la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
Al centro dell'iniziativa i prodotti WMP, tra i più richiesti dagli investitori retail.
ROMA (WSI) - La Cina ha lanciato una proposta che, se approvata, permetterebbe alle banche di investire i wealth management products
(WMP), tipologia specifica di prodotti finanziari di gestione
patrimoniale, in progetti per l'economia reale. Gli WMP, ha spiegato
tempo fa Stephen Green, responsabile della divisione di ricerca per la
Cina presso Standard Chartered in Hong Kong, "legalmente non sono
depositi". Piuttosto, "sono prodotti di investimento che sono gestiti al
di fuori del bilancio dalle banche, e dunque c'è poca trasparenza su
dove i fondi vanno" e, di conseguenza, su cosa finanziano.
Tali prodotti sono probabilmente gli strumenti finanziari che stanno
crescendo molto più di altri in Cina: gli investitori retail che vanno
alla ricerca di rendimenti più elevati rispetto agli interessi che
vengono pagati sui loro conti di risparmio, stanno puntando sempre più
sugli WMP. Peccato che questi prodotti siano poco trasparenti e
soprattutto pericolosi, visto che possono esporre sia gli investitori
che le banche che li emettono a diversi tipi di rischio.
Proprio per quello Pechino vuole che tali prodotti escano allo scoperto,
e che vengano utilizzati per finanziare la crescita dell'economia
reale. Un altro obiettivo primario è quello di ridurre i costi di
accesso al credito da parte delle imprese.
E' innegale che dietro la norma ci sia però un desiderio della Cina di
scardinare le fondamenta del sistema bancario ombra: in questo modo
infatti, con gli investimenti diretti delle banche, verrebbe messo in
panchina il ruolo di tutti quegli hedge fund e società di brokeraggio a
cui gli stessi istituti ricorrono per finanziare clienti troppo
rischiosi, in affari che incontrerebbero diversi ostacoli normativi.
Proprio questi prodotti WMP, infatti, il cui valore era calcolato a
$2.100 miliardi a giugno, hanno sostenuto il sistema bancario ombra
cinese. (Lna)
Disoccupazione in calo - In Europa l'Ungheria è leader nella crescita occupazionale
Disoccupazione in calo: In Europa l'Ungheria conquista il primato per la crescita dell'occupazione!
Tra
i paesi dell’Unione l’ Ungheria nel secondo trimestre dell’anno 2014
ha avuto la crescita piú notevole dell’occupazione, pari a 3,1 %,
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. I dati si basano sulle
ultime ricerche fatte dall’Eurostat.
Questa crescita supera
quattro volte la crescita media dell’Unione. L’Ungheria quindi e leader
per quanto riguarda l’aumento dell’occupazione negli ultimi due
trimestri.
Secondo la comunicazione dell’Eurostat, rispetto
all’anno scorso l’occupazione e in crescita in 18 paesi, solo 5 paesi
hanno ancora il problema della crescente disoccupazione. La crescita media dei 28 paesi dell’Unione e del 0,7%, nella zona Euro pero e soltanto 0,4%.
Dopo
il 3,1% dell’Ungheria segue l’Inghilterra con 2,7% mentre Malta prende
il terzo posto con 2,6%. E comunque una differenza notevole tra
l’Ungheria e gli altri paesi membri, di cui siamo molto orgogliosi.
Probabilmente
dietro i numeri si nascondono diverse misure adottate per favorire
l'occupazione. Alcune di queste riguardano la tutela dei posti di lavoro
(sono state previste indennitá di contributo ed è stato avviato il
programma "Maternitá Extra" in base al quale da quest’anno le giovani
mamme possono lavorare pur essendo in maternitá). Il presente articolo é a cura dell’Avv. ssa Boglar Szervatiusz – Studio Legale Lajos – www.studiolegale.hu
Pensare a lungo termine: una questione di responsabilità per Aberdeen
Redazione Finanza
5 dicembre 2014 - 14:49
MILANO (Finanza.com)
di Anne Richards, Chief Investment Officer di Aberdeen
Le
società, gli azionisti, i trader e i politici sono diventati sempre più
short-termist nel loro modo di pensare e, ancora più significativo, nel
loro modo di agire. Mentre il mercato si sta ancora riprendendo dai
tumultuosi eventi del credit crunch, si è intensificato il dibattito
sulla necessità di passare da una visione di breve termine a una visione
di lungo termine.
Il famoso esperimento dei marshmallow condotto
a Stanford nel 1960 (dove a dei ragazzini veniva proposto di scegliere
fra un marshmallow subito o due marshmallow dopo una breve attesa)
spiega molto del comportamento che spesso gli investitori assumono sui
mercati finanziari e mette in luce l’innata propensione dell’uomo a non
curarsi del futuro in favore di una ricompensa immediata.
Eppure,
per dirlo con le parole di Abraham Lincoln: "You cannot escape the
responsibility of tomorrow by evading it today”, ovvero: "Non si può sfuggire alle responsabilità del domani, trascurando il presente”.
Per esempio, la fuga di capitali dai mercati azionari dei paesi
emergenti che si è verificata nel primo trimestre del 2014 dimostra
quanto rapidamente un’asset class può perdere terreno per colpa di una
sottoperformance di breve termine. Fattori quali il tapering
statunitense e il rallentamento della crescita cinese hanno portato
all’uscita di circa 40 miliardi di dollari USA dal mercato azionario
emergente da inizio 2014, ad opera sia di investitori istituzionali che
di investitori retail, e più o meno la stessa cifra è uscita anche dai
mercati obbligazionari. Eppure i tassi di incremento dei salari in Cina
sono positivi e suggeriscono un trend di crescita economica stabile del
paese, incentrato più sui consumi che sugli investimenti. Sul lungo
termine, questi solidi progressi costituiranno un beneficio per i paesi
emergenti, anche se nell’immediato, nell’assenza di un rapido e
tangibile guadagno, molti investitori hanno optato per la fuga verso
investimenti percepiti come maggiormente sicuri. Questo è uno dei temi che affligge oggi i mercati: gli investitori sono troppo reattivi.
C’è
una diffusa attitudine a comprare sulla base dei rumors invece che dei
fatti. Sia sui mercati azionari che obbligazionari, la tendenza ad
affidarsi a catalizzatori di rapidi guadagni come dollari a buon mercato
o le speranze di una riforma elettorale (per esempio in India)
piuttosto che considerare i solidi fondamentali di un paese (per esempio
un trend demografico positivo o finanze pubbliche in buono stato) non
solo allontana la possibilità di ottenere interessanti rendimenti di
lungo termine, ma può avere un impatto negativo sui rendimenti nel loro
complesso. Si consideri ad esempio il debito dei mercati emergenti.
I
disavanzi nei saldi delle partite correnti di molte economie emergenti
hanno scoraggiato già dal 2013 diversi investitori a prendere posizioni
in questo segmento. Tuttavia, gli esperti di obbligazioni sanno che le
economie nazionali possono sopportare un certo livello di deficit,
fintato che esso si dimostra sostenibile.
