L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

mercoledì 31 dicembre 2014

l'Australia favorisce la mattanza del popolo palestinese


Onu, ecco chi ha evitato la mattana risoluzione contro Israele

31 - 12 - 2014Rossana Miranda
Onu, ecco chi ha evitato la mattana risoluzione contro Israele
Fatti, ricostruzione e commenti
La Palestina dovrà attendere. Dopo il riconoscimento dello Stato palestinese da parte della Spagna, Francia e Inghilterra, alcuni Stati arabi hanno cercato un blitz anti Israele all’Onu. Ma il tentativo è fallito. Infatti il progetto di risoluzione presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 17 dicembre è stato bocciato ieri. Il testo che chiedeva il ritiro di Israele dai territori palestinesi entro la fine del 2017 ha ottenuto otto voti a favore, due contro e cinque astensioni. Per essere approvato aveva bisogno di almeno nove voti positivi e nessuna opposizione da parte dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, con diritto al veto.
POSIZIONI DIVISE
Gli otto Paesi che hanno dato il via libera alla risoluzione presentata dalla Giordania e sostenuta dal gruppo arabo all’Onu sono, oltre la Giordania, Argentina, Chad, Cile, Cina, Francia, Lussemburgo e Russia. Si sono opposti, invece, Stati Uniti e Australia, mentre il Regno Unito, Lituania, Nigeria, Corea e Ruanda hanno preferito non pronunciarsi.
RESISTENZA AMERICANA
Ma anche se la proposta avesse ottenuto soltanto un voto in più, non sarebbe stata approvata lo stesso perché conta l’opposizione di Stati Uniti, che ha diritto al veto nel Consiglio di sicurezza. Con questa sono 41 le risoluzioni su Israele bloccate dagli Stati Uniti dal 1972. L’ultima è stata nel 2011.
LA POSIZIONI DEGLI USA
Il progetto di risoluzione proponeva un calendario di trattative e una serie di condizioni imposte dal Consiglio di sicurezza dell’Onu che sarebbero state determinanti per il ritiro dei territori occupati e la fine del conflitto tra Israele e Palestina. L’ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu, Samantha Power, ha lamentato che la bozza sia arrivata al Consiglio senza essere stata preventivamente discussa tra i membri. Power ha detto che la proposta “è contro i tentativi di trovare una negoziazione per la pace tra palestinesi e israeliani attraverso un dialogo diretto”. Secondo il rappresentante americano, la proposta raccoglie “solo le preoccupazioni di una delle parti e trascura le legittime preoccupazioni di sicurezza di Israele”. E per questo, anche questa volta, gli Stati Uniti si sono opposti.
CRITICHE DALLA PALESTINA
L’ambasciatore della Palestina all’Onu, Riyad Mansur, ha lamentato che il Consiglio di sicurezza sia “incapace” di assumere le sue responsabilità e continui a restare “paralizzato” di fronte alle richieste internazionali di pace in Medio oriente. Per il rappresentante palestinese con questa decisione la situazione resta “insostenibile e precaria per chi vive nella zona e i leader palestinesi devono analizzare i passi successivi”.
BUONE INTENZIONI
E mentre il rappresentante dell’Australia, Gary Quinlan, ha detto che il suo Paese è a favore delle trattative dirette tra Palestina e Israele, e che questa bozza non garantiva questo processo e per questo il suo Paese si è opposto, l’ambasciatore della Francia, François Delattre, ha spiegato il voto positivo dicendo che è necessario provare tutte le possibilità. Avremmo preferito un consenso generale. C’è bisogno di agire con urgenza”. Ma nonostante le intenzioni, il dialogo per la pace in Medio Oriente dovrà ancora attendere.

http://www.formiche.net/2014/12/31/onu-israele-palestina-usa/

Piano Kalergi?!?!


L’ONU predispone il piano per il “ripopolamento” dell’Italia

17 nov 2014

Pubblicato inOpinioni ed analisi


L’ONU predispone il piano per il “ripopolamento” dell’Italia

di Luciano Lago

E’ stato pubblicato il recente piano dell’ONU che si presenta come un apparente studio: «Replacement Migration: is it a solution to declining and ageing populations?».

Redatto dal Dipartimento degli Affari sociali ed economici dell’Onu, in questo studio vengono analizzati i movimenti migratori a partire dal 1995 e, attraverso modelli matematici, vengono prospettati diversi scenari che prevedono per l’Italia la “necessità” di far entrare tra i 35.088.000 e i 119.684.000 immigrati, principalmente dall’Africa, per “rimpiazzare” i lavoratori italiani. Visto che tra 36 anni gli over 65 saranno il 35% della popolazione e presupposto che il tasso di natalità per donna resti fermo a 1,2 bambini (negli Anni Cinquanta la media era 2,3).

Le Nazioni Unite prospettano come soluzione al problema demografico dell’Italia (e di altri paesi europei) quello di «rimpiazzare» (come riportato nel titolo del dossier) l’Europa che invecchia con un massiccio afflusso di immigrati dall’Africa e dall’Asia. Lo studio prende in considerazione gli immigrati, quasi sempre giovani, che dopo lo sbarco molto probabilmente si stabiliranno in Italia, dal nord al sud della penisola. Questi dovranno convivere la popolazione autoctona, saranno molto più prolifici degli italiani. Di conseguenza in un arco medio di tempo, l’Italia degli italiani si trasformerà in un «melting pot», un’insieme di razze, culture, religioni dove tra quarant’anni ci sarà ancora un nucleo di italiani che non saranno più la maggioranza della popolazione.

Lo studio dell’ONU calcola circa ventiseimilioni di immigrati e i loro discendenti che risiederanno nelle varie città italiane nel 2050. Attualmente sono quasi 5 milioni, contro i 7,8 presenti in Germania.

Potrebbe sembrare assurdo e poco razionale un piano che prospetti di incrementare a tal punto una popolazione in un territorio già super popolato e problematico come quello italiano. Considerando poi che in Italia esiste una disoccupazione giovanile che equivale al 43% non si capisce su quali basi si possa proporre un aumento di masse di immigrati che apporterebbero una completa destabilizzazione degli equilibri sociali già compromessi, a meno che non si voglia disporre di una massa di mano d’opera da sfruttamento per le nuove imprese transnazionali che si installeranno nel paese. Dai soloni dell’ONU, che non hanno mai risolto una sola situazione internazionale, ci si può aspettare di tutto e di più.

Questo dell’ONU in realtà non è soltanto uno studio teorico ma un preciso piano elaborato da uno dei massimi organismi della strategia mondialista, quale è l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Un piano che prevede la distruzione degli Stati nazionali, l’omologazione di tutte i paesi, di ogni cultura, nella creazione di un unico grande mercato globale, dominato dall’elite finanziaria, nel progetto globale di quello che sarà un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) obiettivo finale di tutti gli strateghi del mondialismo.

Di fatto questo piano dell’ONU rientra perfettamente nel vecchio piano Kallergi che pochi conoscono ma che è alla base del progetto originario dell’Unione Europea. Non a caso il progetto viene appoggiato e sostenuto dalla Commissione Europea che ha imposto all’Italia, come ad altri paesi europei, di accogliere le masse dei migranti clandestini che arrivano dall’Africa.

Richard Coudenhove Kalergi (1894-1972), personaggio storico sconosciuto all’opinione pubblica, mai citato nei libri di storia ufficiali e sconosciuto anche tra i deputati europei è considerato come il vero padre di Maastricht, fondatore del paneuropeismo e del multiculturalismo.

Questo personaggio ( austriaco ma nato a Tokio) nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi esponeva una sua visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una nuova popolazione multietnica ottenuta da un processo di mescolanza razziale”
Kalergi, con le sue teorie, ebbe allora il sostegno finanziario del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). Consideriamo che il fratello di Max Warburg, Paul Warburg, trasferitosi negli USA,fu uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR), uno dei più importanti organismi della elite dominante.

