L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 14 giugno 2014

due aerei tre torri


Iraq e Pakistan, Libia e Siria in fiamme. Gli USA soffiano sul fuoco dell’integralismo islamico



Senza dimenticare il Maghreb, il Mali, l’Algeria. L’Afghanistan apparentemente è in sonno, i talebani aspettano gli eventi per farsi sentire nuovamente.

Nel frattempo, grazie alle strategie americane e gli interventi in Iraq, in Yemen, in Somalia, in Afghanistan e, segretamente ma non troppo, in altri stati africani, l’islam ha ripreso vigore.

L’Iraq e la Libia, destabilizzati con operazioni avventuristiche effettuate contro il diritto internazionale, sono in pieno caos e i morti, specie in Iraq non si contano più e i Jhadisti hanno dato vita allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis).

Senza le avventure americane molto probabilmente non ci troveremmo oggi a dover affrontare la più grave minaccia Jhiadista della storia moderna post Bin Laden.

In Siria, dove gli interessi vengono dai giacimenti di gas TAMAR (2009) e LEVIATHAN (2010), la situazione pare non interessare a nessuno mentre in Iraq gli Usa hanno già detto che interverranno, ma solo se sono messi a rischio i loro interessi, leggasi petrolio, mentre dall’Afghanistan che dovevano andarsene entro il 2014, rimarranno ben oltre questo limite e si parla del 2016, ma non è per niente certo. E ovviamente l’Italia si accoda.

In Libia non esiste di fatto uno stato ma tanti piccoli sceiccati che, mancando un uomo forte e catalizzatore, hanno ridotto il paese ad un vero e proprio campo di guerriglia permanente mentre l’occidente si ostina a parlare con governanti che governano solo al capitale Tripoli.

In Yemen, poco attenzionato dai media, la situazione è di guerriglia sotto traccia e il paese è praticamente sotto ricatto permanente dei gruppi jhadisti.

Ma nel contesto generale è la situazione in Pakistan che preoccupa perché il paese è in possesso della bomba atomica e la situazione specie nel sud, in particolare la città di Karachi che conta oltre 18 milioni di abitanti, è instabile. In pochi giorni per ben due volte l’aeroporto internazionale Jannah è stato attaccato dai talebani e per ritorsione il governo federale ha bombardato i territori del nord, nella Valle di Tirah della Khyber Agency, dove ovviamente sono stati uccisi innocenti.

Il Pakistan negli anni novanta, con grande fatica si stava avvicinando all’occidente ma dopo l’intervento americano in Afghanistan e i continui attacchi di droni e aerei americani in terra pakistana, hanno radicalmente cambiato la situazione facendo riemergere il mai sopito sentimento antiamericano e, dato respiro all’Islam integralista.

Malgrado tutto ciò, l’amministrazione americana, colpevolmente “assistita” dai paesi occidentali, Italia in testa, continua a non capire il disastro che sta provocando una dissennata politica militare interventista.

Gli USA nella loro presunzione di forza, e convinti che la distanza dai fuochi di guerra appiccati nell’area islamica li tenga a riparo di minacce dirette, dimostrano sempre più di non aver compreso l’Islam e nel complesso non di non aver capito l’essenza di un mussulmano.

Gli Usa sono distanti, ma i fuochi di guerra sono a un tiro di schioppo dall’Italia, quando il governo reagirà seriamenente?
http://www.osservatorio-sicilia.it

Dio ama tutti gli uomini ma degli imbecilli pensano di essere i favoriti

LA MOSTRA DELL'UNESCO E DEL SIMON WIESENTHAL CENTER, DEDICATA ALLA RELAZIONE FRA IL POPOLO EBRAICO E LA TERRA D'ISRAELE, ERA STATA CANCELLATA SEI MESI FA PER LE PRESSIONI ARABE.

L’Unesco cancella Israele dalla mostra dedicata al popolo ebraico e la sua terra

13/06/2014
Sei mesi fa, l’Unesco aveva cancellato la mostra realizzata in collaborazione con il Simon Wiesenthal Center, dedicata alla relazione fra il popolo ebraico alla terra d’Israele proprio qualche giorno prima della sua inaugurazione, a causa delle pressioni da parte dei paesi Arabi. L’esposizione era dunque stata rimandata a data da destinarsi.
Ma oggi essa apre i battenti a Parigi con una grande, sgradevole, novità: nel titolo non c’è più alcun riferimento a Israele, sostituito invece con il più generico “Terra Santa”.
L’esposizione, come scrive l’Unesco, “racconta la storia del popolo ebraico dai tempi biblici ai giorni nostri. Da testi esplicativi, illustrazioni e citazioni delle figure storiche di questa storia emerge il ritratto di una diversità impressionante, risultato dell’incrocio di diversi popoli e culture durante i millenni”. La compongono 24 pannelli di circa 800 parole ciascuno.
Fa però strano che in questo percorso Israele è come se non esistesse…

la palude è il Pd con la sua organizzazione marcia, corrotta fatta di consorterie, clan, cordate, famigli e clientele

MOSE, GIORGIO ORSONI SI DIMETTE: “HO REVOCATO LA GIUNTA. IO LONTANO DALLA POLITICA” – IL FATTO QUOTIDIANO

Il sindaco di Venezia, che solo ieri a pochi minuti dalla revoca degli arresti domiciliari e l’accordo con la Procura per patteggiare 4 mesi aveva dichiarato che non avrebbe lasciato la poltrona di primo cittadino, ha fatto un passo indietro. “Ho voluto un segno chiaro della mia lontananza della politica con la revoca della giunta”

Giorgio Orsoni se ne va. Il sindaco di Venezia, che solo ieri a pochi minuti dalla revoca degli arresti domiciliari e l’accordo con la Procura per patteggiare 4 mesi per finanziamento illecito aveva dichiarato che non avrebbe lasciato la poltrona di primo cittadino, si è invece dimesso. “Ho voluto un segno chiaro della mia lontananza della politica con la revoca della giunta”.
Il partito dal giorno degli arresti nell’ambito dell’inchiesta Mose aveva preso le distanze dall’avvocato che aveva sconfitto Renato Brunetta alle comunali del 2010. E Orsoni, già ieri e anche in una intervista oggi, aveva puntato il dito contro quei dirigenti che gli avevano indicato in Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzi Venezia Nuova e suo grande accusatore, l’imprenditore da cui ricevere fondi. Furono i vertici del Pd veneziano –  Davide Zoggia e Michele Mognato – quindi che gli avrebbero indicato dove reperire i fondi. Se le sue dichiarazioni, che hanno portato alla revoca della misura cautelare, avranno conseguenze lo si vedrà nei prossimi giorni.
“Le conclusioni che ho preso questa mattina sono molto amare perché ho verificato che non c’era quella compattezza che mi era stata annunciata. È per questo che – dice l’ex sindaco con voce tremante – ho voluto dare un segno chiaro della mia lontananza dalla politica, un segno che si è concretizzato innanzi tutto con la revoca della giunta che non riguarda l’operato amministrativo dei singoli assessori ma perché è venuto meno quel rapporto fra la mia persona e la politica che mi ha sostenuto finora. Il mio è un gesto esclusivamente politico e che vuole significare questo e con forza, anche se a qualcuno può non sembrare logico revocare una giunta che ha bene operato. Ma non è questo il punto, il punto è la chiara presa di distanza dalla politica. Questo è il primo gesto che ho fatto stamane, successivamente ho rassegnato le mie dimissioni, che per il momento non hanno effetto immediato ma dopo 20 giorni”. Orsoni ha parlato anche di “reazioni opportunistiche ed ipocrite, anche da parte di elementi della giunta”. “Con grande amarezza concludo il mio mandato, certo di aver sempre operato nell’interesse della città e dei cittadini e delle cittadine. Gli eventi di questi giorni – ha spiegato – e le iniziative della magistratura nei miei confronti hanno fatto emergere in modo evidente la mia estraneità al mondo della politica, a cui mi ero prestato con spirito di generosità verso la città”.
Questa mattina dai Dem era arrivato il benservito: “Siamo umanamente dispiaciuti – affermavano Debora Serracchiani,vice segretario Pd e Roger De Menech, segretario regionale – per la condizione in cui si trova Giorgio Orsoni, ma dopo quanto accaduto ieri, e a seguito di un approfondito confronto con i segretari cittadino provinciale e regionale del Pd, abbiamo maturato la convinzione che non vi siano le condizioni perché prosegua nel suo mandato di sindaco di Venezia. Invitiamo quindi Orsoni – proseguono – a riflettere sull’opportunità nell’interesse dei cittadini di Venezia e per la città stessa di offrire le sue dimissioni. Siamo convinti, inoltre, che non si debba disperdere quanto di buono il Pd di Venezia e tanti bravi amministratori hanno fatto e stanno facendo per la città. Per questo e per la necessaria chiarezza indispensabile in simili frangenti riteniamo che lo stessoOrsoni saprà dare prova di grande responsabilità“.