Quando si tratta di
saldo delle partite correnti, i paesi emergenti possono vivere
comodamente con deficit moderati, soprattutto se sono supportati da
fonti di finanziamento stabili e forti economics sottostanti. La
sensazione è che, fin troppo spesso, la tenuta di un paese, o di una
società, non interessi poi tanto chi investe, il cui principale focus è
il "qui e ora”.
Aberdeen ritiene che quando si guarda ai mercati,
a meno che non via sia un motivo urgente per rivolere il proprio
capitale subito, l’investitore dovrebbe abituarsi a pensare a lungo termine e non cadere nella trappola dei rumors quotidiani.
A nostro parere, il trading di breve termine e gli esuberanti tentativi
di anticipare il mercato sono pieni di insidie, e dunque resistere agli
episodi di volatilità, anche se può costare fatica, al fine di
raccogliere i risultati sul lungo termine, appare la scelta più sensata
per chi vuole ottenere un solido ritorno dai propri investimenti.
Successi economici e sociali nella Bolivia di Evo Morales
dicembre 06
08:56
2014
- di Luca Caselli -
Il fallimento della
dottrina neoliberista, imposta in America Latina nell’ambito del
cosiddetto Consenso di Washington, ha reso necessario un nuovo modello
politico economico e sociale autoctono, in grado di creare crescita,
riducendo le disuguaglianze rimarcate dal liberismo. Il sogno del socialismo del secolo XXI, così
definito da Hugo Chávez, nasce da questa esigenza e lo vediamo
realizzato oggi, dal suo amico Evo Morales in Bolivia, che ha fatto del
Paese andino un modello per tutta l’America Latina.
Il decennio più cupo della
storia contemporanea boliviana fu senza dubbio quello in cui si verificò
la “conversione” della Bolivia al libero mercato, quegli anni ’80
durante i quali economia e stato sociale subirono un duro smantellamento
grazie alla “shock therapy” imposta dagli uomini del Fondo Monetario
Internazionale e dall’ex Presidente Víctor Paz Estenssoro (in carica nel
periodo 1985-1989). Il governo sud americano, abbracciando la dottrina
economica di Milton Friedman della scuola di Chicago, con il pretesto di
combattere l’inflazione galoppante, inasprì le tasse e contestualmente
annullò i diritti dei lavoratori congelandone i salari. Anche nelle
legislature successive, Zamora (1989-1993) e Gonzalo “El gringo” Sánchez
de Lozada (1993-1997), entrambi orbitanti attorno agli interessi di
Stati Uniti e Banca Mondiale, proseguirono il programma di riforme ultra
liberiste, diffondendo povertà e malessere in tutta la nazione. Nel
processo riformista, in particolare la svendita delle aziende di Stato
fornitrici di elettricità, gas, petrolio e trasporti ebbe conseguenze
drammatiche, non solo per l’aumento del costo dei servizi ma soprattutto
per la disoccupazione che ne derivò, specialmente nel settore
minerario. Molti minatori non più occupati si ricollocarono nelle
piantagioni di coca, ma questo non piacque al governo che colpì
duramente i cocalero, su input degli Stati Uniti, per impedire
che i sempre più numerosi coltivatori accrescessero l’afflusso di droga
verso gli USA.
L’ASCESA DI MORALES
In questo periodo di dominio
del pensiero economico neoliberista, la percentuale di popolazione
rurale che viveva in estrema povertà salì da meno di due terzi nel 1997 a
più di tre quarti nel 2002; il malcontento che ne conseguì deflagrò in
più di 800 manifestazioni di massa1.
La rabbia della popolazione
cresceva di anno in anno, ma gli Stati Uniti avevano il pieno controllo
della politica boliviana: nonostante i numerosi moti di protesta
infatti, i fantocci americani continuarono a susseguirsi alla presidenza
dello Stato andino. Solo durante la presidenza Hugo Banzer (1997
-2001), la popolazione rivoltosa suggellò una prima grande vittoria
nella “guerra dell’acqua”, che costrinse il presidente a fare
dietrofront sulla privatizzazione del servizio idrico, operazione
imposta dalla Banca Mondiale che fece triplicare il prezzo dell’acqua
potabile impedendone l’accesso ad una vasta fetta di popolazione (basti
pensare che addirittura la raccolta di acqua piovana era soggetta a
licenza!).
Dalle agitazioni popolari
emerse la figura del sindacalista Evo Morales; ostacolato in tutti i
modi dall’ambasciatore statunitense Manuel Rocha, non riuscì a vincere
le elezioni presidenziali del 2002 contro la ricandidatura di Sánchez de
Lozada, ma sì affermò con El Movimiento al Socialismo come primo partito dell’opposizione.
Morales, dirigendo anche il Coordinamento in difesa del Gas,
dopo aver sostenuto la battaglia per l’acqua pubblica, contribuì in
modo decisivo alla protesta contro la svendita delle risorse nazionali
alle imprese transnazionali. La “guerra del gas” che seguì, costrinse
Sánchez de Lozada a riparare a Miami dopo le sanguinose repressioni ai
danni dei manifestanti. Al Presidente fuggitivo subentrò il suo vice,
Carlos Mesa, che diede continuità ai programmi di austerità e
privatizzazione imposti dal FMI. Dopo due anni di lotte e sotto la
pressione di milioni di persone in rivolta, Mesa rassegnò le dimissioni,
aprendo la strada alle elezioni vinte nel 2005 con ampia maggioranza da
Evo Morales.
DAL LIBERO MERCATO ALL’ECONOMIA MISTA
Con l’elezione di Evo Morales
il Paese intraprese una importante transizione verso l’economia mista,
segnando una profonda rottura con le politiche liberiste del passato. La
nuova leadership, puntò fortemente sulla riappropriazione delle aziende
operanti nei settori chiave dell’economia e su importanti programmi
sociali per lo sradicamento della povertà. La ri-nazionalizzazione
coinvolse il settore delle telecomunicazioni, la produzione di
elettricità, le miniere di stagno e zinco. Già nel 2006, lo Stato
riprese il controllo dei giacimenti di gas naturale, degli oleodotti e
delle raffinerie attraverso l’azienda statale YPFB. Tale operazione
interruppe il saccheggio delle materie prime perpetrato da potenze
straniere e garantì alla Bolivia l’80% degli utili derivanti da questo
comparto, quando in precedenza oscillavano invece tra il 18% e il 50%2.
Come ha fatto recentemente notare il ministro degli idrocarburi Juan
Jose Sosa: “Sette anni prima della nazionalizzazione, dal 1999 al 2005,
lo Stato ha ricevuto circa 2 miliardi di dollari. Dopo questi sette
anni, ne ha ricevuti più di 16”. Il gas è una risorsa chiave per la
nazione: ad oggi, la vendita di gas è la principale fonte dei ricavi
pubblici, rappresentando il 50% dei flussi in entrata (nel 2002 era
appena il 7%).