In sintesi il piano teorizzato da Kallergi prevedeva la necessità che i popoli d’Europa dovessero essere mescolati con africani ed asiatici per distruggerne l’identità originale e le culture e creare un’unica popolazione meticcia, multiculturale, un concetto che sta alla base di tutte le politiche comunitarie volte all’integrazione e alla tutela delle minoranze. Secondo il Kalergi, questa popolazione, mescolata e privata di una propria identità, avrebbe reso più facile il dominio della elite di potere sovranazionale. Benché nessun libro di scuola parli di Kalergi, le sue idee sono rimaste fra i principi ispiratori dell’odierna Unione Europea. Vedi: Il Piano Kalergi

Da notare che, in suo onore, è stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo piano criminale. Tra di loro troviamo nomi del calibro di Angela Merkel o Herman Van Rompuy.

I cittadini italiani non sono ancora consapevoli di cosa si stia preparando alle loro spalle e quale sia il livello di complicità dei governanti ed esponenti politici nazionali, dagli alti rappresentanti delle istituzioni come Matteo Renzi, al ministro Alfano, alla Laura Boldrini, noti esponenti del mondialismo e del modello multiculturale al pari di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano e del sindaco di Roma, l’ineffabile dr. Marino.

C’erano stati gli allarmi lanciati da una scienziata antropologa come Ida Magli sul prossimo avvento dell’africanizzazione dell’Italia ma non era stata ascoltata nè presa sul serio. Le sue previsioni si stanno rivelate serie e fondate. Piuttosto la scienziata è stata emarginata dagli ambienti ufficiali della cultura e della docenza poichè le sue affermazioni sono ritenute non allineate al pensiero “politicamente corretto”.

Vedi: L’Italia è casa nostra: noi le vere vittime

http://www.controinformazione.info/lonu-predispone-il-piano-per-il-ripopolamento-dellitalia/

neanche le bestie riservano trattamenti di differenzazione di questo tipo ai loro simili, niente può giustificare

Per i top manager stipendi 36 volte superiori ai dipendenti

Gap ingigantito, i compensi annuali risultano in alcuni casi di poco inferiori a quelli di un'intera vita lavorativa.
Nella foto: Sergio Marchionne, numero uno di Fiat-Chrysler
Nella foto: Sergio Marchionne, numero uno di Fiat-Chrysler

MILANO (WSI) - I top manager italiani guadagnano in un anno quanto il dipendente medio in un'intera vita lavorativa. Il dato emerge dall'annuario R&S di Mediobanca.

I compensi dei cosiddetti 'apicali' (presidente, amministratore delegato, vice presidente esecutivo, direttore generale) sono pari a circa 36 volte il costo medio del lavoro dei dipendenti dei gruppi che amministrano (poco meno di una vita lavorativa).

Trattandosi di una media, ovviamente, vi sono livelli più bassi e picchi. In particolare, Mediobanca riporta il caso di un manager (il nome non compare) che guadagna 278 volte più dei dipendenti.
Il cumulo della carica di presidente e amministratore delegato (affatto inusuale nel nostro paese) porta ad un multiplo di circa 83 volte.

La carica di AD vale circa quattro volte il costo medio dei dipendenti, quella di direttore generale 21 volte. I super-compensi dei manager spesso vanno a braccetto con il cumulo delle cariche. Il leader, da questo punto di vista, è Sergio Marchionne (sette cariche sociali nelle società censite da R&S), seguito da Monica Mondardini (sei poltrone), Gilberto Benetton e Francesco Caltagirone (cinque cariche a testa). (reuters)

http://www.wallstreetitalia.com/article/1716594/per-i-top-manager-stipendi-36-volte-superiori-ai-dipendenti.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter:+WSI&utm_content=31-12-2014+featured+Per+i+top+manager+stipendi+36+volte+superiori+ai+dipendenti

FBI si è accorto quello che tutti già sapevamo, il Nord Corea non c'entra con la Sony che si è fatta propaganda per soldi


Attacco a Sony, “non è stata la Corea del Nord. Sospetti su hacker di LulzSec”

Attacco a Sony, “non è stata la Corea del Nord. Sospetti su hacker di LulzSec”
Tecno

Dietrofront dell'Fbi e del governo degli Stati Uniti sulla vicenda che ha coinvolto la società giapponese. L’attribuzione a Pyongyang era basata su informazioni raccolte dalle agenzie di intelligence statunitensi. Ma ora le indagini sono orientate sul gruppo che ha già collaborato con Anonymous

La vicenda “Sony Leaks” si arricchisce di un nuovo capitolo. Secondo quanto dichiarato da un agente Fbi e da un membro della polizia di Los Angeles, le indagini sullattacco hacker che un mese fa ha portato alla divulgazione di email, film e documenti dell’azienda giapponese cambiano completamente direzione. L’Fbi e il governo degli Stati Uniti, infatti, si sono trovati costretti a effettuare una clamorosa marcia indietro, ritirando le accuse rivolte in un primo momento al regime nord-coreano. I sospetti ora si concentrano sul gruppo hacker LulzSec, già conosciuto per diverse azioni messe a segno negli anni scorsi e per la collaborazione con Anonymous in alcune campagne di hacking.
Per comprendere le dinamiche della vicenda Sony Leaks, però, è necessario ripercorrere gli avvenimenti degli ultimi 30 giorni. Tutto inizia alla fine di novembre con un attacco hacker ai sistemi di Sony Pictures Entertainment, che blocca le infrastrutture informatiche del colosso giapponese e porta alla pubblicazione sul web di materiale riservato. Su diversi siti Internet finiscono email compromettenti inviate dai manager dell’azienda, documenti sulle strategie aziendali, dati riguardanti le retribuzioni dei dipendenti e anche alcuni video di film targati Sony Pictures Entertainment che non sono ancora entrati nel circuito distributivo. L’azienda reagisce come può, cercando di bloccare la diffusione del materiale su Internet.

Partono le indagini di rito, che subiscono una svolta il 17 dicembre, quando su Internet compare un messaggio minaccioso riguardo l’imminente distribuzione di The Interview, un film satirico prodotto da Sony che tratta di un piano per assassinare il leader nord-coreano Kim Jong-un. L’autore del messaggio parla di “attentati in stile 11 settembre” nel caso in cui Sony non ritiri il film prima dell’uscita nelle sale. Tanto basta perché, nella stessa giornata, i portavoce del governo statunitense dichiarino che il governo nord-coreano sia coinvolto nell’attacco informatico ai danni di Sony. Una tesi che viene avvalorata due giorni dopo dai portavoce dell’Fbi, che confermano che la Corea del Nord è da considerarsi “chiaramente responsabile” dell’attacco a Sony avvenuto in novembre. The Interview diventa un caso diplomatico, sul quale interviene lo stesso Barack Obama. Alla fine il film viene distribuito su YouTube e nelle sale cinematografiche, in una sorta di sfida contro le minacce pervenute a Sony.
Arriviamo a ieri, 29 dicembre, quando un’azienda di sicurezza solleva qualche dubbio sulla ricostruzione fatta dalle autorità. Secondo un gruppo di analisti indipendenti, infatti, l’attacco ai sistemi informatici dell’azienda sarebbe verosimilmente opera di un ex-dipendente della multinazionale. La ricostruzione combacia con un articolo comparso due giorni prima su gotnews.com, in cui si puntano i riflettori su Lena2, uno pseudonimo dietro il quale si nasconderebbe un’ex-impiegata di Sony che si sarebbe licenziata nel marzo del 2014. Secondo la ricostruzione dei colleghi di gotnews.com, il possibile movente di Lena2 nel favorire l’attacco a Sony sarebbe legato a una disparità di retribuzione rispetto ai colleghi maschi.
Dalle parti dell’Fbi, però, si continua a preferire la teoria del complotto internazionale. Il 29 dicembre un portavoce del Bureau conferma che “il governo della Corea del Nord è responsabile del furto e della distruzione di dati presenti sulla rete di Sony Pictures Entertainment. L’attribuzione a Pyongyang è basata su informazioni raccolte dall’Fbi, dalle agenzie di intelligence statunitensi, dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, da alleati stranieri e dal settore privato”.
Oggi, infine, la definitiva marcia indietro che reindirizza le indagini verso l’azione di un “normale” gruppo hacker, che avrebbe approfittato della collaborazione di un ex-dipendente Sony. Secondo quanto riportato sempre da gotnews.com, i sospetti si concentrerebbero su LulzSec, una crew conosciuta da tempo che sembrava essere stata smantellata nel 2012, quando l’Fbi aveva arrestato e “convinto” a collaborare il suo leader Hector Xavier Monsegur.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/30/attacco-sony-non-stata-corea-nord-sospetti-hacker-lulzsec/1305291/