NoTav, la 'ndrangheta è infiltrata anche in procura, nessuna fiducia in questo stato

No Tav, maxiprocesso | Procura: no a documento su infiltrazioni mafiose

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Le difese dei 53 imputati, coinvolti nel maxiprocesso per gli scontri del 2011, hanno depositato una relazione del nucleo investigativo dei Carabinieri. Ivi si afferma espressamente che il boss della 'ndrangheta, Bruno Iaria, è stato dipendente della ditta valsusina Italcoge s.p.a., quella che si è occupata dei lavori di recinzione della Torino-Lione, alla Maddalena di Chiomonte. Dalla relazione emergono anche contatti tra il padre di Ilaria e l'azienda sopramenzionata e frequentazioni tra esponenti della ‘ndrangheta e la società Martina (anch'essa coinvolta negli appalti della Tav).
Secondo quanto riportato dal sito notav.info, ieri la Procura ha chiesto di non inserire la documentazione agli atti. Per i Pubblici Ministeri, le infiltrazioni mafiose, qualora ci fossero state, non sarebbero tecnicamente compatibili con il maxiprocesso. E il Tribunale, per ora, gli ha dato ragione.
Tale decisione, arriva dopo l'intervento dello storico Marco Revelli, che ha testimoniato due giorni fa in aula bunker. Il professore ha ricordato che, il 27 giugno 2011, una delle ragioni profonde della protesta fu quella della lotta alla criminalità. Gli attivisti in quell'occasione avrebbero urlato più volte "mafia,mafia!" nei confronti della ruspa della Iatlacoge, quella che sfondò il cancello della centrale idroelettrica. Proprio per questo motivo, la richiesta di produzione documentale è stata inoltrata durante l'audizione dell'intellettuale.
Revelli, inoltre, ha dichiarato: "Il 27 giugno e il 3 luglio 2011 non ho visto né lanci di pietre né azioni violente da parte del movimento No Tav. In entrambe le occasioni, invece, sono stati lanciati molti lacrimogeni da parte delle forze dell'ordine" (Via Ansa). Dello stesso avviso è anche Marco Fausone. Il ricercatore all'Environment Park di Torino, durante la testimonianza del maggio scorso, ha dichiarato: "Le forze dell'ordine usarono i lacrimogeni come fucili direttamente sui manifestanti".
Intanto l'applicazione della normativa antimafia sulla Tav può attendere. Come specificato dal commissario del governo per l'alta velocità, Mario Virano: "Il problema non pare certo delegabile al cda del futuro promotore pubblico anche perché una qualunque impresa che venisse esclusa dagli appalti a seguito dell'applicazione della normativa antimafia, oggi potrebbe fare ricorso a qualunque Tribunale francese e vedersi cancellata l'eventuale esclusione" (Intervista a Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2014).

South Stream, il cialtrone Pd lascia alla Germania di portare avanti la sua intuizione, troppo servo degli Stati Uniti

La Germania vuole salvare South Stream

13 - 06 - 2014Paolo Raffone
La Germania della cancelliera Merkel si muove per “riagganciare” i Balcani occidentali. Nel mezzo della presidenza di turno italiana dell’UE, la Germania ha organizzato il 28 agosto una conferenza internazionale di alto livello con tutti gli stati dei Balcani occidentali. Ufficialmente la conferenza servirebbe a “concludere un lavoro lasciato in sospeso”, cioè l’allargamento dell’Ue a quei paesi. Croazia e Slovenia sono già membri dell’Ue, la Serbia è candidato, ma restano da “portare dentro” Bosnia Erzegovina e Kosovo. Questo risultato porterebbe a conclusione le “guerre balcaniche” iniziate nel 1991 per la destrutturazione della Jugoslavia, progetto di medio e lungo termine pensato in Germania.
In realtà, dietro il paravento dell’allargamento europeo si nasconde un ben più importante interesse strategico: il gasdotto South Stream. Quest’ultimo era nato 10 anni fa da un’intesa tra l’Italia, e di Eni, e la Russia, con Gazprom. Nella ridefinizione dello scacchiere mondiale dell’influenza, gli Usa hanno deciso di opporsi con ogni mezzo alla realizzazione del gasdotto. La crisi in Ucraina ha fatto buon gioco all’interesse americano, cercando di impedire l’avvicinamento strutturale tra Germania e Russia. L’Italia sembra che non abbia potuto resistere alle pressioni americane e secondo alcuni report l’Eni avrebbe ridotto le quote nel consorzio per la costruzione del gasdotto dal 20 al 15%, cedendole a tedeschi e francesi. Inoltre, alcune informazioni indicano che il nuovo percorso del South Stream non passerebbe più per l’Italia, nemmeno nella sua deviazione di Tarvisio. Se questo fosse vero, South Stream sarebbe un “affare tedesco”. Mentre la Bulgaria, su pressione americana ha chiesto di bloccare la costruzione sul suo territorio, la Serbia, su pressione tedesca, ha deciso che procederà con la sua costruzione.
Con la conferenza tedesca sui Balcani, la Germania manda un chiaro messaggio che non ha alcuna intenzione di abbandonare le relazioni con la Russia.


Qual è la posizione italiana?

Nuove Resistenze, livelli diversi

Ucraina, un filo conduttore fino a Niscemi
«Anche i No Muos sono anti-imperialisti»

«Milizie di estrema destra massacrano le popolazioni ucraine, negando loro il diritto ad autodeterminarsi». Ad affermarlo è il Comitato etneo di solidarietà con gli antifascisti di quella parte d’Europa che ieri ha organizzato a Catania un incontro piuttosto chiacchierato. Il fil rouge che lega ucraini e niscemesi sarebbe la lotta, che passa anche dai No Tav della Val di Susa e che è stata raccontata in un docu-film dal giornalista Fulvio Grimaldi
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Un filo conduttore che dall’Ucraina porta ai No Muos di Niscemi, passando per i No Tavdella Val di Susa. Ad averlo cercato sono le associazioni e le persone che a Catania animano ilComitato di solidarietà con l’Ucraina antifascista e che hanno organizzato l’evento dal titoloNuovi partigiani contro l’imperialismo. Scatenando una polemica con l’amministrazione comunale. Oggetto del contendere era un’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico, prima negata e successivamente accordata, dopo una battaglia a suon di comunicati stampa tra il collettivo del centro popolare Experia – parte del comitato – e l’assessore alla Cultura del Comune etneo Orazio Licandro. «Eppure il Partito dei comunisti italiani, il partito di Licandro, è il solo che in Italia stia facendo una reale campagna d’informazione su quello che sta accadendo in Ucraina», spiega Silvio Indice, uno dei promotori della manifestazione.
«I fatti che agitano quel Paese sono scandalosi», continua Indice. «Milizie di estrema destra massacrano sistematicamente le popolazioni russofone. Non c’è solo la Crimea, che si è messa sotto l’ombrello della Russia, ci sono anche altre popolazioni che resistono a un golpe fascista che si è consumato a Kiev e che i media raccontano senza approfondire». Secondo i membri del comitato organizzatore, quello che sta succedendo in questi mesi nell’Europa orientale non è altro che un modo «finanziato dalla Nato, per destabilizzare gli Stati e togliere alle popolazioni il diritto di autodeterminarsi». Il riferimento è ai referendum di Crimea (16 marzo) e di Donetsk e Luhansk (11 maggio) tramite i quali le popolazioni ucraine di quei territori hanno votato la secessione dal governo di Kiev. Ma quest’ultimo ha dichiarato illegali entrambe le votazioni, con l’appoggio dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America. «Tramite la stampa ci hanno raccontato molte menzogne – interviene Giacomo Cacia, anche lui del comitato di solidarietà con l’Ucraina antifascista – Ci hanno fatto credere che nella città di Odessa ci siano stati degli scontri fra i terroristi separatisti e i nazionalisti. Ma non è così: a Odessa si è verificato un massacro, perpetrato da una formazione neonazista ai danni dei cittadini ucraini. Stiamo assistendo a un attacco imperialista in piena regola».
«La connessione con l’Ucraina antifascista è l’anti-imperialismo, che in Italia ha due grosse espressioni nei movimenti No Tav e No Muos», ribatte ancora Indice. I primi lottano, in Val di Susa e non solo, contro la costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione(la Tav, appunto), i secondi combattono affinché il sistema di antenne militari statunitensi – che sorge nell’area del Comune di Niscemi – venga smantellato. A raccontare entrambe le realtà è  il docu-film di 90 minuti Fronte Italia – Partigiani del 2000, realizzato dal giornalista Fulvio Grimaldi.
«È il primo documentario che giro in Italia», racconta l’autore, giornalista Rai e inviato di guerra. «Il nostro Paese sta affrontando continui attacchi – sostiene – Aggressioni sociali, economiche e militari nei confronti delle popolazioni locali». L’alta velocità da una parte, le antenne Muos dall’altra, in mezzo un «disegno comune di trasferimento delle ricchezze dal basso verso l’alto, a vantaggio esclusivo di pochi imprenditori e di una cricca di politici». «C’è gente che combatte dal Piemonte alla Sicilia – conclude Fulvio Grimaldi – L’Italia è tutta un fronte, e ci sono questi nuovi partigiani che resistono a imprese funeste, sprecone e mafiose».
[Foto di Sasha Maksymenko]

La Repubblica di Lugansk chiede il riconoscimento della sua indipendenza

La Repubblica di Lugansk chiede il riconoscimento della sua indipendenza

La Repubblica popolare di Lugansk si è rivolta alla Federazione Russa e altri 14 Stati con la richiesta di vedersi riconoscere la propria indipendenza.