Il PIL pro capite della
Bolivia è raddoppiato da quando Morales è entrato in carica, passando da
1.182 dollari nel 2006 a 2.238 nel 2012. La crescita del PIL, in questo
periodo, è stato in media del 5 per cento l’anno e la stima per il 2014
è previsto attorno al 5,5% (il più alto dell’America Latina dopo
Panama). Anche il FMI non ha potuto esimersi dal lodare la politica
monetaria. Nonostante il leader abbia rigettato più volte i diktat
provenienti dall’istituzione internazionale, i tecnici hanno dovuto
riconoscere la solidità finanziaria del Paese che, in proporzione,
custodisce riserve monetarie in valuta più di qualsiasi altra nazione,
mettendola al sicuro da eventuali shock esterni.
Grafico n.1 – Prodotto Interno Lordo
IL LEGAME TRA CRESCITA ECONOMICA E CONQUISTE SOCIALI
L’attuale crescita economica
della Bolivia è garantita anche dalle mutate alleanze strategiche.
Abbandonata l’influenza di Washington, infatti, si è favorito l’afflusso
di capitali dai BRICS, concentrati in particolare per gli investimenti
nel settore energetico e delle infrastrutture. Il programma per queste
ultime, come quello per le riforme sociali per la riduzione della
povertà e per l’estensione dei servizi educativi, sono state poste al
centro dell’attenzione politica dalle modifiche della costituzione
proposte dal Presidente Morales e confermate tramite referendum dalla
popolazione nel 2009 (con affluenza superiore al 90%).
I detrattori dell’attuale
Presidente imputano i successi del Paese alla “fortunosa” crescita dei
prezzi delle materie prime e quindi alle maggiori entrate derivanti
dalle esportazioni. A ben guardare invece, a trainare l’economia del
Paese non sono state le esportazioni, bensì la rapida crescita della
domanda interna derivante dalla riduzione delle disuguaglianze di
reddito e dallo sradicamento della povertà. Dal 2002 ad oggi, secondo la
stima delle Nazioni Unite, la percentuale di popolazione che vive in
povertà si è ridotta da due terzi a meno di un terzo. Questo enorme
risultato è conseguenza del drastico calo della disoccupazione, il cui
tasso oggi si aggira attorno ad un fisiologico 3%, quello che sui libri
di scuola viene definita “piena occupazione”. Le migliori condizioni di
vita hanno accresciuto fortemente i consumi, dando nuova linfa
all’economia domestica.
Nella transizione verso il Socialismo del XXI secolo i
boliviani hanno goduto non solo di un salario minimo quadruplicato, ma
anche di benefici indiretti derivanti dalla politica delle
nazionalizzazioni: a mano a mano che le casse dello Stato si riempivano,
la spesa pubblica per sanità e istruzione aumentava. Grazie a questo,
oltre il 30% della popolazione, oggi, può beneficiare di contributi
economici per la sicurezza sociale, destinati ad esempio a donne in
gravidanza, famiglie con studenti e pensionati3.
LE ONG GUIDATE DA WASHINGTON MINACCIANO IL PAESE
La vittoriosa strategia
economica del Presidente Morales, confermata dalla rielezione dello
scorso ottobre (per il terzo mandato consecutivo), è strettamente
connessa ai grandi risultati conseguiti in termini sociali. La
scolarizzazione diffusa, la definitiva sconfitta dell’analfabetismo ed
il miglioramento delle condizioni di vita non sarebbero stati possibili
senza riacquisizione della piena sovranità nazionale ed emarginazione
degli interessi economici stranieri. I mezzi limitati, l’avversità dei
media locali (ancora oggi controllati per la maggior parte dalla destra
filo-americana), gli interessi delle multinazionali, hanno infatti
rallentato ed intralciato, ma mai interrotto, la consacrazione di Evo
Morales, sostenuta dai campesinos e dal popolo; quel popolo che per la prima volta ha portato alla Presidenza della Bolivia un indigeno.
Le mire straniera sul Paese
andino purtroppo non sono sopite, e lo dimostrano i due golpe ai danni
del Presidente eletto, fortunatamente falliti; non è bastata
l’espulsione dell’ambasciatore statunitense, infatti, per far cessare le
cospirazioni. Gli interessi statunitensi oggi non si nascondono solo
dietro destra politica e media locali, ma si celano alle spalle
delle ONG e dei movimenti ambientalisti che cercano di strumentalizzare
una minoranza di indigeni, che si oppongono alla costruzione di strade e
grandi opere, per cercare uno scontro civile. Sinora però, i tentativi
di creare disordine per riconsegnare il Paese agli avvoltoi a stelle e
strisce si sono rivelati vani, vista l’ampia e, come confermano i dati,
giustificata popolarità del Presidente Evo Morales.
Arriva la risposta del MEF all'interrogazione presentata da Daniele Pesco (M5S)
E il Governo conferma: con i derivati, oggi perderemmo 34,4 mld
Una risposta firmata dal Ministero
dell'Economia, ma «nessuno del MEF si è degnato di venire in aula»,
fanno sapere i Cinque Stelle. Che, dopo la lettura del documento
presentato, confermano una linea dura sulla questione dei derivati, che
il Governo continuerà ad utilizzare per la «gestione del debito»,
nonostante un valore negativo di mercato, ad oggi, di quasi 35 miliardi
di euro
Il valore dei derivati fino ad ora sottoscritti dallo Stato ammonta a 161 miliardi di euro.
ROMA - E' pervenuta oggi la risposta del
Ministero dell'Economia all'interpellanza urgente presentata, tra gli
altri, dall'Onorevole Daniele Pesco (M5S), sulla possibilità, prevista
dalla legge di stabilità, di stringere garanzie bilaterali sui derivati
con le banche. Una risposta, fa sapere l'ufficio stampa del Movimento
Cinque Stelle, portata in aula non da un esponente del MEF, bensì dal
Sottosegretario al Lavoro Massimo Cassano, interpretata non come "sgarbo
istituzionale, ma, almeno", come «sottovalutazione di un problema sentito». SE I CONTRATTI SCADESSERO OGGI, PERDEREMMO PIU' DI 34 MLD - Il primo punto rilevante della risposta riguarda il passo secondo cui gli «accordi
di collateralizzazione consentiranno di realizzare nuove operazioni in
strumenti derivati funzionali alla gestione del debito»: questo
significa che si continueranno a stringere contratti derivati. Il
documento, inoltre, conferma un esborso netto, per i derivati nel 2013, «di poco superiore ai 3 miliardi". Cifra
ancora più allarmante, però, oltre a qui già noti 161 miliardi di
valore complessivo dei derivati sino ad ora sottoscritti dalla
Repubblica italiana, sono quei 34,4 miliardi di «valore di mercato», ovviamente in negativo. Questa cifra rappresenta cioè la perdita attuale a livello di mark to market,
ovvero quanto il Belpaese perderebbe se quei contratti scadessero oggi.