cosa c'entra il Nord Corea in questa guerra, Obama lo dica

Project Goliath: la guerra segreta di Hollywood contro Google

I leaks emersi dall’ultima breccia di Sony rivelano come Google sia al centro del mirino di una manovra internazionale volta ad arginare la pirateria sul web
Di Andrea Pettinari | 29 dicembre, 2014 Email @andre_pettinari
Project Goliath
Sembra proprio che Sony non riesca a scollarsi di dosso tutta quest’attenzione mediatica che ha ormai caratterizzato il nostro Natale. Se, infatti, abbiamo finora avuto modo di schiarirci le idee sulla questione “The Interview“, ecco arrivare proprio sul più bello una serie di leaks pescati tra le migliaia di mail trafugate alla sopracitata azienda, le quali hanno portato a galla una serie di accordi e sotterfugi degni di stare sulla prima pagina di WikiLeaks.
Mi riferisco a “Project Goliath“, un vero e proprio piano delineato segretamente dalle major di Hollywood, rappresentate dalla Motion Pictures Association of America, volto a sabotare politicamente – e non solo – proprio quel Golia moderno che porta il nome di Google. Il colosso di Mountain View è stato infatti considerato un facilitatore della pirateria sul web e accusato di rifiutare una collaborazione con la giustizia per quanto riguarda la rimozione di risultati illeciti sulle pagine del proprio motore di ricerca.
Il tutto è stato rivelato dal sito The Verge, il quale ha portato a galla la questione tramite una selezione di mail risalenti alla breccia di Sony e riportanti la firma di Steve Fabrizio, General Counsel di MPAA in carica dal 2013, che proprio con i vertici dei principali creatori di contenuti hollywoodiani avrebbe condiviso una serie di manovre da mettere in pratica per riuscire a monitorare una volta per tutte la maggior parte dei contenuti “pirata” pubblicati sul web. Sui nomi delle aziende coinvolte c’è da tenersi forti: oltre alla stessa Sony ci troviamo di fronte ad una vera e propria coalizione di “big”, tra cui figurano Disney, Fox, Paramount, Warner Bros. e Universal.

Una Hollywood alla ricerca di rivalsa

“Stop Online Piracy Act”, l’iniziativa di legge mai del tutto dimenticata dai produttori hollywoodianiLe ragioni che stanno dietro a questo accanimento da parte dei sopracitati produttori cinematografici sembrano trovare radici in un forte malcontento derivante da una legislazione che, a quanto pare, non riesce a soddisfare le parti coinvolte. Nei documenti recuperati dai file sottratti a Sony si fa più volte riferimento a “SOPA“, acronimo di “Stop Online Piracy Act”, una proposta di legge risalente al 2011 – e mai approvata – che avrebbe previsto un forte inasprimento della censura sul web, permettendo al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e ai singoli detentori di copyright di agire indisturbatamente contro siti web accusati di violazione dei diritti d’autore, impedendone l’accesso e richiedendone il blocco da parte degli stessi service provider. Ma non è finita qui: in caso di illecito, la diatriba legale avrebbe coinvolto anche tutti quei siti “colpevoli” di aver facilitato l’accesso al contenuto incriminato, anche solo tramite un singolo link su un blog o addirittura su un social network. Il motivo per cui questa proposta non sia mai stata realmente attuata dovrebbe essere ora ben chiaro nella vostra testa.
Hollywood rimane quindi delusa della mancata promulgazione di tale disegno di legge e decide, agguerrita più che mai, di farsi giustizia da sé, tenendo un atteggiamento di segretezza degno delle migliori spy-story, almeno fino ad oggi. Da ciò che si evince dalla fuga di notizie, infatti, pare proprio che MPAA stesse progettando un piano d’azione in grande stile per ristabilire una condizione di ordine sul web, il tutto passando per misure simili a quelle proposte con SOPA, atte a tenere sotto controllo ed arginare tutti quei siti considerati come una minaccia al bilancio dei più grandi big dell’industria cinematografica. Nel mirino troviamo in primis portali di streaming e servizi di file-hosting, ma anche siti dedicati alla condivisione di torrent e, ciliegina sulla torta, Google. È proprio sul motore di ricerca di Mountain View che si sofferma la questione, tanto che le aziende coinvolte arrivano addirittura ad attribuire il nome di “Project Goliath” alla propria crociata collettiva contro il colosso californiano, accusato di facilitare la pirateria proprio a causa della sua posizione intermediaria.
 Project GoliathIl progetto sarebbe scaturito dalla necessità di piegare Google alla collaborazione. L’azienda di Mountain View è stata infatti accusata di nascondersi dietro la propria posizione neutrale, da mero intermediario della rete, favorendo nei fatti l’accesso a siti contenenti materiale protetto da copyright e non solo. Proprio da qui parte un disperato tentativo di abbattere il gigante, considerato come un Golia dei tempi moderni, provando innanzitutto a fare terra bruciata intorno ad esso. Incapaci, però, di combattere il colosso nel proprio habitat naturale, i produttori di Hollywood, raccolti in MPAA, avrebbero deciso di passare direttamente per vie legali: i leaks parlano infatti di un fondo di oltre 500mila dollari stanziato per raccogliere prove grazie alla supervisione di Jim Hood, procuratore generale dello stato del Mississipi ed esplicito sostenitore di SOPA, con l’obiettivo di incastrare Big G davanti ai giudici, evidenziandone la funzione di facilitatore d’accesso a contenuti “piratati”.

Che lo scontro abbia inizio

Project GoliathGoogle non perde tempo e decide di pronunciarsi sulla questione, passando al contrattacco tramite un post sul proprio blog dal titolo pungente: “Il tentativo di MPAA di resuscitare SOPA passando per un procuratore generale“. Qui, le parole di Kent Walker, general counsel della compagnia, evidenziano come questa si riveli profondamente preoccupata dalle recenti rivelazioni che indicano MPAA come la promotrice di un vero e proprio movimento studiato per riportare in vita quelle disposizioni contenute nell’ormai defunta proposta di legge SOPA, passando oltretutto per collaborazioni politiche mirate a costruire argomentazioni valide, con il solo obiettivo di screditare l’azienda di Mountain View agli occhi dei giudici.
MPAA e il procuratore Hood non si lasciano però intimidire: mentre la prima si scaglia contro Google definendo la posizione di quest’ultima come un vergognoso tentativo di ritrarsi come difensore della libertà di espressione, solo per distogliere l’attenzione dall’apparente cattiva condotta del proprio motore di ricerca, il secondo passa direttamente alle maniere forti. Quest’ultimo si dissocia da ogni tipo di accusa riguardante la propria collaborazione con MPAA e formalizza il proprio attacco inviando a Mountain View una richiesta formale di informazioni sulla questione, composta da ben 79 pagine di accuse, sostenenti l’esistenza di “prove inconfutabili che dimostrino come Google faciliti e tragga profitto da attività illegali sul web, a partire dalla pirateria, fino ad arrivare al traffico di droga ed esseri umani”.
Il caso sembra destinato a finire tra le aule del tribunaleAccuse un tantino pesanti per Google, che di pronta risposta decide di portare il caso in tribunale, sostenendo come la sub poena imposta dal procuratore generale del Mississipi sia del tutto ingiustificata, richiedendone un annullamento e facendo appello al quadro normativo sui ruoli degli intermediari in rete vigente negli Stati Uniti, accusando Hood di averlo violato, in quanto l’ordinanza da lui pervenute non rientrerebbe nelle sue facoltà di procuratore generale. La denuncia depositata da Google testimonia inoltre come negli ultimi 18 mesi lo stesso abbia esercitato numerose pressioni sull’azienda, minacciando di passare per vie legali nel caso quest’ultima non avesse deciso di collaborare secondo precise disposizioni che avrebbero voluto il blocco di determinati contenuti dai principali servizi di Big G.
La risposta di Hood ricade nuovamente in un’accusa, questa volta di opportunismo: il procuratore generale ricorda infatti come Google avesse già risposto in passato ad una sua citazione in giudizio. Tuttavia quest’ultimo sembra voler riportare un clima pacifico sulla questione, richiedendo un “time out” e promettendo la sua totale disponibilità a chiudere la questione tramite un’amichevole negoziazione. Difficile però credere che Google, una volta infastidita e costretta ad imbracciare le armi, decida di patteggiare.