E' stato reso noto che la richiesta per il riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica oltre alla Russia, sono state inviate anche in Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Cina, Serbia, Venezuela, Cuba e Nicaragua.
L'11 maggio nelle regione di Lugansk e di Donetsk si sono tenuti i referendum in cui gli abitanti hanno sostenuto la sovranità statale, hanno dichiarato l'indipendenza e chiesto alle autorità di Kiev di modificare la Costituzione in modo da iniziare il processo di federalizzazione.

Argentina, manovra per reintegrarsi nel Sistema Capitalitastico

Debiti e disoccupazione

Argentina: la cattiva notizia dell’accordo col Club di Parigi

Il Governo argentino sta considerando l’accesso a capitali esteri per arrivare alla scadenza del mandato. Irrisolta la questione sociale

Buenos Aires - L’Argentina ha firmato un accordo con il gruppo dei Paesi creditori riunitisi nel Club di Parigi, gruppo in cui rientra anche l’Italia. Nei prossimi cinque anni il Paese latinoamericano dovrà pagare 9.700 milioni di dollari, cifra che include il debito originale di 5.000 milioni di dollari più gli interessi maturati dal default del 2001 fino a oggi. L'accordo prevede un esborso iniziale di 650 milioni di dollari a luglio 2014 e  500 milioni a maggio 2015. I capitali dovuti matureranno interessi del 3 per cento annuo per i primi cinque anni.
Con questa accordo l’Argentina chiude un altro grande capitolo della crisi economica, sociale e politica scoppiata nel 2001, quando il debito pubblico raggiunse i 132.000 milioni di dollari e venne dichiarato il default.
Il Direttore di Analisi Economica di Abeceb, istituto di consulenza aziendale ed economica, Mariano Lamothe, ha giudicato l'accordo una «buona idea, perché è un passo fondamentale nella strategia di avvicinamento dei mercati internazionali del debito, strategia di cui il Governo argentino è venuto alla guida negli ultimi mesi e che comprendeva, ad esempio, il risarcimento al gruppo spagnolo Repsol per l'esproprio delle azioni della compagnia petrolifera YPF».
L'economista ha osservato che, con questa manovral’Amministrazione di Cristina Fernandez De Kirchner «cerca di ripristinare la fiducia nel Paese, attirando investimenti e l'accesso ai mercati del debito, imponendo interessi ragionevoli».
Tuttavia, l'Istituto argentino per lo Sviluppo Sociale (IDESA) -centro di ricerca indipendente e senza scopo di lucro- ha lanciato un’allerta sulle conseguenze 'distruttivederivanti dall’aver stretto in questo particolare momento un accordo con il Club di Parigi, proprio mentre in Argentina persiste un deficit di bilancio elevato e crescente.
In un suo rapporto, IDESA ha indicato come prima conseguenza negativa il fatto che il debito sarà pagato da un altro Governo, considerando che il termine è di cinque anni, mentre il mandato dell’attuale Presidente scadrà nel 2015. Il Paese, in questo senso, ha promesso di pagare 1.200 milioni di dollari (12% del totale) nel maggio del prossimo anno, mentre il resto (88%) dovrà essere pagato dalle Amministrazioni cui toccherà la gestione dell'accordo a partire dal 2016, quando si insedierà un nuovo Governo.
Un altro punto da considerare, secondo quanto riportato da IDESA, è lo stato dei conti pubblici argentini. Secondo il Ministero dell'Economia, Axel Kicillof, il deficit di bilancio nel primo trimestre di quest’anno ha raggiunto il livello record di 4.926 milioni di dollari, mentre nel primo trimestre di ciascun anno tra il 2003 e il 2013 era fermo a 1,027 milioni.
«Firmare accordi che dovranno essere mantenuti dai prossimi governi per colmare l’attuale deficit di bilanciocontraendo un ulteriore debitosignifica prolungare l'agonia e ipotecare il futuro», evidenzia il centro studi. In sostanza lasceranno che il Paese, le imprese pubbliche e le Province accedano a prestiti con tassi molto elevati. Secondo il rapporto dell'Istituto, questo aiuterà la Banca Centrale dell'Argentina a ottenere dollari con il cambio ufficiale (1 dollaro = 8,13 pesos argentini al 6 giugno), mentre permetterà al settore pubblico di «avere finanziamenti per continuare a sperperare fondi».
Secondo IDESA, gli abbondanti flussi di credito del mercato estero,  con tassi di interesse molto bassi, sono un'opportunità che l'Argentina sta sprecando da un decennio, ma nelle attuali condizioni economiche, l’inaccessibilità al credito internazionale non era da intendersi come una punizione, bensì come una tutela contro l'incapacità di prendere in prestito dollari per finanziare il deficit di bilancio generato da un Governo che non abbandona il suo circolo vizioso: aumento della spesa pubblica (tra il 2000 e il 2010 è aumentata dal 28,3% al 38,4% del PIL ) abbinato a una maggiore emissione monetaria,  da cui deriva la crescita eccessiva dell’inflazione e il costo del dollaro.
L’inflazione  -che nel 2013 era al 10,9% secondo i dati ufficiali o al 28%  secondo i dati riferiti da istituti privati-  è diventata per gli argentini appartenenti alle classi sociali medio basse uno dei principali fattori di preoccupazione, a causa della perdita di potere d'acquisto dovuta all'aumento dei prezzi. Tuttavia, il Governo insiste nel minimizzare l'escalation dei prezzi e a paventare  strategie per calmierarli. Ma non ha preso molte altri provvedimenti.
A tutto questo si aggiunge l'incertezza generata dal rallentamento nella creazione di nuovi posti di lavoro. Nel primo trimestre di quest'anno, il tasso di attività (rapporto tra la popolazione attiva e la popolazione in età lavorativa) si attesta intorno al 45%il livello più basso da oltre undici anni. Il tasso di occupazione (il rapporto tra la popolazione attiva e popolazione totale), nel frattempo, è stato del 41,8%, circa 0,4 punti in meno di un anno fa. Il tasso di disoccupazione, nel frattempo, si attesta al 7,1%,  mentre la creazione di posti di lavoro è rimasta pressoché invariata negli ultimi sei mesi.
In sostanza, da un lato, le percentuali di occupatisottoccupati o disoccupatisono al livello peggiore dal primo trimestre del 2003, mentre il numero di posti di lavoro è precipitato negli ultimi dodici mesi.
Agustín Salvia, Dottore in Scienze Sociali e ricercatore presso il Consiglio Nazionale per la ricerca scientifica e tecnica (CONICET), ha osservato che «il tasso di attività è sceso perché ci sono più persone che smettono di cercare lavoro perché o sanno che non è possibile trovarne uno, o che gli stipendi a cui è possibile avere accesso sono comunque molto bassi».
Parallelamente, la povertà quest'anno potrebbe superare il 27,5% registrato nel 2013 tra la popolazione urbana totale, stima sul debito sociale emersa da un’indagine della Universidad Catolica Argentina (UCA). Le cause sarebbero l’inflazione più elevata e la minore attività economica. Gli indigenti (famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà) sarebbero in media il 5%.
Con tutti questi problemi interni, l'accordo con il Club di Parigi finisce col mostrare un Governo che volge al termine e che fa appello a questo strumento per accedere al credito necessario per raggiungere la fine del suo ciclo senza affrontare il problema sociale, problema che aspetta una risposta. E questa è una cattiva notizia.
- See more at: http://www.lindro.it/politica/2014-06-12/131738-argentina-la-cattiva-notizia-dellaccordo-col-club-di-parigi#sthash.wgvqB3qj.dpuf



venerdì 13 giugno 2014

.. South Stream dipende dagli europoidi la realizzazione. Ma gli imbecilli restano al palo

Serbia, Vucic,'Future of South Stream depends on Eu-Russia'

Meeting Vucic-Merkel:'Serbia will become a symbol of stability'

(ANSA) - TRIESTE - The decision about the future of the South Stream pipeline will not depend on Serbia, but on a deal between Russia and the EU, the Serbian Prime Minster Aleksandar Vucic stated in a joint press conference held after the meeting with the German Chancellor Angela Merkel in Berlin, Serbian news agency Tanjug reported.