Certo, la risposta tiene a sottolineare che quella predita è soltanto
ipotetica, perchè influenzata dal valore straordinariamente basso dei
tassi di interesse rispetto alle condizione di mercato all’epoca della
stipula. Tuttavia, per l'ufficio stampa M5S, il dato rimane «molto preoccupante». L'ENTRATA NELL'EURO NON C'ENTRA - Altro punto
saliente della risposta, le ricostruzioni, realizzate dall'Eurostat,
delle vicende storiche che hanno portato, negli anni Novanta, il nostro
Paese a sottoscrivere molti contratti di questo tipo. Secca, è giunta la
smentita , da parte del MEF, sul fatto che questi swap siano
stati necessari a centrare il 3% di deficit-Pil per entrare nell’euro
nel 1997 – come da ipotesi degli interroganti –. Il disavanzo era
infatti, come per tutto il 1998, comunque al di sotto la soglia
prescritta. Insomma, i cinque stelle non si possono ritenere soddisfatti
da questa risposta. «La morale è che continuiamo a fare regali alle
banche private dopo i 7,5 miliardi della rivalutazione delle quote di
Bankitalia. Chi firmò negli anni ’90 questi contratti? Guarda caso alla direzione del Tesoro c’era Mario Draghi, poi
diventato managing director di Goldman Sachs, uno degli istituti che
ora si gioverà delle nostre garanzie. Le risorse della Repubblica – chiude il M5S Camera – andrebbero utilizzare per spesa sociale e investimenti produttivi, non per fare regali ai soliti noti».
“Un atto osceno in luogo pubblico”. Il M5S Stelle boccia senza mezzi termini il ddl, targato Confindustria: “Sbarcato
in questi giorni alla commissione Attività produttive del’Ars che, con
la prossima Finanziaria – scrive il movimento – mira praticamente a
“regalare” l’acqua minerale alle multinazionali”.
Il disegno di legge, abbondantemente,
annunciato nei giorni scorsi, azzera l’attuale canone, ne prevede uno di
30 centesimi a metro cubo per l’acqua imbottigliata, uno di 20
centesimi per l’acqua “non imbottigliata ma comunque utilizzata” e
nessuno per quella “non imbottigliata e non utilizzata”.
Si tratta di tariffe nettamente più basse di quelle attualmente in vigore,
da quando, cioè, il M5S era riuscito ad inserire e a far approvare, con
la manovra finanziaria del 2013, un emendamento che innalzava i canoni
di estrazione delle acque minerali siciliane a 2 euro al metro cubo.
Quota che le multinazionali dell’acqua hanno maldigerito, palesandolo
più volte in tutte le audizioni richieste.
“E’ un argomento – fanno sapere i
deputati del M5S – sul quale non cederemo e daremo battaglia. Il disegno
di legge pervenuto in terza commissione equivale ad un ‘atto osceno in
luogo pubblico’, una proposta tanto irricevibile quanto irrispettosa dei
siciliani. Le logiche industriali, secondo le quali i costi si riducono
a fronte di un maggiore quantitativo prodotto non si possono applicare
all’acqua che è un bene essenziale e non è certo infinito”.
“Siamo disponibili a venire incontro alle esigenze delle piccole aziende siciliane che operano nel settore”,
dichiara la deputata Claudia La Rocca, “ma non siamo disposti a fare
regalie alle multinazionali dell’acqua. I nostri emendamenti al testo
andranno in questa direzione. Il canone va calcolato sull’acqua
estratta. Chi ne utilizza un quantitativo ridotto deve pagare meno, chi
invece sfrutta le nostre risorse deve pagarla senza sconti”.
“Abbiamo richiesto dati precisi
sull’acqua estratta ed imbottigliata”, aggiunge il deputato Matteo
Mangiacavallo, “ma non ce li hanno forniti. Quelli parziali di cui siamo
in possesso evidenziano come solo una parte dell’acqua estratta venga
imbottigliata. E l’altra che fine fa? La legge che esamineremo la
prossima settimana prevede costi irrisori se viene imbottigliata, ancora
meno se viene imbottigliata altrove, addirittura nulla se la disperdono
nei campi. Ci aiutino a capire cosa intendono per ‘acqua non
imbottigliata e diversamente utilizzata’ o ‘acqua non imbottigliata e
non utilizzata’, e ci spieghino meglio le loro ragioni, ma il M5S non
consentirà l’ennesimo oltraggio a danno dei Siciliani”.
Nel nuovo esecutivo di Kiev entrano un'americana,
un georgiano e un lettone, a capo di tre dicasteri chiave. Nasce il
contestato ministero dell'Informazione. Servono riforme e soldi.
Articolo originariamente pubblicato su Rassegna Est
[Carta di Laura Canali, clicca sull'immagine per ingrandire]
Natalia Jaresko, Alexander Kvitashvili e Aivaras Abramavicius:
un’americana, un georgiano e un lettone. Sono i membri stranieri del
nuovo governo di Kiev, varato martedì 2 dicembre. Li ha voluti il
presidente Petro Poroshenko, che ha concesso al terzetto la cittadinanza
dell’ex repubblica sovietica. Abramavicius e Jaresko, che vengono dal mondo degli
investimenti privati, sono andati a presiedere i ministeri dell’Economia
e delle Finanze. Kvitashvili s’è preso la Sanità, uno dei settori più
corrotti del paese. Il terzetto ricopre ruoli delicati e
importantissimi, dunque. Tanto che qualcuno, tenuto conto che
Abramavicius e la Jaresko provengono da paesi schierati senza indugi con
Kiev mentre Kvitashvili è stato ministro a Tbilisi ai tempi della
presidenza Saakashvili, considera che il governo sia eterodiretto.
Nel nuovo esecutivo ci saranno altri stranieri, a
quanto pare circa venticinque. Serviranno nei ministeri e sono stati
reclutati da rinomati cacciatori di teste internazionali. Il processo è
stato sostenuto finanziariamente dalla Reinassance Foundation,
organizzazione con sede a Kiev. Fa parte della costellazione di gruppi
patrocinati dalla Soros Foundation. I teorici del complottismo hanno
molto pane da mettere sotto i denti, quindi.
Poroshenko ha messo il timbro anche su un’altra novità,
a dire il vero molto contestata: la creazione di un ministero
dell’Informazione. È andato a Yuriy Stets, esponente del Blocco
Poroshenko, il partito presidenziale. Alle elezioni dello scorso ottobre
ha ottenuto la seconda piazza, scavalcato a sorpresa dal Fronte
popolare, formazione nata da una scissione consumatasi all’interno di
Patria, il partito di Yulia Tymoshenko. Arseniy Yatseniuk, primo
ministro uscente e rientrante, è stato confermato al vertice del
governo. Non poteva essere altrimenti.
La scelta dei posti che contano, in questo governo sostenuto da una coalizione a cinque che tiene dentro anche i partiti della Tymoshenko e di Oleg Lyashko,
nuovo campione del radicalismo nazionalista uscito ridimensionato dal
voto, riflette la volontà di lanciare al tempo stesso messaggi di
continuità e di rottura.