È davvero Google il problema?

In un contesto dove tutto ciò che è indicizzato, sul web, passa per le pagine del motore di ricerca più famoso al mondo, sembra facile colpevolizzare proprio quest’ultimo per tutti i misfatti che la rete offre e che quindi Google ci permette facilmente di raggiungere. Ma è davvero di Google la colpa principale di tutto ciò? Basterebbe, dunque, colpire Google per demolire il fenomeno della pirateria online e il business che vi sta dietro? Ma soprattutto: può essere quest’ultima accusata di un reato così grande, per aver solo svolto un ruolo di intermediario? La risposta a tutte e tre le domande è ovviamente no. No, perchè se cerchiamo delle responsabilità in tutto ciò, di sicuro non le troviamo in Google. Tutto ci suggerisce allora che il colosso di Mountain View non sia che una variabile secondaria, fasulla, che anche se arginata attenuerebbe sì, il problema, ma lo farebbe forse per le prime tre settimane. Sicuramente, però, non lo eliminerebbe, proprio perché ciò che stiamo considerando non è altro che un mero intermediario della rete.
Da cosa derivano, allora, tutte le accuse verso questo fantomatico Golia, mosse non da un Davide, ma bensì da colossi dell’industria cinematografica che insieme superano di gran lunga la stazza del tanto temuto gigante? Interessi personali? Si tratterà forse di una volontà maniacale di controllo su ogni aspetto della rete, per favorire quei modelli di business che con l’avanzare degli anni iniziano ad arrancare? Ma soprattutto – e questa ce la suggerisce direttamente Google – come può un’associazione come la Motion Picture Association of America dichiarare di difendere la libertà di espressione, mentre segretamente cerca di censurare Internet?
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Andrea Pettinari

https://www.ridble.com/project-goliath/

servizi segreti proni alla Strategia della Tensione

NO TAV – A qualcuno piace caldo

CronacaQui1Non mi capita quasi mai di leggere Cronaca Qui ma da un tweet di Lele Rizzo mi salta all’occhio l’ennesima strombazzata che tende a scaldare quel rigido inverno del quale tutti i media parlano costantemente, nonostante le temperature non sembrino poi così insolite considerando il periodo. Al centro della notizia un senatore che senza il movimento NO TAV probabilmente sarebbe ancora in qualche segreteria del PD in periferia,  quello che prima ancora che un attivista sia a conoscenza di essere indagato sembra conoscere già ogni dettaglio del suo fascicolo, e che proprio pochi mesi fa  è parso il più titubante a procedere con l’opera, sollevando indignato il problema dell’incognita costi, “meglio rinunciare”, tuonava sulle pagine di Repubblica il 29 ottobre  se il costo della TAV è 7 miliardi”.
Tornano alla ribalta i NOA, fantomatici Nuclei Operativi Armati,
ingrediente mediatico già utilizzato per criminalizzare il movimento alla vigilia della prima manifestazione, che si svolse in tutta Italia, in solidarietà con Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia il 22 febbraio e che evidentemente preoccupava fortemente quel governo per il sostegno che quattro accusati di terrorismo ottenevano ovunque, fatto del tutto raro nel nostro paese.
I creativi della disinformazione le stanno provando tutte, ma questa volta sembrano un po’ scarsi nel maneggiare o inventare le favolette, come l’eco mediatica avuta da un post su notav.info e ripreso da alcune testate, come Repubblica, che disegna improbabili scenari di divisioni tra un’area e l’altra del movimento.
La galassia NO TAV è talmente ampia che sarà ben difficile per chiunque capire se ci sia una fonte “ufficiale” e una no, semplicemente perché il “monolite” è la rappresentazione di una politica e di un certo movimentismo che ha sempre fallito, nel tempo, si è sempre rivelata una trappola, un contenitore, una gabbia talvolta invisibile dalla quale la lotta in un modo o nell’altro rischiava, nel tempo, di affievolirsi o di incastrarsi in binari che l’avrebbero lentamente resa una farsa utile solo ad arricchire il bottino alle urne, da una parte o dall’altra. Se la lotta al TAV per oltre vent’anni è sopravvissuta e, pur con alti e bassi, è riuscita a mettere quel granello di sabbia negli ingranaggi di un sistema che trita, divora e, soprattutto, DIVIDE, è anche perché è sopravvissuta a tentativi, più mediatici che altro, di ingabbiarla in strutture verticistiche ben più adatte ai partiti.
Allora sarà anche vero che qualche anarchico non ha gradito la visita in carcere di un eletto del Movimento 5 stelle, ma è altrettanto vero che in questa lotta, e forse solo in questa, ci sono senatori e deputati che incontrano e si confrontano serenamente con attivisti della galassia anarchica, e che su quei sentieri al freddo o al buio si cammina insieme, perché quel si parte e si torna insieme è qualcosa di talmente reale che nessuna raffigurazione virtuale e nessuna penna al servizio dei poteri forti potrà intaccare.
E’ qualcosa che non ha una forma, qualcosa che si sente e si vive, un inspiegabile rispetto reciproco nonostante le differenze, un “NO” al quale si arriva per motivazioni soggettive, ma un NO verso il quale poi si marcia uniti, nel rispetto delle proprie differenze.
E a giudicare dal tormentone mediatico degli ultimi mesi è proprio questo che fa tanta paura allo Stato. Il teorema dei brutali e violenti terroristi che hanno agito con MICIDIALITA’ (ebbene sìi, erano le parole di Caselli già dopo la manifestazione del 3 luglio 2011 ed erano le stesse usate dai PM nella requisitoria del processo per terrorismo), o dei violenti che sfogarono i loro istinti primordiali  è fallito più volte, la grande solidarietà raccolta da sempre da questa lotta in tutta Italia, da nord a sud, manifestata a Torino il 10 maggio in un corteo, la sentenza del 17 dicembre e l’ultima decisione del riesame che annulla il capo d’imputazione terrorismo per Lucio, Graziano e Francesco, ha costretto gli affaristi e i loro fedeli servitori ad inventare nuove strategie. O a riciclare le vecchie. Perché a loro è sempre piaciuto caldo, il clima.
Ma noi resistiamo, anche al freddo. Il freddo compatta perché per scaldarci, ci piaccia o no, dobbiamo stare vicini… vicini… vicini.
E c’è sempre un modo per scaldarsi.
Liberta_Al
A sarà dura.
Simonetta – TGMaddalena.it

http://www.tgmaddalena.it/no-tav-a-qualcuno-piace-caldo/

gli Stati Uniti vogliono la guerra (atomica) in Europa, lontano dalla loro casa

Roberto Arduini di

"Rotta la tregua tra Kiev e la Repubblica di Donetsk", è la news rivelata data da Giulietto Chiesa ed Eliseo Bertolasi a Radio Cusano Campus.

