Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
A sdoganare un linguaggio più che esplicito
sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la
parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza
esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le
donne,

le
loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le
donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”,
Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta:
«Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che
non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento
israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu,
sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i
palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar
via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il
limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia
etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson
nella sua analisi, ripresa da “
Come Don Chisciotte”.
Il clima politico in Israele ha continuato a
spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele
appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive
Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della
popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e
l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del
fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di
sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a
pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che
esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei
palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco
febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce
collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le
forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo
palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto
sionista può essere letto come basato sul

genocidio
della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione
dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con
l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso”.
La drammatica escalation degli ultimi anni,
rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere
ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di
“umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire
dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste)
palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che
naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i
poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda
avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva
“stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson –
si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato
dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale
emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera
araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta:
avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni,
con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in
Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua,
nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo
di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della
Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».
Perché fallì il processo di pace? Prima di
tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei
palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente
palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una
partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un
ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori
Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva
servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del
Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione
di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il
controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la
nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza,
altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo
transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana
anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania).

Infine,
in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione
transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati
ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese
durante gli anni ‘90».
«Fino a che la globalizzazione non prese
vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi
palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale
ilpotere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati
per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson.
«Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la
società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la
ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la
liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario
Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a
provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di
lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi,
che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio
attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più
visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò
una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati
statunitensi».
Integrandosi nel capitalismo globale,
continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di
ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione
dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo
modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon
Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50%
dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal
2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del
2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della
recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11
Settembre 2001 e la rapida militarizzazione dellapolitica mondiale, si
produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso
globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di
vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di
imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della
sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata
specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di
esportazione

israeliani
stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali
israeliane dedite ai sistemi di
«Questa accumulazione militare è
caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale
globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in
un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono
ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per
controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere
l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a
quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo
cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli
anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata
soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa,
dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti
coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla
ristrutturazione neoliberale

post-sovietica».
In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera
dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con
milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».
Insieme alla recessione, la nuova mobilità
lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la
riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze
lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare».
Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la
necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre
300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e
Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante
nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e
centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa
condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il
razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei
palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale)
ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in
generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una
società totalmente razzista».
E dato che l’immigrazione globale ha
eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo
palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale
eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi
Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla
popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la
sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera
palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le
loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per
pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i
commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano
in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande
trasformazione strutturale dell’economiaisraeliana, già nel ‘93 – anno
della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di
chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e
forte

aumento
degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito
palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con
disoccupazione e povertà al 70%.
«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero
essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che
esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato
palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania
raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e
continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di
alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle
famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano
che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le
politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro
volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo,
insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di
“pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre
maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti
transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e
l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».
In base alla logica perversa dell’élite,
quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e
internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità
d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la
commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo,
attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in
cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite
affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di
Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della
sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di
Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua
espansione della

“guerra al
terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi
palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista
con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come
«parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse
una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su
obiettivi di distruzione».
Israele sa che la pace non rende, scrisse su
“Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose
nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per
l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in
Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo
costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti
come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e
robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo
sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a
lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna
reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un
solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può
immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente
sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa
parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai
palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha
sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”,
sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si
accomodino pure sul Sinai, nel deserto.
Nessun commento:
Posta un commento