Il primo elemento è assicurato dal fatto che i
responsabili di Esteri, Interno e Difesa, Pavlo Klimkin, Stepan Poltorak
e Arsen Avakov, sono rimasti al loro posto. Mossa suggerita dalla
triplice necessità di negoziare a livello internazionale, gestire la
situazione al fronte e mantenere gli equilibri tra Forze armate e gruppi
volontari, la nuova cartina di tornasole dei rapporti tra l'autorità
centrale e i potentati oligarchici che armano i paramilitari.
Quanto alla rottura, il campo in cui teoricamente va
a dispiegarsi è l’economia. Kiev deve fare riforme incisive se intende
dare una scossa all’intera impalcatura economica, penalizzata da scarsa
redistribuzione (tutto è in mano agli oligarchi
e manca una vera classe media), corruzione cronica e apparati
produttivi inefficienti. Natalia Jaresko e Aivaras Abramavicius dovranno
dare una direzione all’economia che, nel frattempo, si sta sempre più sfasciando. Quest'anno andranno persi 7 punti di pil. La moneta è svalutatissima. Le riserve, quasi esaurite. I capitali, in fuga.
Oltre che di riforme, Kiev abbisogna di una montagna di soldi. Almeno una dozzina di miliardi di dollari in più, secondo il Financial Times,
rispetto a quelli finora messi in conto dal Fondo monetario e da altri
donatori internazionali. Pena il fallimento. Ma questi finanziamenti non
sono facili da garantire, proprio in virtù di uno scenario
fragilissimo, che non predispone a toccare i cordoni della borsa.
Si chiude con il ministero dell’Informazione.
Essendo in guerra, Kiev nutre l’esigenza di trattare le notizie. Il
fatto ha sollevato notevoli polemiche nella comunità giornalistica sia
perché la misura è stata discussa senza consultare la categoria, sia
perché si ritiene che la libertà di stampa resti imbrigliata, impedendo
al paese di fare su questo piano uno scatto in avanti rispetto alla poco
edificante epoca contrassegnata dal potere di Yanukovich.
L’istituzione del ministero dell’Informazione è
stata affiancata da un altro provvedimento recente che i giornalisti
hanno duramente criticato: la scorta obbligatoria a chi si reca al
fronte alla ricerca di notizie e di storie. Kiev dice che è una misura
temporanea, ma non ha precisato per quanto tempo resterà in vigore.
Per approfondire: L'Ucraina tra noi e Putin *Matteo Tacconi è coordinatore di Rassegna Est,
un sito che racconta e spiega l’Europa balcanica, centrale e
post-sovietica con una particolare attenzione alle vicende economiche. È
sia un’agenzia di giornalisti che forniscono i loro contributi a
varie testate, sia un portale di servizio indirizzato alle imprese
italiane, la cui presenza a Est è molto radicata.
BUDAPEST. – A Budapest esplode l’indignazione, in seguito alla
dichiarazione del senatore repubblicano, John McCain, che ha definito il
premier populista Viktor Orban “dittatore neofascista”. Il ministero
degli Esteri ha precettato l’incaricato d’affari americano Andre
Goodfriend (attualmente il più alto posto diplomatico a Budapest) per
chiedere spiegazioni e protestare. La crisi diplomatica fra Ungheria e
Usa, avviata con i veti americani che hanno colpito alcuni funzionari
governativi di Orban sull’ingresso nel paese, si acuisce. McCain, che è
stato il candidato repubblicano alla Casa Bianca contro Barack Obama,
aveva parlato in Senato in occasione del voto sulla nomina controversa
dell’ambasciatrice a Budapest Colleen Bell, una produttrice televisiva
senza alcuna esperienza diplomatica. “Abbiamo un paese che sta perdendo
la sovranità a favore di un dittatore neofascista che se la fa con
Putin, e noi gli mandiamo una produttrice televisiva”, ha detto fra
l’altro il senatore, noto per il suo parlar franco. Secondo il ministero
di Budapest, il senatore non conosce i fatti e deve scusarsi per le
parole inaccettabili. “Più rispetto per l’Ungheria e gli ungheresi, che
hanno espresso più volte il loro appoggio per il premier Orban”, ha
detto il ministro Peter Szijjarto. Ai giornalisti ungheresi che hanno
chiesto una replica a McCain, il senatore ha ripetuto le accuse, non
solo sue, ma anche dell’amministrazione di Washington contro il premier
Orban, criticando l’esercizio del potere in modo autoritario, il
controllo sui media e la giustizia, attacchi alle organizzazioni non
governative critiche con il potere, corruzione e appoggio a Mosca sulle
politiche energetiche. Le relazioni di Budapest con gli Stati uniti sono
al punto più basso di mai, sottolineano gli analisti. L’opposizione
democratica parla del fallimento totale della politica estera di Orban:
una guerra fredda con Washington, mentre l’abbandono del progetto South
Stream da parte di Mosca compromette la politica energetica seguita
finora del governo. (Peter Magyar/Ansa)
L'ECONOMISTA BORGHI AQUILINI: ''L'IMITAZIONE E' IL PIU' SINCERO DEI COMPLIMENTI: ANCHE FORZA ITALIA PER LA FLAT TAX BENE''
venerdì 5 dicembre 2014 MILANO
- "L'Imitazione e' il piu' sincero dei complimenti. Leggo che dopo mesi
che la Lega parla di Flat Tax oggi anche Forza Italia ha deciso di
presentarla come se fosse una sua invenzione. Benissimo perche' a noi
interessa che le cose vengano fatte e chiunque si accodi alle nostre
proposte e' benvenuto perche' aumenta le possibilita' di realizzarle".
Lo afferma Claudio Borghi Aquilini, responsabile economico della Lega Nord.
"Per amore di verita' - aggiunge - ricordo che quando nel '94 Antonio
Martino propose l'aliquota unica poi venne spostato da Berlusconi in un
ministero non economico e la promessa non venne mantenuta. Ricordo
anche che quando io insistevo con tale proposta scrivendo sulle pagine
da "il Giornale" il PDL la ignoro' nonostante fosse al governo".
"Adesso - prosegue il professor Borghi - pero' c'e' la Lega e Matteo
Salvini e il coraggio di fare le rivoluzioni non ci manca. Pero' siamo
persone serie e non facciamo slogan quindi invitiamo il Presidente
Berlusconi alla presentazione della nostra proposta di Flat Tax il 13
Dicembre a Milano"
"In questa occasione interverra' il vero inventore dell'aliquota
unica moderna, il Professor Alvin Rabushka, invitato insieme al Partito
Italia Nuova, con cui abbiamo studiato la proposta e che sara' da lui
ufficialmente certificata".
"Abbiamo deciso di lavorare - conclude Borghi Aquilini - con i
massimi esperti mondiali perche' sulle tasse non si scherza e gli
italiani sono stanchi di promesse non mantenute".
Redazione Milano
La parte russa non ha ricevuto
inviti ufficiali per la riunione dei ministri dei Paesi coinvolti nel
progetto "South Stream" che si svolgerà il prossimo 9 dicembre a
Bruxelles.
Lo ha rivelato a RIA Novosti una fonte informata sugli sviluppi riguardanti l'infrastruttura.