"We have an agreement and a pre-contract signed. Gazprom is the majority owner of Petroleum Industry of Serbia (NIS), so Serbia is in a specific position. We will look to protect Serbian interests, but it also depends on the interests of Europe. You cannot skip EU countries to reach Serbia," Vucic said.

The main topics of the meeting Vucic-Merkel were the relations between the two countries and the Serbian path towards the EU.

Freedom of the media, the potential for attracting more German investors, and the importance of German aid in the aftermath of the devastating floods were issues that were also addressed.

"Serbia will become a symbol of stability", Vucic stated, while underlying that the country was interested in having Germany as an ally and in attracting more of its investors, and that it aims at having good relations with all of its neighbours. "Serbia understands many objections it has faced regarding the recent crisis in Ukraine", Vucic said in an article published in Germany's large-circulation newspaper Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) in the light of his meeting with Merkel. He added that his country, surprisingly for many, had expressed clear support to the territorial integrity and sovereignty of Ukraine, while not imposing sanctions on Russia "due to economic and political reasons".

"We are a small country that wants to solve its problems without encountering conflicts with anyone in the region or elsewhere across the world, focusing on its European future", Vucic underlined, while admitting that Serbian politicians, including himself, did not understand the world around them well in the nineties of the last century. "It is clear that we were defeated at every turn in those nineties and that we are paying the cost of the heavy defeats and the policy pursued then even today", Vucic said while expressing the expectation that, after the Brussels agreement and the deal with Pristina, Serbia would be given a new chance.

(ANSA).


https://www.ansa.it/nuova_europa/it/notizie/rubriche/speciali/2014/06/11/serbia-vucicfuture-of-south-stream-depends-on-eu-russia_d59914f1-910f-4e12-94c4-7fcd37ace14e.html

Napolitano continua a infrangere la Costituzione, nella fattispecie articolo 11

Napolitano convoca il Consiglio supremo di difesa il 18 giugno

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha convocato al Quirinale il Consiglio supremo di difesa mercoledì 18 giugno 2014 alle 10,30.

La nota del Quirinale segnala che all'ordine del giorno c'è il punto sulla situazione sui principali scenari di crisi, con particolare riferimento agli eventi dell'Ucraina e alla situazione nel bacino del Mediterraneo, nonché alla partecipazione delle nostre Forze Armate alle missioni internazionali.

Poi iniziative della presidenza italiana Ue per la rivitalizzazione della Common Security and Defence Policy, anche in relazione alle emergenze in atto. Infine, presentazione ed esame delle linee guida per l'elaborazione del Libro bianco della difesa e delle modalità per il suo completamento entro l'anno, con il coinvolgimento del Parlamento.

Farange, in Italia è diffamato dai mass media, come Marine le Pen

SOS RACISME CONDANNATO PER DIFFAMAZIONE DI MARINE LE PEN (NOTIZIE FALSE SU LEI)

12 giugno - L'ex presidente di Sos Racisme Dominique Sopo è stato condannato oggi ad un'ammenda di 600 euro per aver diffamato Marine Le Pen con un comunicato in cui si faceva riferimento alla presenza della presidente del Front National a un ''ballo antisemita'' a Vienna. Perseguito in qualità di direttore del sito Internet dell'associazione sul quale era stato pubblicato il comunicato il 28 gennaio, Sopo è stato condannato anche al pagamento di duemila Euro di danni e spese legali a Marine Le Pen.
http://www.ilnord.it/b-2622_SOS_RACISME_CONDANNATO_PER_DIFFAMAZIONE_DI_MARINE_LE_PEN_NOTIZIE_FALSE_SU_LEI

..South Stream, gli europoidi eurocentrici privi di idee subiscono l'ingerenza degli Stati Uniti e non accettano il gas dell'europea Russia

E se Putin vince in Ucraina?

L’accordo della CNPC apre alla Russia il mercato asiatico del gas
Igor Alekseev, Route Magazine – Nsnbc

Il recente accordo tra la China National Petroleum Corporation (CNPC) e la compagnia energetica russa Gazprom può controbilanciare le sanzioni statunitensi ed ampliare le opzioni energetiche della Russia in Eurasia. Le parti hanno stipulato il contratto per la costruzione del nuovo gasdotto “Power of Siberia” nei prossimi cinque anni. L’obiettivo è fornire alla Cina 82 miliardi di metri cubi di gas, una media di 16,4 miliardi di metri cubi all’anno. Inoltre, il ministro dell’Energia russo Aleksandr Novak ha detto che la parte cinese ha espresso il desiderio di arrivare a 25 miliardi di dollari e di abolire i dazi sulle importazioni di gas russo. Secondo Vedomosti, il The Wall Street Journal russo, il contratto tra Gazprom e CNPC ha un valore complessivo di 400 miliardi di dollari e riguarda 1032 miliardi di metri cubi di gas. Il prezzo del contratto si basa sul volume minimo e comprende una clausola “take or pay”. Il contratto è pienamente in linea con la strategia aziendale di Gazprom volta a diversificare le forniture di carburante. In sostanza, non è diverso da accordi analoghi conclusi con i consumatori dell’Europa occidentale e il prezzo è competitivo (superiore a 350 dollari per mille mc, secondo diverse fonti). Lo Stato cinese ha incaricato CNPC di costruire gasdotti e impianti di stoccaggio in Cina per l’accordo. Entro la fine del 2014, un accordo intergovernativo sulla cooperazione energetica supplementare verrebbe firmato a livello statale. Parlando della fattibilità del progetto, Aleksej Uljukaev, ministro russo dello Sviluppo economico, ha sostenuto al recente St. Petersburg International Economic Forum che “il progetto sarà al 100 per cento redditizio“. Mosca valuta l’introduzione di un trattamento fiscale preferenziale per rendere l’accordo ancora più redditizio. Un nuovo regime di sgravi fiscali sarà introdotto sui giacimenti che alimenteranno il mercato del gas cinese.
Su scala più ampia, la rapida realizzazione del contratto sarà conseguenza diretta della politica degli Stati Uniti in Europa orientale. Dopo il fiasco siriano, l’amministrazione Obama ha fatto ogni sforzo istituendo un regime fantoccio in Ucraina. L’esportazione del caos nel cuore dell’Europa serve a sabotare il dialogo energetico tra Est e Ovest. Secondo lo scenario di Washington, i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia dimenticano l’antico principio ‘pacta sunt servanda’ e violano il trattato con l’allora legittimo presidente dell’Ucraina. Ciò di fatto ha sancito la guerra civile e le violenze brutali in Novorossija. L’insediamento di un governo radicale a Kiev mette a rischio l’intero sistema di approvvigionamento energetico dell’Europa. Per ora sembra che nessuno in Europa dia una spiegazione intelligibile del perché sia successo. Bruxelles ha sacrificato decenni di stabilità energetica al mito della solidarietà transatlantica UE-USA (l’afflizione dei negoziati TTIP n’è un’ottima indicazione). Ora la minaccia incombente del debito non garantito sul gas dell’Ucraina è un problema di alta priorità per l’Europa. Chi raccoglie i benefici della dubbia “vittoria” occidentale a Kiev? Basta seguire il denaro. Mentre il vicepresidente statunitense Joe Biden testa la fedeltà dei satelliti USA dell’Europa orientale in Romania, suo figlio Hunter Biden entra sfacciatamente nel consiglio di amministrazione della società del gas ucraina Burisma. Il riorientamento della politica energetica della Russia in Asia difficilmente porterà a un drastico cambio nel breve termine. L’Europa è e rimarrà un importante partner commerciale per gli esportatori di gas della Russia. Anche se l’invio previsto di 38 miliardi di metri cubi di gas in Cina è impressionante, è pari solo al 20 per cento di quello attualmente fornito all’Europa. Tuttavia, in prospettiva nel 2020-2025 l’accordo sul gas Russia-Cina farà della Cina il mercato del gas. I numeri assoluti non sono importanti quanto l’impatto economico complessivo della cooperazione a lungo termine. Ad esempio la Cheljabinsk Tube Rolling Plant (ChelPipe) e la controllata della CNPC China Petroleum Pipeline Material and Equipment Corporation (CPPMEC) hanno firmato un accordo biennale per la partecipazione congiunta a progetti di gasdotti internazionali. I giacimenti siberiani orientali potranno rifornire anche il previsto impianto di gas naturale liquefatto di Vladivostok, che potrebbe diventare la via per gli altri Paesi asiatici energivori come Giappone, Corea e Taiwan. Tutto sommato, l’agenzia di ratingFitch ritiene che l’accordo CNPC-Gazprom rappresenti una significativa opportunità di crescita per l’industria del gas russa. Un mercato alternativo in Oriente è una positiva prospettiva di medio-lungo termine per Gazprom, nonostante tutti i tentativi d’imporre sanzioni economiche contro la Russia.
http://cogitoergo.it/?p=26615