Ucraina e ribelli filo russi. Sicuri sia tutta colpa di Putin?

30 dicembre , 2014
Russia-Ucraina, rotta la tregua
Ucraina e ribelli filo russi di nuovo pronti a farsi la guerra. “Rotta la tregua tra Kiev e la Repubblica di Donetsk“. E’ la notizia data da Giulietto Chiesa ed Eliseo Bertolasi, ricercatore associato dell’IsAG, intervenuti nella trasmissione “Il mondo è piccolo” di Fabio Stefanelli su Radio Cusano Campus.
Ucraina, Russia e Putin. “Ieri pomeriggio -ha riferito Bertolasi- sono stato raggiunto telefonicamente da amici che abitano a Donestsk e che mi hanno confermato di aver sentito bombardamenti nelle zone limitrofe alla città. Nessuno si illude che la pace tra le due fazioni possa avvenire a breve”.
Russia e Ucraina sono di nuovo una contro l’altra. Eppure, solo una ventina di giorni fa, Ucraina e ribelli filo-russi erano arrivati ad un accordo su un cessate il fuoco nella provincia separatista e stavano lavorando per arrivare a una tregua più ampia, che secondo alcuni sarebbe stata in grado anche di porre fine a quasi otto mesi di conflitto. Un conflitto che in realtà, secondo Putin, nasconde ben altro. E cioè la voglia della Nato di mettere basi militari a un passo dai confini della Russia.
Rotta la tregua tra Kiev e la Repubblica di Donetsk“. E’ la news data in tempo reale su Radio Cusano Campus, da Giulietto Chiesa ed Eliseo Bertolasi.  Una notizia da accogliere con preoccupazione. Perché la questione tra Russia e Nato potrebbe anche precipitare.
Nato e Russia di Putin. Bisogna tenere a mente che il conflitto ucraino ha provocato la morte di 4.500 persone ed ha impegnato (e impegna tuttora) la Nato nella fortificazione  delle difese per “proteggere” i paesi ex satelliti sovietici da quella che ritiene essere una vera e propria minaccia: la Russia, che da parte sua, invece, per bocca di Putin,punta l’indice contro la Nato, additata di voler deliberatamente “destabilizzare la regione più stabile del mondo” favorendo l’ingresso di armamenti propri nei tre stati baltici o nell’Europa centrale.
Nato e Russia di Putin. Tra Kiev e la Repubblica di Donetsk la tregua dunque è stata rotta ieri. La Russia se lo aspettava. Putin ne era praticamente certo.
Operazione mediatica orchestrata dalla Nato contro la Russia di Putin? In tanti, in realtà, pensano che  il mondo sia davanti a quello che può essere considerato come un vero e proprio attacco perpetrato nei confronti di Putin e della Russia, considerata da diversi osservatori alla stregua di una potenza mondiale che starebbe opponendosi a quello che gli Stati Uniti, dopo il 1989, vorrebbero indicare come nuovo ordine imperiale.
Sull‘operazione mediatica che la Nato avrebbe orchestrato contro la Russia di Putin, Il filosofo Diego Fusaro, chiamato in causa per dire la propria opinione sulla vicenda, ha dichiarato: “È lampante che la Russia di Putin vine costantemente attaccata sia mediante rivoluzioni colorate, come quella dell’Ucraina, sia tramite azioni militari,  con la collocazione di basi strategiche nei Paesi limitrofi”.
Non è tutto. “La Russia di Putin”, secondo il filosofo Fusaro, “Viene osteggiata anche dal punto di vista culturale, attraverso un processo pilotato di destrutturazione  della cultura”.
Un esempio? Fusaro non ha dubbi: “Le Pussy Riots, manovrate per andare contro Putin e la Russia, dall’Occidente americano ed europeo, in una operazione atta a delegittimare la cultura e l’identità russa per renderla facilmente accessibile all’imperialismo della globalizzazione a guida statunitense”.
Rotta la tregua tra Kiev e la Repubblica di Donetsk. Ucraina e ribelli filo-russi hanno rotto una tregua durata poco più di tre settimane. “Il fatto che l’opinione pubblica e la manipolazione organizzata diffamino continuamente Putin e la Russia”, secondo Fusaro, “E’ il sinonimo di una verità che i media vogliono nascondere. Putin è dalla parte giusta”.
 

niente pietà per gli ebrei israeliani

Israele: il mostro uccide un altro bambino palestinese, con un fucile automatico. Il colpo gli trapassa il cuore.

Sono andata in Palestina quest’estate. Non è stato facile, perché non è mai facile per una donna viaggiare da sola, ancora meno entrare in un paese che sta bombardando Gaza, una parte della Palestina, con il silenzio complice del resto del mondo, compreso la nostra “democratica” Italia. Ho deciso di andare per guardare negli occhi quel mostro che quotidianamente ci racconta Samantha Comizzoli, ho pensato che provare a guardarlo con i suoi occhi sarebbe stato meno difficile e in parte è stato così, in parte no. Perché guardare il mostro significa affrontare una verità che ti svuota, ti penetra nella carne lacerandone ogni fibra fino a portarti a chiederti che sei veramente. Perché quelli che commettono questi crimini non sembrano umani, eppure sono come te, hanno un corpo simile al tuo, parlano una lingua diversa ma emettono gli stessi suoni, indossano la divisa (non tutti), sono per lo più armati ma, cosa più grave, commettono quotidianamente abusi, violenze, rapimenti, omicidi, stragi, pulizia etnica,  tollerati da tutti. Anche da noi. Noi che ci sentiamo tanto “avanti”. E non siamo niente.
Allora arrivi a chiederti chi sei perché non puoi accettare di essere come loro. E’ devastante. Ci dev’essere una spiegazione, la cerchi e non la trovi e di fronte a quell’orrore se non trovi una spiegazione ti svuoti, lentamente… come se qualcosa ti portasse via l’anima. Ascoltando le loro storie trattenere le lacrime era impossibile. E il mio sguardo incrociava quello di Sam, e di G. Tutte e tre lacrimanti, perché il dolore era forse l’unica forma per combattere il mostro.
Quando siamo andate ad Azzoun, un villaggio vicino a Qalquilja, “controllato” da due torrette israeliane e due cancelli custoditi dai soldati, la cosa che più mi ha colpito è stata la quantità di bambini. Uscivano dalle scuole, a quell’ora, e le strade si riempivano di bambini, bellissimo… O quasi. Perché Azzoun ha un triste primato, su 500 bambini detenuti in questo momento nelle carceri israeliane, almeno 70 sono di Azzoun. Intervistammo Waleed,14 anni, è stato detenuto alla prigione di Megiddo per 3 mesi. Aveva 13 quando l’hanno preso. Ma, è importante fare un passo indietro, ad un mese prima dell’arresto. Quando i soldati perpetrano su Waleed una violenza….
Waleed è con alcuni suoi amici sulla collina, stanno raccogliendo delle foglie d’uva , che qui si usano per cucinare. Arrivano i soldati israeliani, prendono Waleed per il bavero della maglietta per spingerlo dentro alla jeep militare; ma devono aspettare che arrivi un’altra jeep. Gli fanno un paio di foto con le mani legate e poi…si mettono a fare questo “gioco” con Waleed.
GLI METTONO UNA SOUND BOMB DIETRO ALLA SCHIENA E LO FANNO CORRERE AVANTI ED INDIETRO DAL CANCELLO DELL’INSEDIAMENTO ILLEGALE DI MA’ALE SHOMRON. I soldati israeliani lo guardano e ridono aspettando che la sound bomb esploda. Qui la vicenda raccontata nel blog di Samantha.
Due settimane fa Waleed è tornato a raccogliere foglie, con altri amici. Erano lì tutti e tre chini a raccogliere le foglie e gli sono saltati sopra da dietro i soldati israeliani. Waleed è riuscito a scappare, i suoi due amici no. Sono stati percossi e rapiti. Solo dopo 3 ore di pressioni, da parte di persone del villaggio per il loro rilascio, sono tornati dalle loro famiglie.
AGGIORNAMENTO 30 DICEMBRE: apprendo ora dal blog di Samantha Comizzoli che WALEED è tra i 17 arrestati due giorni fa, ed è SOTTO INTERROGATORIO.
POTETE IMMAGINARE… QUANTA CRUDELTA’ CI VUOLE per RAPIRE e TORTURARE un bambino al quale hanno GIA’ RUBATO IL SORRISO?
Niente, di tutto questo, sui nostri media. Mai una parola. Ma il 25 dicembre su tutti i nostri media arriva la notizia “Cisgiordania, padre e figlioletta israeliani ustionati da molotov”. Nei giorni successivi  l’esercito Israeliano arresta 12 persone ad Azzoun , alcuni di loro sono bambini, 14, 15, 16 anni.
Dal blog di Samantha Comizzoli leggiamo: “Ora, nessuno di noi era su quella strada per poter dire che la molotov non è stata tirata, ma pur volendo tenere in considerazione che abbiano tirato una molotov, scusate, ma questi palestinesi con tutti questi bambini rapiti, picchiati e torturati e con tutto il quadro che vi ho descritto…scusate, ma questi palestinesi come cazzo si devono difendere?” e ancora “Nel villaggio di Azzoun ho raccolto un’importante testimonianza: un bambino che è stato picchiato e rapito da israele e detenuto per 16 mesi. Aveva 13 anni quando l’hanno rapito, ora ne ha 15. I suoi famigliari mi hanno raccontato che gli hanno anche spento le sigarette sulle labbra, i soldati. Lui a me non l’ha raccontato e non perchè c’era la telecamera, ma perchè davanti ad una donna, bionda ed internazionale questo piccolo palestinese ci teneva alla sua dignità. Mi ha però raccontato tutto il resto, ho mascherato il viso del bambino perchè non voglio che lo rapiscono di nuovo. Guardate come hanno costruito fino all’impensabile la messa in scena per rapirlo. Vomitate pure per quello che hanno fatto a questo bambino, ma poi tornate a ragionare su tutta la vicenda di Azzoun e credo, capirete da voi la verità.”
Guardate questo video…e poi forse capirete anche voi la verità.