"A
quanto pare i ministri dei Paesi che partecipano al progetto "South
Stream" devono sviluppare la propria posizione su questo tema", -
ipotizza l'interlocutore.
Lunedì il presidente Vladimir
Putin aveva dichiarato che la Russia nelle circostanze attuali, tra cui
la posizione non costruttiva dell'Unione Europea, non avrebbe realizzato
"South Stream".
Le forniture di gas russo verso
l'Europa attraverso il gasdotto "Nord Stream" dall'inizio del 2014 hanno
superato i 30 miliardi di metri cubi, ovvero il 50% in più rispetto
allo stesso periodo del 2013, ha comunicato la compagnia russa Gazprom
dopo un incontro a Berlino tra il suo numero uno Alexey Miller e il
presidente del consiglio di amministrazione della società energetica
tedesca E.ON SE Johannes Tayssen.
Nell'incontro hanno discusso le questioni di
cooperazione nel settore del gas. Si è parlato di gas, nonché della
cooperazione nel settore della produzione e del trasporto.
"Nord Stream" è il gasdotto che collega la Russia e la Germania passando sotto il Mar Baltico.
La guerra del petrolio tra Iran, Israele e Arabia Saudita
Oggi più che mai le potenze mediorientali sono alla ricerca di un nuovo assetto regionale e di un dominio energetico. Mentre la guerra continua a infuriare
Due settimane prima del 24 novembre 2014, la data prevista per la sigla dell’accordo sul nucleare tra la Repubblica Islamica dell’Iran e i Paesi del P5 + 1 (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina più la Germania), i siti web vicini alle Guardie Rivoluzionarie islamiche dell’Iran (IRGC) hanno iniziato a riportare dati e commenti sulle funzionalità dell’unità missilistica dell’IRGC, e in particolare sulla capacità di questa unità militare di poter colpire e distruggere Israele.
In un accurato quanto preoccupante report, il Middle East Media Research Institute riporta affermazioni scioccanti sulla guerra mediatica contro Israele che, per quanto retorica e propagandistica, alimenta i timori e le diffidenze reciproche tra questi due Paesi.
“Abbiamo sviluppato missili con capacità balistica di 2.000 km e abbiamo dotato Hezbollah (il Partito di Dio, gruppo terroristico sciita libanese) con missili della capacità di 300 km che possono arrivare fino a Dimona. Le illusioni di Israele di sviluppare i giacimenti di gas naturale a largo del Mediterraneo saranno sepolti in mare insieme con il regime Sionista”. È questo il succo dei numerosi articoli e interviste comparsi un po’ ovunque sui media iraniani, che riportano anche dichiarazioni recenti dello stesso Ayatollah Ali Khamenei. Israele e il Bacino di Levante
Il riferimento è ai bacini offshore del Mar Mediterraneo Orientale, ossia quelli presenti nel tratto di mare compreso tra la costa orientale di Cipro e quella occidentale di Israele, che in parte intercetta anche le coste prospicienti la Striscia di Gaza.
Il cosiddetto Bacino di Levante, secondo la Energy Information Administration (EIA) statunitense, racchiuderebbe riserve di gas naturale stimate in oltre mille miliardi di metri cubi, capaci dunque di “alterare significativamente le dinamiche della fornitura di energia nella regione” in favore di Israele.
L’Iran, nonostante il volto buono della presidenza Rouhani, torna dunque a minacciare direttamente Israele perché vuole mantenere sotto la propria influenza, politica ma soprattutto economica, Paesi come Siria, Libano e la stessa Striscia di Gaza nel medio-lungo periodo. Mentre Israele ritiene che il Bacino del Levante potrà consentirgli una forza negoziale inattesa e inedita fino a pochi anni fa.
Ecco dunque che tutto, compresa anche la guerra o la sua sola minaccia, ruota ancora una volta intorno all’energia e al potere che da essa deriva, considerato che in una regione a tratti molto povera e sottosviluppata, l’approvvigionamento energetico è lo strumento privilegiato per un Paese che intenda prevalere nel Medio Oriente. La guerra del petrolio
Si spiegano anche così le tensioni del mercato petrolifero, sceso di recente sotto quota 70 dollari al barile per volere del cartello dei Paesi OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), che da sola garantisce il 40% del greggio prodotto nel mondo ed è dominato dall’Arabia Saudita. La scelta di non agire per modificare l’andamento del prezzo del greggio danneggia non poco numerose economie, su tutte quella russa e quella iraniana. Quest’ultima, in particolare, difetta per la eccessiva petro-dipendenza: Teheran dipende dagli idrocarburi per ben il 60% del proprio export e per una quota pari al 25% dell’intero Pil nazionale.
Ma tenere basso il prezzo di produzione del petrolio serve a mettere fuori mercato anche e soprattutto parte della nuova concorrenza occidentale, rallentando lo sviluppo di quella tecnologia nota come Shale Oil e Shale Gas, che già oggi consente agli Stati Uniti la quasi totale autosufficienza energetica e che Israele stesso vorrebbe utilizzare proprio nel Bacino del Levante. Le parti in lotta per la supremazia
Pur essendo gli interessi trasversali e difficilmente inquadrabili attraverso semplificazioni, possiamo tentare di segnalare alcune alleanze strategiche. L’Iran ha dalla sua Mosca, quella porzione di Siria dove ancora comanda Bashar Assad e i libanesi di Hezbollah, ma sta tentando anche di convincere gli Stati Uniti delle sue buone intenzioni (vedi gli accordi sul nucleare), allo scopo di isolare definitivamente Israele e far ripartire la propria economia. Per questo è pienamente coinvolta anche nella guerra contro lo Stato Islamico a fianco della coalizione internazionale. Inoltre, sostiene i movimenti sciiti e anti-sistema in Yemen e Bahrein.
L’Arabia Saudita, invece, è piuttosto indipendente e ha dalla sua anzitutto il petrolio e la fede sunnita, ragion per cui numerosi privati hanno “investito” ingenti risorse sui miliziani sunniti dello Stato Islamico, che oggi tengono in scacco parte del mercato petrolifero iracheno e tentano di azzerare il governo sciita della Siria, devastata da quasi quattro anni di guerra. Oltre a competere direttamente con Teheran per l’influenza sul resto del Medio Oriente.
Israele, invece, appare in seria difficoltà e non si fida né delle buone intenzioni di Teheran sul nucleare - le dichiarazioni delle Guardie Rivoluzionarie islamiche iraniane lo dimostrano una volta di più - né della strategia americana per il futuro del Medio Oriente.