Germania, i padroni dell'Euro impediscono qualsiasi manovra di lungo respiro, accettano solo piccoli aggiustamenti in corso d'opera


Perchè le misure di Mario Draghi non salveranno l’Euro
 Pubblicato il da in Crisi Economica

La grande paura è la deflazione, la speranza è che le misure di Draghi riescano a invertire il trend e salvare l’euro. Un calo dei prezzi in un contesto recessivo o almeno stagnante è strutturalmente una catastrofe. Il rischio è che l’Europa si avviti in una doppia spirale recessiva-deflattiva, e che i parametri dell’economia reale si inchiodino a dati – pessimi – attuali.
Per sventare questo pericolo Mario Draghi, presidente della Bce, ha introdotto politiche monetarie espansive. Questa informazione, di per sé corretta, è comunque da prendere per le pinze. La verità è che le misure “draghiane” sono sì espansive, ma non sufficientemente espansive.
Una dimostrazione di ciò è stata fornita dal forex nei giorni immediatamente successivi all’annuncio della Bce riguardo alle nuove politiche. Ci si aspettava l’inizio di un trend al ribasso in tutti i cambi che avessero come currency principale l’euro, ma così non è stato. O meglio, lo è stato ma solo per pochissimo tempo. Dopo un iniziale indebolimento, l’euro è ritornato sui livelli soliti.

La sensazione è che l’euro non riesca a svalutarsi, nonostante le misure di Draghi e nonostante una corsa al rialzo che dura ormai da due anni. Perché? La risposta va rintracciata in un’analisi approfondita proprio delle novità introdotte dalle Bce.
La dinamica che, esclusivamente dal punto di vista forex, è intervenuta coincide con l’archiviazione delle aspettative. Semplicemente, gli investitori sapevano che Draghi avrebbe introdotto alcune novità in senso espansivo e hanno cominciato a reagire come se quelle novità fossero già state introdotte. Al momento dell’annuncio di Draghi, poi, non c’era più alcun effetto da sortire. Anzi, la reazione, se possibile, è stata di segno opposto proprio perché le misure sono state giudicate da alcuni un po’ troppo morbide, o addirittura deludenti.
La colpa va attribuita, come accennato sopra, alla morbidezza delle misure di Draghi. A una lettura più approfondita, si notano un gran numero di contraddizioni in grado di inficiare il raggiungimento dell’obiettivo finale: l’indebolimento dell’euro.
Il fattore anti-svalutazione è in verità una grande assenza: il Quantitative Easing. La classica “stampa di moneta”, che tanto bene ha recato all’economia degli Stati Uniti, in Europa non c’è e, a giudicare dalle ultime azioni di Draghi, difficilmente ci sarà in futuro. Sicuramente questa mancanza ha deluso le aspettative dei trader forex e ha impedito che l’euro perdesse terreno nei confronti del dollaro. Molti comunque pensano che il momento del QE arriverà prima o poi, ma verrà adottato come una sorta di scelta obbligata (se la disinflazione degenererà in deflazione).
Anche entrando nel merito dei singoli provvedimenti si notano parecchie storture. Il programma Abs, per esempio, che consiste nell’acquisto di titoli cartolarizzati delle imprese da parte della Bce, è sì imponente ma anche molto lento: partirà solo tra quattro mesi. Troppo tardi e troppo poco, almeno per dare una svolta.
Anche il taglio dei tassi desta qualche perplessità. In genere, lo step è sempre stato di 0,25. Questa volta, solo di 0,15. Se pensiamo che nemmeno lo step solito è riuscito – in passato – a dare lo scossone, evinciamo che nemmeno questa volta questo strumento sortirà effetti sperati. C’è anche da dire che siamo “pericolosamente” vicini allo zero, ma si poteva comunque fare uno sforzo in più.
http://www.webeconomia.it/misure-mario-draghi-non-salveranno-euro/3988/

Stati Uniti invadono l'Europa

contropiano2

L'Unione Europea di fronte a se stessa

di Sergio Cararo

Tra poco meno di un mese si apre il semestre europeo presieduto da Renzi e dall'Italia. Questo rappresenta un test ambivalente sia sul piano della governance che su quello dell'opposizione popolare e delle alternative. Può essere l'occasione per portare più a fondo il confronto su questioni rilevanti abbondantemente rimosse o sottovalutate ma che peseranno come macigni sulle prospettive del mondo reale nel quale ci è toccato di vivere.
La Commissione Europea ha pubblicato in questi giorni un documento sulla Strategia europea di sicurezza energetica. Si tratta per ora solo di una proposta che ha l’obiettivo di definire le linee guida e di proporre azioni per affrontare le principali sfide energetiche che l’UE si troverà ad affrontare nel breve, medio e lungo periodo. L’Unione Europea infatti importa il 53% dei suoi consumi totali, 90% nel caso del petrolio e 66% in quello del gas naturale. E' evidente dunque il livello di “vulnerabilità” di uno dei principali blocchi economici del mondo in termini di risorse energetiche, il che rende l'Unione Europea un anello ancora debole su questo terreno. E' evidente come i due conflitti scatenati alle porte di casa – a sud in Libia e ad est in Ucraina – segnino un livello elevato di questa vulnerabilità.
Un intervento militare fortemente voluto da una potenza europea come la Francia in Libia e una aperta ingerenza di paesi europei come Germania, Polonia e repubbliche Baltiche in Ucraina, hanno provocato un doloroso paradosso: la ricerca di una invocata stabilità ha provocato invece il massimo di instabilità. E adesso metterci rimedio sta diventando sempre più difficile, oltrechè sanguinoso per le popolazioni coinvolte sia in Libia che in Ucraina. Una volta deposto e ucciso Gheddafi o deposto e costretto alla fuga Yanukovich, le operazioni di “regime change” non hanno prodotto nuove e accondiscendenti leadership nei paesi destabilizzati.
Anche perchè a rendere le cose difficili per l'Unione Europea non sono tanto i gruppi armati in Libia o le repubbliche popolari secessioniste nell'Ucraina orientale, quanto il primus inter pares tra i paesi alleati: gli Stati Uniti.
Gli Usa hanno la percezione esatta della vulnerabilità energetica dei loro partner/competitori europei. Dopo aver incassato la sfida dell'avvento dell'euro, della competizione sulle tecnologie e della barriera deflazionista che ha impedito agli Usa di scaricare sull'Europa gli effetti inflattivi del loro quantitative easing come nei “bei tempi passati” del Washington Rule, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare duro con e contro i loro alleati nella Nato. Hanno così cominciato a colpire sui nervi scoperti. Hanno lasciato la Francia giocare alla grandeur nella destabilizzazione della Libia e hanno bruscamente alzato l'asticella del conflitto con la Russia. In pratica due dei principali serbatoi delle forniture energetiche dell'Europa sono diventati incerti e i rubinetti si stanno chiudendo, aggiungendoci un pizzico di cinismo attraverso cui i danneggiati (gli europei) dovrebbero anche mostrarsi soddisfatti di essersi fatti male da soli.
Non solo. Gli Stati Uniti stanno infatti agendo apertamente non solo per allargare la faglia tra Unione Europea e Russia ma anche quella all'interno della stessa Ue tra paesi fondatori e paesi della periferia est. Nel suo viaggio in Polonia che ha preceduto il vertice del G7 a Bruxelles, il presidente statunitense non solo ha incontrato il “suo uomo di cioccolata a Kiev” cioè il neopresidente ucraino Poroshenko (che sin dal 2006 era ritenuto l'interlocutore privilegiato di Washington) ma ha anche incontrato a parte i leader cechi, slovacchi, baltici, bulgari e rumeni. Una sorta di corte degli agenti statunitensi dentro l'Unione Europea e la Nato. E in questo contesto ha reso noto di voler stanziare quasi un miliardo di dollari per installare soldati e mezzi militari statunitensi nei paesi dell'Europa dell'Est, molto più a oriente delle storiche basi militari di Ramstein in Germania o di Aviano in Italia, molto più a ridosso della Russia.
Le dichiarazioni bellicose di Obama contro Putin e la Russia lasciano intravedere che l'asticella della tensione verrà tenuta alta o alzata ulteriormente perchè, come ricorda Brzezinski nella sua opera omnia (“La Grande Scacchiera”), la Nato è lo strumento principale per interferire sulla politica europea proprio in quanto fattore politico-militare, ovvero il punto ancora debole della UE per potersi definire e agire come un polo imperialista compiuto.
Alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco (gennaio), avevamo visto i ministri degli Esteri e della Difesa tedeschi cominciare a parlare il linguaggio della grande potenza e non solo sul piano economico. La Francia continua a portare come unica dote - per non essere retrocessa tra i Pigs – il suo arsenale nucleare e un discreto complesso militare-industriale e coglie ogni occasione – con il gollista Sarkozy o con il galletto Hollande – per mostrarsi bellicista e oltranzista oltre ogni raziocinio. L'Italia del partito di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Letta, Renzi) galleggia, evoca scenari distensivi ma poi ha detto di si a tutto: dalla base di Vicenza al Muos, dagli F35 fino alla clamorosa doppia firma di Letta al G8 dello scorso anno a Mosca, sia sul documento voluto dagli Usa contro la Siria che al documento voluto dalla Russia contro l'intervento in Siria.
La politica militare e le fonti energetiche restano dunque i due punti di vulnerabilità delle ambizioni al polo imperialista europeo come competitore globale. Da qui si capisce la posta in gioco e il senso delle affermazioni di Martin Feldstein quando profetizzava nel 1997 che “l'introduzione dell'euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra sia tra gli Stati Uniti e l'Europa che dentro l'Europa”.
Adesso ci siamo dentro fino al collo. Le guerre e l'instabilità alle periferie sud ed est dell'Unione Europea sono la conseguenza di questa sfida competitiva su scala globale, una classica competizione interimperialista direbbero – e ragione – i classici.
Con la crisi che continua a mordere, la lotta per le risorse che si fa più violenta, con i rimedi con non funzionano e lo sviluppo disuguale che si fa più acuto – il salto della cavallina, direbbe Alvin Toffler – i pericoli di una rottura storica, della guerra, si fanno più reali, quasi materializzabili. Se ne accorgono quelli che hanno a disposizione tutte le informazioni, non se ne accorgono invece quelli che dovrebbero mettersi di traverso. Per venti anni li hanno tenuti ben rincoglioniti con l'antiberlusconismo, adesso li distraggono con una leadership giovanile e ansiosa di fare il lavoro sporco che attendevano di fare sin dal 1992, proprio con la nascita di quell'Unione Europea che in tanti si ostinano a non voler vedere come il problema. L'occasione del Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo a guida italiana offre l'opportunità di recuperare il tempo e i passi perduti. Nella piattaforma per la manifestazione del 28 giugno e della campagna per il controsemestre per la prima volta, dopo troppo tempo, c'è anche il tema dell'opposizione alla guerra. C'è tanto da lavorare e da qualche parte occorre cominciare.