ImamPurtroppo non è finita. Erode non ha ancora finito il suo lavoro. Il mostro  è sempre affamato di vite, predilige quelle dei bambini, a quanto sembra. Così oggi è stato ucciso un altro bambino, con un fucile automatico, il colpo gli è entrato dalla schiena, perforando il polmone e poi dritto al cuore, trapassandolo. Samantha è corsa all’ospedale, ha visto il bambino ucciso da israele, Imam, e il suo amico ferito alla gamba. Ha raccolto tutto in video anche la testimonianza del dottore. I soldati hanno sparato ai due bambini a sangue freddo. Imam si è beccato un proiettile nella schiena che è uscito dal cuore, il suo migliore amico ha cercato di soccorrerlo e gli hanno sparato alla gamba. La versione dei soldati israeliani è che stavano tirando pietre alle auto….è una grande menzogna perchè dove erano non c’è nessuna strada, nessuna auto: erano sulla cima della collina perchè c’è una piscina e volevano farsi un giro lì perchè avevano finito gli esami a scuola.
E se avete visto il video sopra, capite come COSTRUISCONO le MENZOGNE, una fabbrica sistematica perché agli occhi del mondo questi crimini sembrino giustificabili ma non lo sono, non possono esserlo.



Ora io sono stanca di accendere le TV e aprire i giornali e trovare sempre e solo MENZOGNE, sono stanca perché ogni volta che un bambino palestinese viene rapito, torturato o ucciso non c’è una sola notizia che possa intaccare l’immagine di “paese democratico” del governo di Israele del quale l’Italia sembra così amico. E sono stanca anche dei finti sostenitori della Palestina che sembrano risvegliarsi solo al suono delle bombe ma tacciono di fronte a questa quotidiana pulizia etcnica o, peggio ancora, parlano di “pace” quasi invitando la popolazione che resiste ad abbandonare anche quella pietra, quell’unica arma a loro disposizione contro un mostro armato fino ai denti e protetto e sorretto da tutto il mondo! La pietra, maledizione, non è altro che la sola possibilità di alzarsi e dire NO e tentare di difendere la terra e la libertà che viene loro sottratta quotidianamente da oltre cent’anni. La pietra è parte di quella terra che i palestinesi amano, la pietra è l’assunzione diretta di una lotta che non possono delegare a nessuno, la pietra nella mia mano è il mio gesto diretto contro il nemico che non ho voluto io, ma che mi ritrovo a fronteggiare nonostante io voglia semplicemente VIVERE IN PACE!
Ricordo le parole del sindaco di Azzoun, durissime. Era stato anche lui per un periodo lunghissimo in quelle carceri, lo sguardo era duro quanto il tono della sua voce quando gli dicemmo che eravamo italiane. “Perché il governo italiano è amico di Israele, sostiene Israele, approva Israele. Come potete permetterlo?”, ci chiese. “Not in my name”, gli risposi. Ma fargli capire che non era il governo che avrei voluto non mi ha sollevato dal sapere di essere parte del problema, di essere complice. E dopo aver visto il mostro negli occhi, dopo aver sentito come se fossero state sul mio corpo le ferite che il mostro causa, il dolore, la paura, la rabbia, non ho potuto fare altro che ascoltare, in silenzio e vergognarmi profondamente. Non soltanto per la complicità del nostro governo ma più di tutto per l’assordante e squallido silenzio di tutti i media.
Non ci sarà speranza per quei bambini se continuerete a tacere, e sarà anche grazie a voi se ruberanno il sorriso ad un altro Waleed, se continueranno a torturare, rapire e uccidere anche i bambini. Se avete ancora un grammo di coscienza divulgate queste notizie. Fate qualcosa di davvero rivoluzionario, cazzo, siate uomini almeno per un giorno e mandate in onda qualcosa di vero. E smettetela di lagnarvi o di giustificarvi dicendo che “non ve lo permettono”, o che “vi censurano”… perché se vuoi qualcosa, puoi farla. C’è sempre un modo per dire di NO. Molti lo fanno a rischio della loro vita. Tu puoi farlo rischiando, alla peggio, un mancato salto di carriera.
Ma fallo, prima che sia troppo tardi, fallo. Perché i peggiori genocidi sono stati possibili NON perché NESSUNO LI VEDEVA ma perché TUTTI QUELLI CHE HANNO VISTO hanno TACIUTO o hanno fatto FINTA DI NON VEDERE. Pensaci. In fondo i nuovi lager, i CIE, sono sotto i nostri occhi. Ci passiamo davanti quotidianamente e non facciamo assolutamente NIENTE. La colpa dei peggiori crimini non è da attribuire solo ai criminali ma a tutto quel tessuto omertoso e vigliacco che permette loro di agire indisturbati.
Questo è il mostro peggiore. E ci piaccia o no, è dentro di noi.
Io lo combatterò fino alla fine. E con me quel mostro perderà sempre.
Simonetta Zandiri

http://www.tgmaddalena.it/israele-il-mostro-uccide-un-altro-bambino-palestinese-con-un-fucile-automatico-il-colpo-gli-trapassa-il-cuore/

gli ebrei uccidono ancora

Si aggrava la situazione alimentare a Gaza

Israele: soldati israeliani sparano sui manifestanti, un morto


Israele: soldati israeliani sparano sui manifestanti, un morto
29/12/2014, 17:35
EREZ (STRISCIA DI GAZA) - Ancora una volta, un giovane palestinese è stato ucciso a sangue freddo dai soldati israeliani. E' accaduto al valico di Erez, uno dei 13 punti in cui è possibile, in teoria, uscire da Gaza (ma solo in teoria, dato che i soldati israeliani raramente lo consentono). La protesta era contro l'occupazione israeliana e contro la passibvità di Abu Mazen e del governo palestinese, che non fa nulla per difendere i cittadini dall'aggressione dei soldati di Tel Aviv.

