenza degli sfruttati contro gli sfruttatori, e dei dominati contro i dominanti. Questa violenza resta legittima, ma questo non giustifica l’arbitrio terroristico di pochi che non interpretano la volontà dei molti. Lo stupido pacifismo diffusosi negli ultimi trent’anni nelle culture estenuate dell’Europa asservita all’impero USA ha contribuito a far dimenticare questa ovvietà, che deve essere invece ribadita con forza. Sarebbe bello che bastasse il convincimento amicale. Ma se il dominante non è convinto dal convincimento amicale, è necessario passare a metodi più “convincenti”.

Sarebbe assurdo in questa sede passare alla descrizione dei particolari culturali, sociali, economici, politici e sociologici su come potrebbe concretamente configurarsi oggi un modo di produzione comunitario all’altezza dei nostri tempi. Questo risulterà da processi storici reali e non può essere prefigurato da anticipazioni benevole, inevitabilmente retoriche e predicatorie. Ciò che invece bisogna ripetere è che se il comunitarismo continua a limitarsi ad invocare comportamenti solidali alternativi e generiche “attenzioni all’Altro” la sua sconfitta è certa. Non può che essere riassorbito nelle lagne caritative degli apparati religiosi oppure nelle dotte dissertazioni delle scuole universitarie. Quale proprietario egoista ammalato e fallito economicamente non diventa improvvisamente “comunitario”? Si tratta invece di riportare la comunità all’interno della storia universale, della filosofia della storia, della critica radicale e senza compromessi al capitalismo ed all’imperialismo ed alla teoria dei modi di produzione. Qui sta il problema. Il resto è soltanto un coro di belati pecoreschi di anime belle.

Torino, giugno 2009

http://www.comunismoecomunita.org/wp-content/uploads/2009/04/Il-nemico-principale.pdf