Dunque, nella competizione per il dominio in Medio Oriente, dopo un Novecento controllato dalle forze imperiali europee e in seguito anche dal potere del dollaro, oggi s’intrecciano e si scontrano su più piani le volontà egemoniche dei pretendenti locali, protagonisti di una guerra regionale che si espande da Gaza fino a Mosul e che ha in agenda un redde rationem di cui oggi non è possibile prevedere l’esito, ma la cui escalation militare non è da escludere in assoluto. Con gli occhi dell’Occidente, è forse auspicabile un generale ridimensionamento delle aspirazioni egemoniche dei suddetti Stati. Che, va detto, è compito della diplomazia
Alessandro Maiorano,
dopo l’attacco all’espulso M5S Massimo Artini, non è rimasto con le mani
in mano e ha deciso di mettere a disposizione di alcuni giornalisti il
testo della sua denuncia contro Matteo Renzi per associazione a
delinquere (testo già noto, sostiene Maiorano, all’ex M5S Artini): un PDF di 50 pagine, nel quale spuntano anche i nomi dei renziani fedelissimi Marco Carrai e Giovanni Palumbo, quest’ultimo attuale capo della segreteria a Palazzo Chigi.
Maiorano è assistito dal noto avvocato Carlo Taormina e la denuncia contro l’ex sindaco di Firenze è molto fitta di date, numeri e dettagli. Da dove sono arrivati i soldi con cui Matteo Renzi
ha costruito la sua personale macchina di propaganda, la serie di
incontri alla ‘Leopolda’, quelle costosissime campagne elettorali
bisognose di una imponente organizzazione?
Con questa domanda inizia la denuncia di Alessandro Maiorano e Carlo Taormina, presentata in tribunale a Roma lo scorso 1° Agosto. Il testo è articolato in 9 paragrafi: si va da Florence Multimedia (9 milioni di euro per promuovere l’immagine di Renzi) a Genio Fiorentino (7,5 milioni), fino alla questione della casa in Via Alfani 8 (abitata da Renzi, ma con affitto pagato da Carrai) e alle fatture di Luigi Lusi.
Fra peculato, riciclaggio e corruzione, la denuncia contro il Presidente del Consiglio descrive un vero e proprio “Sistema Renzi”, tale da configurare un’associazione a delinquere nella quale sarebbero coinvolti anche Carrai e Palumbo.
La pressione fiscale in Italia ha raggiunto livelli allarmanti, attestandosi al 43,3% dall’anno scorso. Ma quali sono gli scenari che si profilano per il futuro? Secondo la Cgia di Mestre (l’associazione degli artigiani e delle piccole imprese) non è il caso di farsi troppe illusioni perché – ad eccezione dell’anno prossimo, durante il quale potremmo assistere a una lievissima flessione del carico fiscale – le cose potrebbero andare sempre peggio.
Già a partire dal 2016, anno in cui, stando alle previsioni della Cgia, la pressione fiscale potrebbe salire al 43,6%, se gli impegni presi dal governo Renzi in sede europea non verranno onorati. Si tratta di quel famoso vincolo con cui Bruxelles ha “caldamente consigliato” a Roma di frenare la spaventosa crescita del debito pubblico risparmiando una cifra più che impegnativa.
Nel dettaglio: nel 2016, il governo dovrebbe tagliare la spesa pubblica di 16,8 miliardi di euro, nel 2017 di 26,2 miliardi e nel 2018 di 28,9 miliardi. E se non dovesse farcela? L’Europa ha pensato anche a questo predisponendo un graduale aumento della tassazione che metterà l’Italia nelle condizioni di onorare gli impegni presi. A scapito, ovviamente, dei contribuenti che potrebbero vedersi aumentare l’aliquota Iva di 2 punti nel 2016, di un ulteriore punto nel 2017 e di mezzo punto ancora nel 2018. Non solo: a infierire sugli italiani potrebbe arrivare anche l’aumento delle accise sul carburante che, nell’ipotesi più sciagurata, scatterà dal 1° gennaio 2018. “Il nostro esecutivo – ha spiegato il presidente della Cgia, Giuseppe Bortolussi – si è impegnato a rispettare i vincoli richiesti da Bruxelles attraverso il taglio della spesa pubblica. Diversamente, scatteranno automaticamente gli aumenti di imposta che garantiranno comunque i saldi di bilancio. In altre parole, se il governo non riuscirà a tagliare gli sprechi e gli sperperi – ha messo in chiaro Bortolussi – a pagare il conto saranno, ancora una volta, gli italiani che subiranno l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti”.
Riforma pensioni 2015, pensione anticipata, referendum:
nuovo scontro tra la Lega Nord di Salvini e la Cisl di Furlan.
Prataviera (Lega) su riforma pensioni e referendum
Mentre Cgil e Uil sono pronte per lo sciopero generale
di venerdì 12 dicembre, la Cisl, dopo quattro giorni di mobilitazione
tra Roma, Napoli, Firenze e Milano, continua a cercare sulle modifiche
alla riforma Fornero il dialogo con il Governo Renzi sulla base di una
piattaforma di riforma pensioni che il sindacato
presenterà nel gennaio 2015 insieme alla proposta di riforma fiscale che
punta alla riduzione delle tasse. I sindacati sono spaccati pure sul referendum
per la cancellazione della riforma delle pensioni del Governo Monti
proposto dalla Lega Nord di Matteo Salvini. Da una parte la Cgil di
Susanna Camusso che ha detto sì al referendum che intende appoggiare
qualora la Consulta dovesse confermare l'indizione del quesito
referendario per la prossima primavera 2014. Dall'altra parte la Cisl di
Annamaria Furlan che ha detto no e che ieri è tornata a chiedere al
premier Matteo Renzi di rimettere mani sulla legge Fornero, prevedendo nuove forme di flessibilità in uscita e pensione anticipata anche per i lavoratori privati e non solo per gli impiegati pubblici.
Riforma pensioni 2015 e pensione anticipata, Lega Nord: perché la Cisl non appoggia referendum?
Un comportamento, quello della Cisl, criticato ieri dalla Lega Nord di Matteo Salvini.
"Spiace constatare - ha dichiarato in una nota stampa il capogruppo
della Lega Nord in commissione Lavoro alla Camera dei Deputati, Emanuele Prataviera - che la segretaria della Cisl Annamaria Furlan a parole si dice contraria alla riforma pensioni Fornero
ma nei fatti - ha proseguito il parlamentare leghista - si appella alla
vana speranza che il Governo Renzi faccia qualcosa per i lavoratori.
Perché la Cisl - è l'interrogativo posto dal deputato alla leader della
Cisl Annamaria Furlan - non appoggia l'unica iniziativa
concreta proposta finora per abolire veramente quella nefasta legge?
Purtroppo ancora una volta - secondo il capogruppo leghista in
commissione Lavoro a Montecitorio - il sindacato, che già tre anni fa
non si oppose a questo provvedimento, nega nuovamente ai cittadini la
possibilità di abolire la riforma pensioni Fornero tramite il referendum
promosso dalla Lega Nord".
Riforma pensioni e più flessibilità in uscita, Furlan: su legge Fornero non aspettiamo referendum Lega
Ecco, in sintesi, l'intervento della leader della Cisl
ieri dal palco della manifestazione di Sesto San Giovanni (Milano).