Secondo i militari, i manifestanti hanno cominciato a lanciare pietre contro i soldati che volevano disperdere la manifestazione. Vero o no questo fatto, i soldati hanno imbracciato i fucili e hanno cominciato a sparare sulle persone disarmate ("mirando alle gambe", specificano gli israeliani; ma se è così, i soldati hanno bisogno di allenarsi perchè nessuno è stato colpito alle gambe, ndr). Il risultato è che un ragazzo è stato colpito più volte al petto ed è morto quasi subito, mentre gli altri sono riusciti a scappare, anche se diversi di loro erano feriti, a giudicare dalle testimonianze raccolte.

Intanto peggiora la situazione degli abitanti di Gaza. Far passare cibo, medicinali ed altri generi di prima necessità è quasi impossibile. Israele continua a tenere chiusi tutti gli accessi, così come l'Egitto. Inoltre da quando è finito l'attacco israeliano a Gaza, il generale al-Sisi (presidente dell'Egitto) ha dichiarato guerra ai palestinesi e ha fatto distruggere tutti gli edifici intorno al valico di Rafah, distruggendo così anche i tunnel che erano la via principale attraverso cui gli abitanti di Gaza ricevevano il necessario. Se a questo aggiungiamo che l'ANP ha aumentato le tasse su molti generi di prima necessità, si capirà perchè i prezzi sono andati alle stelle: il prezzo delle sigarette per esempio è raddoppiato, quello del cemento per ricostruire le case distrutte dalle bombe israeliane si è moltiplicato per 15, e pare che anche quello del cibo stia aumentando.

http://www.julienews.it/notizia/dal-mondo/israele-soldati-israeliani-sparano-sui-manifestanti-un-morto/346273_dal-mondo_2.html

il Sistema Mafioso è il Pd

Scandali 2014: Mose, Expo, Mafia capitale. Gomez: “Mele marce? No, è un sistema”


“Non si può parlare di mele marce. Le inchieste che hanno scosso la politica in questo 2014 dimostrano che, vent’anni dopo Mani pulite, c’è un sistema”. Così Peter Gomez, direttore del fattoquotidiano.it nel suo videoeditoriale dedicato ai principali scandali dell’anno: il Mose a Venezia, l’Expo a Milano e Mafia capitale a Roma. “In queste ultime due decadi – prosegue Gomez – si è evitato di creare qualsiasi barriera contro la corruzione. Vent’anni di controriforme che hanno portato ai risultati di oggi”

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/12/30/scandali-2014-mose-expo-mafia-capitale-gomez-mele-marce-no-e-sistema/325423/ 

Grecia, la nota dolente è sempre quella il salario, pretendono il lavoro gratis per poi lamentarsi che nessuno compra le merci

Ecco come Berlino e la Bce trattano già con Tsipras

Il tedesco Asmussen prepara da tempo uno scenario con la sinistra al governo
La bandiera greca sventola davanti al Parlamento ad Atene
30/12/2014
inviata a berlino
Lo 007 della partita greca, racconta un’autorevole fonte tedesca, è un brillante economista di 48 anni dal sorriso gentile, con un master alla Bocconi e una reputazione da straordinario mediatore. È stato membro del comitato esecutivo della Bce ma anche consigliere del governo tedesco e viceministro delle Finanze, è uomo di fiducia sia di Mario Draghi, sia di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. In queste settimane di attesa ansiosa dell’ennesima tappa del dramma greco, forse il solo uomo che poteva tentare la «mission impossible», una triangolazione dietro le quinte tra Berlino-Francoforte-Atene per preparare il dopo-elezioni elleniche. Così Jörg Asmussen sta già incontrando in segreto i vertici del partito che uscirà probabilmente vincitore dalle urne: Syriza. L’attuale sottosegretario al Lavoro tedesco è volato ad Atene nelle scorse settimane, ma ha anche incontrato gli uomini di Tsipras a Berlino per cominciare a prefigurare uno scenario post-elettorale che non precipiti nuovamente l’Europa nell’incubo del 2012, quando si rischiò la fine dell’euro.

La campagna elettorale
Il punto è che la campagna elettorale greca sarà dura: il Paese è allo stremo e Tsipras ha costruito il suo consenso sulla promessa di porre fine al giogo imposto dalla troika. Inoltre, chiede ufficialmente una conferenza internazionale su modello di quella dell’inizio degli Anni 50 che abbonò i debiti anzitutto alla Germania, distrutta dalla guerra. Contrariamente a quanto riportato da innumerevoli cronache, il suo partito non ha mai chiesto di uscire dall’euro, né ha intenzione di fare colpi di testa, nel caso di vittoria elettorale.

«Troveremo un’intesa»
Anche ieri il suo portavoce, Niko Pappas, ha dichiarato al telefono da Atene che nel caso di un governo Tsipras, la Grecia «non prenderà decisioni unilaterali» e si è detto «sicuro» che «con l’Europa troveremo un’intesa che terrà conto dell’interesse di ambo le parti». È certo anche, ha aggiunto, «che non ci saranno più tagli» ma anche «che faremo riforme serie nella pubblica amministrazione e per attirare investitori stranieri avvieremo una seria lotta all’evasione fiscale». Gli stessi impegni che gli uomini di Tsipras stanno ripetendo alle fonti Ue con cui stanno segretamente dialogando, da Asmussen a un membro dell’attuale comitato esecutivo della Bce. Anche se Schäuble ha ribadito ieri che per la Germania «ogni nuovo governo deve attenersi agli accordi presi da quelli precedenti». E il commissario europeo agli Affari economici Moscovici ha sottolineato che «un forte impegno» di Atene per l’Europa resta «essenziale».

Il salario minimo
Finora, tuttavia, il punto dolente dell’agenda di Tsipras, che vuole tra l’altro reintrodurre il salario minimo e avviare politiche per stimolare la domanda, è che le sue promesse potrebbero risultare troppo costose per un Paese che ha attraversato sei anni di pesante recessione. D’altra parte, il tasso di crescita attuale è ancora troppo debole rispetto al servizio sull’immensa montagna di debito che la Grecia deve onorare. Ma la richiesta di un secondo taglio del debito ellenico (dopo quello imposto negli anni scorsi ai privati), che stavolta sarebbe soprattutto a carico dei partner europei e delle istituzioni internazionali come il Fmi e la Bce, è stato sempre respinto. Tuttavia la partita vera si giocherà su questo dossier, da febbraio in poi.

«Draghi è la chiave»
È altrettanto evidente che a questo punto l’ipotesi di un «quantitative easing» della Bce diventa più difficile, già a gennaio. Per i greci significherebbe un assegno in bianco, dal punto di vista non solo tedesco. Una fonte greca vicina al dossier giura però che «Draghi è la chiave» della questione ellenica. Anche perché una fetta di debito greco è in pancia a Francoforte. E l’italiano è l’altro mediatore fuoriclasse ai tavoli europei.

http://www.lastampa.it/2014/12/30/esteri/ecco-come-berlino-e-la-bce-trattano-gi-con-tsipras-4vqSPCHYBY9U6HAaRRsUfO/pagina.html

Riproponiamo l'articolo già pubblicato per quei pagliacci al governo che vogliono l'ennesimo spreco di soldi per il grande evento sportivo