giovedì 12 giugno 2014

l'onestà intellettuale è un valore che serve, è fondamentale e necessario

contropiano2

Il fascino discreto della crisi economica

Intervista a Giorgio Gattei*

Continua il ciclo di interviste ad economiste ed economisti italiani sulla crisi economica ancora in corso. Dopo Joseph Halevi, è la volta di Giorgio Gattei
800px-Scene from an Inquisition by GoyaDomanda: L'emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un'enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono invece che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite la caduta del saggio tendenziale di profitto, che è una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa? 
Io non ho mai capito perchè gli economisti eterodossi debbano litigare sulla causa della crisi! Certamente siamo alle prese con un fenomeno complesso che può autorizzare molteplici spiegazioni, ma tutte riconducibili ad un fattore comune: che si tratta di una crisi di sovrapproduzione (di merci e di capitale), il che significa che l'offerta è venuta a superare la domanda.
Almeno su questo dovrebbero tutti concordare, dopo di che resta da chiedersi se questa sovrapproduzione sia dovuta ad un eccesso d’offerta oppure a un calo di domanda. Quale scegliere delle due alternative? La seconda certamente, come fin dal settembre 2010 una conferenza congiunta del Fondo Monetario Internazionale e della Organizzazione Internazionale del Lavoro aveva stabilito spiegando che la sovrapproduzione in atto era provocata da una caduta della domanda aggregata. Però la domanda aggregata è composta dai due elementi principali dei consumi e degli investimenti, così che il suo calo può dipendere dalla riduzione dei primi oppure dei secondi (nella realtà i due fenomeni sono intrecciati, ma per capirci meglio è opportuno distinguerli).
Il calo dei consumi. Essi sono calati perchè sono diminuiti i salari a seguito di quel fenomeno storico ormai riconosciuto a cui s’è dato il nome di “Grande Contrazione Salariale”. Praticamente dagli anni ‘80 i lavoratori sono stati messi sotto pressione dalle politiche d’occupazione della “reaganomics”: flessibilità e precarizzazione, delocalizzazione e licenziamenti. Si è prodotta così una riduzione della massa salariale complessiva che ha trascinato con sé un calo dei consumi tamponato sul momento con la concessione esagerata di “credito al consumo” anche verso chi non aveva titolo per averlo, come i cosiddetti clienti NINJA: “No income, no job or asset” (non ho reddito, non ho lavoro nè patrimonio), a cui le banche offrivano comunque aperture di credito rischiosissime. E’ stata questa la stagione dei titoli (di credito) “tossici”, crollata disastrosamente nella “crisi dei mutui suprime”. Il fatto è che per sostenere durevolmente i consumi si dovrebbero aumentare salari e stipendi e non ricorrere all’azzardo dell’indebitamento delle famiglie. Ma ciò richiederebbe il rovesciamento di quella tendenza alla maldistribuzione dei redditi avvenuta dagli anni ‘80 in poi che finalmente ha preso ad essere denunciata  dagli economisti più avvertiti. 
Il calo degli investimenti. Ma perchè mai devono calare? Essi dipendono dalle aspettative di profitto al netto degli interessi che si devono pagare se i soldi non si hanno, oppure che si possono guadagnare se si tengono i soldi in banca. Ora, se le aspettative di profitto si fanno incerte perchè la situazione economica non è positiva oppure se i tassi di interesse risultano troppo elevati, non converrà fare investimenti con la conseguenza di ridurre i profitti prodotti e farne cadere il relativo saggio. Come si vede, comunque la si metta, il risultato è lo stesso: una domanda insufficiente ad acquistare tutta la produzione offerta sul mercato con la minaccia di una caduta dei prezzi (deflazione) che è quanto di più nocivo per l’economia: se so che a produrre ai costi di oggi venderò domani a prezzi ribassati, oggi non produco ed i denari che possiedo li tengo “in forma liquida”, ossia in stand by, aspettando tempi migliori. Se sono in tanti a comportarsi così, la crisi può prolungarsi a lungo, come aveva spiegato Keynes nella Teoria generale dell’occupazione,  dell’interesse e della moneta (1936), perché allora “il sistema sembra capace di rimanere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo considerevole senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina totale”.
Se quanto sopra detto è plausibile, dove sta la divergenza sulla “causa originaria” della crisi? Ciascuno potrà privilegiare l’aspetto che gli sembra più caratteristico, ma comunque la lezione che ne esce è comune, e cioè che il sistema capitalistico al momento è coinvolto in una crisi di sovrapproduzione per effetto di una offerta che supera la domanda, con le imprese che fanno fatica a fare profitti e molte sono indotte a chiudere o a licenziare manodopera. Si arriva così al fenomeno della disoccupazione di massa che dovrebbe essere il problema più importante oggi da risolvere per tutti gli economisti, e non soltanto per quelli eterodossi. 