"Non aspettiamo il referendum della Lega Nord - ha detto Annamaria
Furlan - per dire che la riforma pensioni Fornero è la peggiore in
assoluto nella storia del paese''. Il segretario generale della Cisl ha
ribadito che il sindacato "bianco" intende "fare proposte sperando e
lottando perché il Governo e il Parlamento - ha sottolineato la
dirigente sindacale - cambino da subito la legge Fornero sulle pensioni". La proposta principale della Cisl sulla riforma pensioni 2015,
rilanciata in questi giorni di mobilitazione da Annamaria Furlan, è
quella che prevede nuove forme di flessibilità in uscita e nuove
possibilità di pensione anticipata per tutti i lavoratori. A proposito di lavoratori, "ognuno ha i suoi eroi", ha detto ieri la Furlan replicando al premier Matteo Renzi secondo il quale gli "eroi" di questi anni sono stati gli imprenditori. Gli "eroi" della Cisl sono i lavoratori che si sono battuti per tutelare il loro posto di lavoro e i pensionati che hanno aiutato i familiari in questi anni di crisi con le loro pensioni.
Per una volta il presidente della Bce Mario Draghi ha mostrato i muscoli, ricordando alla Stampa ed alla minoranza filotedesca che la Banca centrale europea può prendere decisioni a maggioranza. Il motivo del contendere è il Quantitative easing (QE) che con ogni probabilità la Bce lancerà nei primi mesi del 2015 – speriamo a gennaio.
L’obiettivo è il ritorno ad un po’ di inflazione, che il banchiere vorrebbe rilanciare con l’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario. Tra colore che hanno dato un appoggio incondizionato a Draghi c’è il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che ha appoggiato la mossa evidenziando quali potrebbero essere i rischi senza il QE.
“Se
si hanno variazione dei prezzi così basse o negative, le conseguenze
possono essere gravissime per le economie con un debito pubblico molto
alto, come l’Italia“. Insomma senza inflazione il debito pubblico
italiano sarebbe insostenibile, e quindi porterebbe forzatamente ad un
addio del nostro paese all’Euro.
Il governatore ha parlato del centenario della nascita di Federico Caffè. Per Visco, l’economia si sta muovendo verso un “periodo
di inflazione troppo basso per un periodo troppo lungo. Non c’è la
deflazione tout court bisogna stare molto attenti a questi andamenti. Se
si hanno variazioni di prezzi così basse ci possono essere conseguenze
gravissime in una economia con livelli di debito alti come l’Italia“.
Chiusura – e non poteva essere altrimenti – alle famigerate riforme “è
indubbio che le condizioni economiche dell’area euro non sono affatto
soddisfacenti. Serve creare un ambiente favorevole all’attività di
impresa: oggi quando si va a vedere quello che appare da noi illegalità e
corruzione si vede che è un ostacolo forte a creare ambiente in cui
prosperi il bisogno di innovare e il desiderio di intraprendere“.
Ansaldo Energia: Fsi perfeziona cessione del 40% a Shanghai Electric Corporation
(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 04 dic - Fondo Strategico
Italiano (Fsi) ha finalizzato l'operazione di cessione del
40% di Ansaldo Energia a Shanghai Electric Corporation,
leader mondiale nella produzione di macchinari per la
generazione di energia e attrezzature meccaniche. Lo
riferisce una nota precisando che la vendita, annunciata lo
scorso 8 maggio, si e' perfezionata con l'ottenimento delle
autorizzazioni governative e antitrust internazionali. A seguito dell'operazione, Fsi continuera' a detenere il
44,84% di Ansaldo Energia.
Lettera della Lega Nord ai parlamentari: "Iscriviti anche tu agli Amici di Putin"
Deputato del Carroccio
organizza un gruppo di supporto alla Russia per reagire "ai danni
economici dopo lo stop al gasdotto South Stream e sfatare le dicerie sul
regime: a Mosca wi-fi gratuito sulle metro". L'invito bipartisan
spedito a tutti. Sel denuncia: "Uguali a Le Pen"
di MICHELA SCACCHIOLI
La lettera inviata dal leghista Grimoldi ai parlamentari per aderire all'associazione 'Amici di Putin' ROMA -
"Uscire dall'empasse causato dall'irrigidimento delle posizioni" nei
confronti di Mosca. Reagire dinanzi agli ingenti danni causati
dall'embargo russo "innescato dall'assurda guerra economica che il
governo italiano ha ingaggiato col Cremlino". E, non da ultimo, "sfatare
le dicerie che montano riguardo alla Russia", tutt'altro che "matrigna
che controlla, monitora e blocca l'accesso alle informazioni".
Un po' come le parole pronunciate mesi fa da Matteo Salvini di ritorno dalla Corea del Nord (video), anche stavolta il messaggio arriva da una Lega in forte risalita
che stando agli ultimi sondaggi si piazza al terzo posto dopo Pd e M5s.
Una mossa politica che ha come obiettivo l'apertura totale alla Russia
di Vladimir Putin.
E' partita nei giorni scorsi, infatti, la campagna adesioni
all'intergruppo parlamentare 'Amici di Putin'. L'iniziativa è del
deputato leghista Paolo Grimoldi
e ha l'obiettivo di "contribuire a pacificare i rapporti, diplomatici,
politici ed economici" tra Italia e Cremlino, perché "le sanzioni e il recente stop al gasdotto South Stream stanno producendo danni incalcolabili alla nostra economia".
L'iniziativa, però, fa storcere il naso ad alcuni parlamentari: da Montecitorio a puntare il dito è il deputato di Sel, Franco Bordo,
che si è visto recapitare la lettera con l'invito alla sottoscrizione:
"Una lettera con argomentazioni che hanno dell'incredibile - è la
reazione -, insomma la Lega organizza un gruppo di supporto alla Russia,
contro le sanzioni della Ue, difendendo il regime di Putin portando ad
esempio il fatto che stanno costruendo la rete wifi nella metro. Non
contenti del successo del loro leader al congresso dei neofascisti del Front National in Francia, imitano in tutto e per tutto Le Pen e compagnia".
Nel documento spedito da Grimoldi, intanto, si legge nero su bianco:
"Da destra a sinistra in tanti vogliono dare un contributo alla
normalizzazione dei rapporti italo-russi - scrive il leghista -. E'
nostro dovere dare un contributo affinché si chiuda questa stagione di
contrasti, che non fanno altro che danneggiare la nostra economia, in un
momento già di per sé drammatico, causa crisi".
Nella messaggio,
inoltre, il deputato del Carroccio tenta anche "sfatare i troppi luoghi
comuni nati" attorno alla Federazione. "Il Cremlino ha dato il via
libera a un maxi-progetto per l'installazione della rete wi-fi gratuita
su tutte le metropolitane di Mosca, ne beneficeranno 7 milioni di
persone, ogni giorno. Questo fatto smonta la fantasiosa tesi di chi
dipinge la Federazione come una matrigna che controlla, monitora e
blocca l'accesso alle informazioni. E poi c'è chi parla di regime e di
limiti alla libertà d'espressione. La verità è che, oggi, accedere e
scambiare informazioni è più facile in Russia che in Italia, grazie agli
investimenti voluti proprio dal governo".