Otto anni dopo: gli impianti inutili dell’Olimpiade 2006 a Torino

I Giochi invernali portarono miliardi di investimenti, ma da anni le strutture sono inutilizzate e nel 2016 le società di gestione andranno in liquidazione. Spesi 1,3 milioni all’anno per una pista mai più usata

di Marco Imarisio





TORINO - All’improvviso il cumulo di cartoni si anima. «Vuoi comprare qualcosa?». L’elenco è dettagliato, all’appello non manca nessuna droga. L’uomo che dormiva lì sotto si ritrae alla risposta negativa. «Allora cosa sei venuto a fare?». Il villaggio olimpico di Torino 2006 non è un posto dove andare di notte.
«L’obiettivo primario è la realizzazione di uno spazio confortevole per il periodo post olimpico che svolga pienamente le sue funzioni sociali di ritrovo e sosta per la cittadinanza». I nobili propositi del progetto originale sono in netto contrasto con le vetrate in frantumi, i negozi olimpici che cadono a pezzi, i totem metallici che in quei giorni gloriosi indicavano la via ai turisti usati come arieti per sfondare porte e ingressi, e in generale con una atmosfera post atomica popolata solo dai profughi che hanno occupato alcune palazzine e da molta brutta gente.
«Qualcosa è andato storto anche da noi». Marco Sampietro, ex manager Fiat e poi Pirelli, fu il ministro delle Finanze del comitato organizzatore di Torino 2006. Nei giorni in cui viene rilanciata l’utopia romana, il successo delle Olimpiadi invernali organizzate in Piemonte è spesso citato come un esempio virtuoso. « Where is Turin? ». Nel 1998, alla convention coreana delle candidature olimpiche, gli altri delegati si fermavano incuriositi davanti alla cartina dell’Italia. Anche i più accaniti detrattori ammettono che i Giochi del 2006 fecero cambiare attitudine, volto e percezione della città un tempo operaia. «A livello locale gli effetti benefici si sentono ancora» dice Sampietro. «Ma a prescindere da come vengono organizzate, le Olimpiadi non sono mai il modo migliore per spendere denaro pubblico».


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Torino, i luoghi abbandonati delle Olimpiadi invernali del 2006


In pieno centro
Le arcate con i locali che avrebbero dovuto essere il lascito per i torinesi sono ancora chiuse a doppia mandata con catenacci e inferriate metalliche. Non c’è posto più simbolico del fu Villaggio olimpico per raccontare quel che è andato storto. All’epoca costò 145 milioni di euro, comprensivi di parte commerciale, residenziale, e passerella olimpica per unire i due settori che creano una specie di enclave nel cuore della città. Dopo i Giochi le nuove strutture furono assegnate alla Fondazione 20 Marzo 2006, ente pubblico incaricato da Comune, Provincia e Regione della loro gestione. Ma del Villaggio Olimpico e delle sue palazzine nel centro di Torino che al tempo avevano valore immobiliare notevole, venne fatto uno spezzatino a uso delle esigenze dei bilanci. Una parte rimase alla Fondazione, un’altra al Comune che ne cartolarizzò un’ampia porzione cedendola a banche e società private. Il risultato è che ancora oggi, passeggiando sotto le arcate, si fatica a capire dove comincia una giurisdizione e dove ne finisce un’altra. E quindi nessuno fa nulla.
Strutture abbandonate
La pista olimpica del bob di Cesana ha sempre fatto notizia per i costanti furti del rame dei cavi elettrici. Poi è finito anche quello. L’impianto nell’Alta Val di Susa costò 140 milioni di euro. Oggi è il classico esempio di cattedrale nel deserto, seppur in alta quota. Nel 2000 il comitato organizzatore presentò al Coni gli studi che ne sconsigliavano la costruzione. Le gare di bob potevano essere disputate sulla pista francese di La Plagne, poco distante. Il Cio e gli enti locali ci stavano. Il Coni si impuntò, buttandola sull’onore patrio e promettendo che il nuovo impianto sarebbe diventato la Mecca del bob azzurro di ogni categoria. A Cesana stanno ancora aspettando. La pista è rimasta aperta e inutilizzata per altri tre anni, senza ospitare un evento che fosse uno. Le spese di gestione facevano spavento, mezzo milione di euro nel trimestre invernale, altri 800.000 per la manutenzione ordinaria. È stata chiusa nel 2010. Anche i ladri hanno smesso di girarci intorno.


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Le nuove rovine di Atene: gli impianti Olimpici 10 anni dopo

Gli sprechi
«Pericolo valanghe, vietato l’accesso». Sulla grata metallica che transenna i trampolini olimpici di Pragelato c’è un cartello non proprio beneaugurante. Lo ski jumping di Torino 2006 è un appunto a futura memoria in caso di nuove Olimpiadi. L’idea di costruire una struttura provvisoria dedicata a uno sport non certo di massa venne accantonata anche a seguito del parere negativo del Cio, al tempo ostile a tutto ciò che non era definitivo. La struttura in cemento armato costò 37,3 milioni di euro, può vantare un costo di manutenzione annuale stimato in 1.161.226 euro e da allora ha vissuto la bellezza di altre due competizioni. Non hanno avuto sorte più affollata il «jumping hotel» alla base dell’impianto, 120 posti letto e 20 milioni di costo, e l’impianto olimpico del biathlon di Sansicario (6 milioni).
Neppure il declassamento a pista turistica del tracciato di fondo a Pragelato contribuisce a coprire i 20 milioni spesi per cablare i dieci chilometri dell’anello olimpico. Il piano di investimenti definitivo della Fondazione 20 marzo prevede l’esborso di 16 milioni per la riqualificazione degli impianti. È stato varato nell’aprile scorso. Troppo tardi, forse.
Concerti in città
Gli impianti alpini sono una tassa. A pagarla è in parte il gruppo che ha rilevato gli impianti cittadini dalla Fondazione, ente di efficienza sospetta, come dimostrano gli alberghi olimpici per anni affidati in gestione senza riscuotere nessun affitto. La società Parcolimpico, composta dalla 20 Marzo, dagli americani di Live Nation e soprattutto dalla Set up di Giulio Muttoni, è controllata da quest’ultimo, organizzatore di concerti e quindi interessato al gioiello della corona, l’ex PalaIsozaki, che va come un treno.
Le altre infrastrutture torinesi dell’Olimpiade sono lontane dal pieno regime al quale dovrebbero ambire. Colpa anche della crisi. L’arena dell’Oval, che ospitò le gare di pattinaggio, è diventata un capannone fieristico in dote alla società francese che gestisce gli eventi del Lingotto. Fino alla primavera del 2009 è stato utilizzato per manifestazioni di ogni genere. Nel 2011 ha ospitato il Salone del libro. Dopo, poco o nulla.
Il bilancio
«Erano altri tempi. Oggi non credo che sarebbe possibile». A unire i reduci di quella stagione è il disincanto. Evelina Christillin, che fu il volto e la vicepresidente del Toroc, il Comitato olimpico torinese, non fa eccezione. C’è un prima comprensivo dei 15 giorni di gare e un dopo, dicono tutti, sottolineando come la seconda fase non fosse loro competenza. «Nel valutare nuove avventure bisognerebbe tenere conto di entrambi gli aspetti». Più chiaro di così. Torino 2006 costò circa 3,5 miliardi di euro. Il governo italiano stanziò 1,4 miliardi, Comune e Regione aggiunsero altri 600 milioni. Il resto arrivò da diritti televisivi, sponsor, marketing. La parte pubblica del denaro fu gestita dall’Agenzia Torino 2006, quella privata dal Toroc. Entrambe le società verranno liquidate nel 2016. La prima dovrebbe chiudere con un gruzzolo residuo di 45/50 milioni, da destinare alla riqualificazione degli impianti, il Toroc con un attivo di due milioni. Adesso non resta che prendere quei 3,5 miliardi e moltiplicarli almeno per tre - Londra 2012, ultima olimpiade estiva, ha chiuso a quota 9,8 miliardi. E poi immaginare Roma 2024. Prima, durante e soprattutto dopo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/14_dicembre_21/otto-anni-dopo-impianti-inutili-dell-olimpiade-2006-torino-giochi-rovine-7a51c0c6-88e3-11e4-87e1-ec26c60de2cb.shtml