Domanda: Analizzando l'andamento dell'economia mondiale, si può notare che l'economia americana, seppur in maniera ancora debole, appare in ripresa, mentre la “Zona Euro” arranca. É quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell'Unione Monetaria Europea che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato? Più in generale, se per alcuni l'UE è una struttura neutra, addirittura con un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un'istituzione di classe e uno strumento d’imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato in Europa dalla Unione Monetaria? 
Per capire come la crisi si muova a livello internazionale differenziando gli Stati Uniti dalla Europa, bisogna tenere conto di un elemento analitico ulteriore: quando si decide di fare investimento, si tiene conto non tanto del tasso di interesse monetario, ma del tasso di interesse reale che è dato dal tasso d’interesse monetario diviso per  il livello dei prezzi. Questo è ovvio perchè nel fare investimento bisogna considerare che, oltre a pagare l’interesse alle banche qualora i soldi si prendano a prestito, le merci prodotte dovranno poi essere vendute tenendo conto dei prezzi a venire. Ora, in presenza di un’offerta maggiore della domanda, i prezzi sono previsti a calare (deflazione), il che vuol dire che, a parità d’interesse monetario, l’interesse reale aumenterà scoraggiando l’investimento. Per questo il profitto precedentemente guadagnato può finire per restare inoperoso nelle mani dei risparmiatori. Inoperoso? Qui opera un fenomeno che ancora a molti risulta difficile da capire. La scienza economica ortodossa ha sempre insegnato (insegna tuttora) che bisogna ridurre i salari per far aumentare gli investimenti perchè i profitti non possono che essere reimpiegati nella produzione. Ma proprio gli economisti eterodossi hanno mostrato che ai capitalisti è offerta l’alternativa dell’investimento finanziario che non muove né produzione né occupazione ed è un gioco “a somma zero” perché quel che (ad esempio in Borsa) una parte guadagna vendendo a caro prezzo, l’altra lo perde perchè compera a quel prezzo. Il fatto è che la funzione del risparmiatore non è affatto coincidente con quella dell’investitore e che il primo preferirà indirizzarlo verso operazioni speculative se le iniziative produttive dell’investitore gli appaiono sul momento poco redditizie o troppo rischiose. 
Tutto questo è esattamente successo negli anni ‘30 del secolo scorso e Keynes ne aveva magistralmente spiegato il perchè. E’ poi seguito un lungo periodo di tempo in cui presso gli economisti aveva preso piede l’idea che il ripetersi di quella Grande Crisi Deflattiva fosse diventato impossibile, così da confinarla ad un caso unico nella storia: è successo, ma non succederà più. Eppure essa si è riproposta in Giappone negli anni ’90 con un ristagno di prezzi e produzione che stenta ancora a trovare soluzione. Paul Krugman ne aveva subito scritto un libro dal titolo profetico Il ritorno della economia della depressione (1999) per avvertire che la minaccia di una “crisi keynesiana” sovrastava tuttora l’economia capitalistica, come si sarebbe dimostrato dal 2007 in poi. Ma come intervenire per rilanciare gli investimenti?
La prima soluzione che viene alla mente è quella di abbassare i tassi monetari d’interesse, che però non è decisione di spettanza delle autorità politiche ma dei “mercati” che non sono affatto condizionabili. Negli Stati Uniti si è allora intervenuto sul tasso d’interesse reale, diminuendolo mediante l’aumento dei prezzi ottenuto con la stampa di maggiore moneta (le politiche di quantitative easing adottate dalla Federal Reserve). Ma ciò non provoca inflazione? E qui le “anime belle” si sconvolgono, essendo state educate a considerare l’inflazione sempre brutta e pericolosa. Ma la deflazione è peggio – aveva già ammonito Keynes - perchè se la prima “stimola eccessivamente, l’altra intralcia la produzione della ricchezza e qui la deflazione è più dannosa” per le conseguenze negative di recessione e disoccupazione. Ciò spiega le politiche inflattive messe in atto dalla Federal Reserve che tra i propri compiti statutari ha pure quello di mantenere la disoccupazione ad un livello tollerabile. Ma l’inflazione non danneggia le famiglie, ci si domanderà? Non proprio, perchè in presenza di disoccupazione l’aumento dei prezzi, inducendo i capitalisti ad investire di più, accresce gli impieghi, aumenta i salari e fa salire i consumi favorendo ulteriori investimenti; ma poi anche perchè, quando la maggior produzione arriva sul mercato, i prezzi delle merci, solo temporalmente aumentati, calano a seguito della crescita dell’offerta. Ecco perchè l’inflazione (in giusta misura) può risultare conveniente sia alle imprese che alle famiglie, come provato adesso dali Stati Uniti in cui la produzione è in ripresa (addirittura alcune imprese, che avevano delocalizzato, stanno tornando a casa) e la disoccupazione è calata.
Se passiamo invece all’Unione Europea sono dolori perchè la sua Banca Centrale non ha tra gli obblighi statutari quello di mantenere bassa la disoccupazione, ma solo quello di tenere i prezzi stabili, né può prestare denaro agli Stati ma soltanto a banche private. Si dice che ciò sarebbe la conseguenza del fatto che la “filosofia” della Banca Centrale Europea sarebbe stata influenzata dai governanti tedeschi indelebilmente traumatizzati dalla memoria della Grande Inflazione sofferta negli anni 1919-23. Ma da allora tanta acqua è passata sotto i ponti e loro non sono stati capaci di cambiare? Qui piuttosto valgono interessi materiali ben precisi perchè una politica inflattiva, che favorisca gli investitori riducendo il tasso d’interesse reale, danneggia i risparmiatori che vedono diminuire i valori dei loro assets patrimoniali. Bisogna tener presente che sono due le “razze” dei capitalisti: gli industriali, a cui convengono interessi reali bassi per produrre a minor costo e cambio basso per esportare di più, e i finanzieri a cui invece fa più comodo interessi reali alti e cambio “forte”.
Anche tra gli nazioni può operare questa contraddizione, come ad esempio in Europa che è un insieme asimmetrico di Stati con la Germania (“nocciolo duro”) che presta alla “periferia” mediterranea” i propri capitali. La periferia, che prima o poi dovrà ripagare questi prestiti, preferirebbe una politica inflattiva per restituirli in moneta svalutata, ma ciò non conviene ai risparmiatori tedeschi che sono creditori e sono invece favorevoli ad una politica deflattiva chiamata, per occultare il loro interesse egoistico, “di rigore”. Ma pure all’interno della Germania agisce quel contrasto d’interessi del capitale industriale a quello finanziario con il primo che è necessariamente debitore per i finanziamenti bancari ricevuti per la produzione, ed il secondo, costituito da grandi risparmiatori come i fondi di investimento e anche i fondi pensione, che è creditore e perciò contrario a politiche inflattive. La BCE sta al centro di questi due conflitti: quello tra il “nocciolo duro” creditore e la “periferia” debitrice e quello che oppone gli industriali debitori ai banchieri creditori. E se finora hanno dominato gli interessi della Germania e della finanza, come la situazione evolverà in futuro sarà anche l’effetto delle conseguenze delle elezioni europee appena compiute.

Domanda: In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ha senso una guerra di posizione all'interno dell'accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi, ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o non sarebbe meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?
E’ questa una domanda un po' complicata. Il pensiero economico che oggi è dominante è quello della “supremazia del mercato” quale è uscito dalla controrivoluzione monetarista degli anni ’80 del secolo scorso. I suoi sostenitori sono stati bravissimi, non soltanto nel costruire progressivamente un’opinione pubblica favorevole al “mercato” e contraria allo “Stato”, ma soprattutto nel favorire una strategia d’occupazione dei posti di potere nell’accademia, nella stampa, nella televisione così da relegare ai margini gli oppositori. Il grande pubblico, che sente soprattutto e dappertutto le loro opinioni, si conforma in merito. Certamente permangono piccoli nuclei di resistenza, ma che forse è appena renitenza. Cosa allora potranno mai fare coloro che vi aderiscono? Innanzi tutto cercare di non vendersi mai al “nemico” e poi produrre teorie interpretative che siano antagoniste al cosiddetto “pensiero unico”, così da dar luogo ad un pensiero economico divergente.
Però bisognerà diffonderle queste concezioni economiche alternative! E come? Sfruttando tutti gli spazi possibili di discussione, ma non in maniera indiscriminata. Su questo, io sono piuttosto selettivo. Seleziono i miei interventi sulla base di una regola ben precisa: niente contraddittorio! Non partecipo insomma ad occasioni, eventi e quant’altro in cui siano presenti anche degli avversari, non avendo alcun interesse a confrontarmi con loro. Io ho le mie idee e non le cambierei certamente ascoltandoli, ma lo stesso vale per loro che resteranno solidi nel loro guscio. E allora perchè confrontarsi? Per il pubblico che assiste allo spettacolo (che proprio di questo, piuttosto che di un confronto di idee, qui si tratta) che può essere influenzato da uno dei due contenenti. Ma da chi? Da quello che è più abile alla discussione, chei sa “porgere” meglio gli argomenti, che conosce come “accarezzare” il pubblico, che insomma è più “attore”. E siccome è proprio questo che io non so fare, non capisco perché dovrei accettare dei confronti in cui, a prescindere dal contenuto delle mie idee, sarei già in partenza soccombente almeno per la forma espositiva. Se m’immagino a confronto con un politico o con un “animale da spettacolo”, non necessariamente più intelligente di me ma più abile dal punto di vista della forza di persuasione, è ovvio che il pubblico sarà più impressionato da lui che da me. Ma se così è (come è), perché dovrei garantirgli tanto risultato positivo? Che si presenti da solo ed esponga la propria argomentazione cercando d’influenzare il pubblico. Come peraltro faccio io quando argomento, da solo o in incontri simpatetici, le mie opinioni e i presenti mi ascoltano decidendo poi liberamente cosa farsene di quanto ho detto. E gli organizzatori? Se non sono soddisfatti della mia opinione, possono sempre organizzare un altro incontro con qualcuno che la pensi diversamente da me.
La seconda parte della domanda riguarda invece la possibilità di riformare il capitalismo e quindi di partecipare alla sua gestione (pro quota, naturalmente). A questa domanda posso rispondere molto semplicemente che sono in una condizione di tale emarginazione intellettuale che non ho alcun rischio di sentirmi offrire qualche responsabilità di gestione. Se mai mi proponessero di fare (che so?) il ministro, non so come mi comporterei perchè la carne è debole. Ma per non cadere in simili tentazioni faccio il possibile per evitare gli incarichi pubblici. Preferisco essere un “battitore libero” che parla del mondo, fregandosene bellamente della sua gestione. Rivendico una divisione del lavoro: ci sono i profeti che “gridano nel deserto” e ci sono i potenti che governano le città. Io preferisco fare il profeta (anche se non sto proprio in mezzo ad un deserto), giusta quella regola dei primi cristiani di “essere nel mondo, ma non di questo mondo”. Essendo ormai prossimo alla pensione e non avendo finora mai ricevuto alcuna offerta di “cogestione”, non credo che mi possa più capitare. Per cui, non essendomi mai trovato nella situazione e prevedendo che non mi succederà più, rispondo che, per quanto mi riguarda, il problema della “gestione del mondo” non si è posto e non si pone.

Domanda: Dal suo punto di vista, dove vede in questo momento sia in Italia che in generale nel resto del mondo movimenti e/o contraddizioni più interessanti, con un potenziale di rottura? Pensiamo ad esempio al ruolo della logistica in Italia. 
E’ questa è una bella domanda: dove trovare a livello europeo, a livello italiano, una eventuale linea di frattura sociale? Negli anni ’60 fu geniale avere trovato la situazione di rottura nei lavoratori addetti alla catena di montaggio. La catena di montaggio era l’elemento di maggior rigidità della produzione fordista perchè non la si poteva interrompere. E allora bastava anche un piccolo stop per per bloccare l’intero processo. La mia generazione aveva scoperto una rigidità nella continuità della circolazione capitalistica a livello del processo di produzione. Per questo nel cosiddetto “post-fordismo” (un termine che non vuole dire niente, tranne che ormai non siamo più nel fordismo) è stata prorpio la catena di montaggio a venir subito superata con la robotizzazione, così che quel fattore di rigidità non ci presentasse più. E’ da qui che deriva quella condizione d’inferiorità dei lavoratori in fabbrica rispetto ai diktat dei padroni, a cui i sindacati possono opporre soltanto lotte d’autodifesa e poco più.
Ma allora, in questa nuova condizione capitalistica dove potrà mai stare un elemento di rottura? Nei miei studi marxiani sono arrivato al secondo libro del Capitale. Ricordo che Marx al capitale ha dedicato tre libri, con il primo, conosciutissimo, che analizza magistralmente lo sfruttamento della forza lavoro in fabbrica. Negli anni ’50-’60 era soprattutto questo primo libro che a sinistra si studiava per muoversi con cognizione di causa all’interno delle lotte. Ma Marx ha scritto anche un secondo libro che è dedicato al semplice fatto che le merci prodotte vanno poi vendute e che le condizioni di vendita non sono le stesse della produzione differendo per luoghi, tempi e attori economici. Così, dopo aver esaminato il processo di produzione del capitale, Marx ha analizzato come funziona il suo processo di circolazione scoprendo che il plusvalore (diciamo il profitto) che i capitalisti arrivano a guadagnare dipende da due condizioni intrecciate. La prima è che si sfruttino al meglio (dal punto di vista capitalistico, naturalmente!) gli operai: se non si sfruttano, non viene fuori niente, come è evidente. Ma posto che il potere dispotico dei capitalisti sia tale da realizzare il massimo dello sfruttamento, non verrebbe fuori ancora niente se non si realizzasse monetariamente sul mercato il plusvalore prodotto nella fabbrica. Ecco la necessità di scrivere quel secondo libro per mostrare il secondo momento di vita del capitale quando, prese le merci prodotte, le deve far arrivare fino ai consumatori per vendergliele, incassare i quattrini e poi reinvestirli (se del caso) in altra accumulazione.
In questo grande settore della circolazione sono presenti prima di tutto le istituzioni e i lavoratori che devono far sì che le merci incontrino i consumatori – è la distribuzione commerciale. Poi c’è il pagamento del prezzo e quindi tutto quell’insieme di istituzioni e lavoratori impegnati a far sì che il denaro dalle tasche delle famiglie, per intenderci, finisca nelle casse delle imprese che hanno prodotto le merci – è il sistema bancario e finanziario. Infine ci sono, strategici all’interno di questo meccanismo, quelli che trasportano le merci dai luoghi di produzione ai posti di consumo: è il grande settore della logistica che muove le merci per far sì che, prodotte là, vengano consumate qua. Tutte queste operazioni di commercializzazione, finanziarizzazione e trasporto vengono svolte in un tempo reale che non è un tempo logico-astratto. Ed il tempo che le merci ci mettono per uscire dalla fabbrica e trasformarsi in denaro è chiamato da Marx tempo di rotazione. A questo punto la funzione del capitale e dei lavoratori nei settori della circolazione è semplicemente quella di far sì che questo tempo di rotazione sia il più corto possibile, che invece che metterci un anno ci metta sei mesi, che invece di sei mesi ne bastino tre. Con quale vantaggio? Di poter ripetere più volte il processo d’accumulazione del profitto: se si riuscisse a realizzare un secondo investimento ogni mese, invece che in un anno, si guadagnerebbe dodici volte il plusvalore o profitto di un anno solo.
Per questo la formula di valorizzazione del capitale non dice solo che il profitto del capitalista dipende dello sfruttamento dei lavoratori (come spiegato nel primo libro del Capitale), ma che dipende da quello sfruttamento moltiplicato per il numero di volte che il processo di circolazione si ripete in un arco di tempo determinato, mettiamo in un anno. Per questo il profitto annuale del capitalistico è il prodotto dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e della efficienza dei lavoratori della circolazione. Ma è un prodotto e che cosa vuol dire? Vuol dire che, come il profitto diventa zero se non si non si realizza lo sfruttamento, altrettanto diventa zero se non si realizza la circolazione, ossia che, come i lavoratori delle fabbriche devono produrre plusvalore, anche i lavoratori della circolazione devono “produrre” rotazione (un esempio per far capire la cosa: se sono in macchina e ho bisogno di andare più veloce, posso spingere sull’acceleratore sfruttando di più il motore, ma posso anche cambiare marcia velocizzando l’albero motore).
A questo punto è possibile intravedere l’elemento di rigidità del post-fordismo, che non sta più tanto nella fabbrica (almeno nei paesi capitalistici maturi) dove la classe operaia produttiva è stata pesantemente ridimensionata, dalla introduzione del “macchinismo informatico”, ma nel fatto che le merci devono comunque correre, devono girare per arrivare ai consumatori e realizzare in moneta il proprio valore e che, se non arrivano a farlo, è come se quel valore (e plusvalore) non fosse mai stato prodotto. Ecco allora che la scontro di classe si sposta (il capitale lo sa, i lavoratori nel loro complesso un po’ meno) negli ambiti della circolazione che sono: distribuzione, finanza e trasporto. Soprattutto nel trasporto di merci fisiche che devono essere pur tuttavia caricate e scaricate da personale umano sottopagato, eppure assolutamente strategico. Ecco l’elemento di rigidità materiale che ancora sopravvive: le merci fisiche, non le merci elettroniche che corrono per la rete automaticamente, vanno ancora trattate manualmente da lavoratori salariati che, se stoppano il loro lavoro, bloccano la valorizzazione complessiva del sistema, proprio allo stesso modo in cui l’operaio dell’officina Fiat, bloccando la propria catena di montaggio, interrompeva l’intera linea di produzione. Ma per capirlo bisogna prendere coscienza che il sistema capitalistico è un sistema di produzione, ma anche di circolazione e che la circolazione è altrettanto decisiva e strategica quanto la produzione. Così che quei lavoratori della logistica, come i “facchini” che protestano alla Granarolo, quei facchini assunti da false cooperative con salari da fame, possono arrivare a bloccare la circolazione del capitale alla stessa maniera in cui lo possono farle quegli autotrasportatori che, in quanto padroni del proprio mezzo di produzione, non sono direttamente assimilabili ai lavoratori salariati e che la sinistra considera con supponenza lasciando ad altri la gestione delle loro rivendicazioni economiche.

* Gattei insegna storia del pensiero economico ed analisi economica presso l'Università di Bologna. Nella sua ricerca si è occupato della teoria del valore, dei prezzi e della distribuzione e delle teorie dei cicli economici. Fra i suoi scritti più recenti ricordiamo “Storia del valore lavoro” (2011, Giappichelli editore).
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3806-giorgio-gattei-il-fascino-discreto-della-crisi-economica.html