la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
Con la Fed della Yellen ormai siamo a livello
“Barbara D’Urso”, si fanno i sondaggi, si stabilisce ciò che “il
mercato” vuol sentirsi dire ed ecco che “magicamente” sul comunicato del
FOMC appaiono proprio quelle parole.
Ed il mercato festeggia!!!
Ciò che vi chiedo è di non dare alcuna rilevanza ai “media
autorevoli” che vi parleranno del cambio della “forward guidance” al
solito per “non far capire” si usa la terminologia anglosassone, vediamo
invece in soldoni cosa sta accadendo.
Ormai più di sei anni fa, per la prima volta nella storia degli stati
Uniti d’America, la Federal Reserve portava i tassi a zero! Una
decisione scioccante presa per contrastare una crisi potenzialmente
devastante che aveva colpito il mercato finanziario, una crisi che si
doveva a scelte di politica economica insensate prese in buona parte
dalle passate Amministrazioni democratiche, Carter prima e, soprattutto,
Clinton poi.
I tassi a zero dovevano essere una soluzione strettamente temporanea,
infatti far scendere in tassi sotto un livello fisiologico equivale ad
una medicina che, come tutti i farmaci ha delle controindicazioni e
degli effetti collaterali per cui vanno assunti per il tempo
strettamente necessario affiché producano il loro effetto senza creare,
nel contempo, danni maggiori.
Sotto questo punto di vista il Giappone risulta un esempio emblematico.
Ebbene intanto occorre rimarcare che i tassi a zero che, ripeto,
erano una misura tanto drastica da non essere mai stata adottata in
precedenza, neppure nel ’29, equivalgono, tanto per proseguire con la
metafora farmacologica, ad una “dose da cavallo” da assumere per un
tempo molto limitato.
Ora, non solo a distanza di sei anni i tassi sono ancora a zero,
ossia continuiamo ad assumere “dosi da cavallo”, ma questa medicina si è
dimostrata “blanda” per cui per anni abbiamo aggiunto anche un altro
farmaco ancora più potente, il “Quantitative easing”.
Ebbene voi leggete su tutti i giornali ed alle televisioni che il QE è
terminato nello scorso mese di ottobre, ma ciò non corrisponde a
verità, la Fed si è limitata a non incrementare maggiormente la dose, ma
il mercato continua ad assumere il farmaco di “mantenimento”.
In pratica l’incredibile quantità di liquidità immessa negli anni del
Quantitative Easing, circola ancora ed alle naturali scadenze continua
ad essere rinnovata, da non dimenticare, poi, che se la Fed si è fermata
ad immetterne di nuova è semplicemente perché è stata sostituita dalla
Bank of Japan, ma quando si fermeranno i nipponici vedrete che comincerà
la Bce.
Insomma nel mercato globale gira una quantità stratosferica di
liquidità e, ciò che è ancor più preoccupante, continua ad aumentare
senza riuscire a far ripartire l’economia di vaste zone del pianeta.
Per questo motivo possiamo dire, senza possibilità di essere
smentiti, che: IL MERCATO E’ COMPLETAMENTE DROGATO e non riesce neppur
minimamente a tentare di disintossicarsi, anzi continua tutt’ora ad
aumentare le “dosi”.
Sapete cosa accade ai tossicodipendenti cronici se non iniziano perlomeno un percorso di cura? Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro http://www.finanzainchiaro.it/la-yellen-come-barbara-durso-la-fed-e-una-farsa.html
IL BUSINESS DEI LABORATORI DI ANALISI:
SVELATO IL PIANO SEGRETO DELLA REGIONE LAZIO
ECCO CHI CI GUADAGNERA' DALLA CRISI DI TUTTO IL SETTORE
Il 17 dicembre 2014 si è svolto il presidio dei laboratori di analisi
presso il palazzo della Giunta della Regione Lazio, al quale hanno
partecipato Gianluca Perilli e Davide Barillari.
Causa principale della protesta, la notizia che l'80% dei laboratori di
analisi, ovvero tutto quelli che non raggiungono 200.000 prestazioni
annue, dovranno chiudere nel 2015. La riduzione porterebbe ad un
oligopolio dei laboratori di grande dimensione, spesso di proprietà di
multinazionali, una riduzione dei servizi nel territorio laziale e la
perdita del lavoro per circa 8000 persone, tra indotto e personale dei
piccoli laboratori di analisi privati convenzionati con la regione.
Ursap Federlazio e Federbiologi hanno chiesto alla Regione Lazio di
esaminare la loro proposta di una "rete-contratto" che eviterebbe di
concentrare tutto il budget della Regione su pochi operatori, visto che
questa operazione di accentramento non causerà risparmio alcuno per la
regione.
Se non ci guadagna la Regione Lazio, allora chi ci guadagna ?
Due multinazionali estere private di sanità: SYNLAB (Germania) e LIFE
BRAIN (Austria) che da tempo stanno facendo da tempo offerte per
acquistare i piccoli laboratori di analisi del Lazio da tanti piccoli
imprenditori sommersi dai debiti.
La battaglia in difesa dei laboratori di analisi è la difesa del diritto
alla salute dei cittadini, quindi abbiamo depositato una mozione ed
alcune interrogazioni per affrontare in aula la questione e ci
riserviamo di realizzare accessi agli atti per verificare eventuali
conflitti di interesse.
La manifestazione per salvare i laboratori di analisi privati
#Sanità Perchè Zingaretti vuole uccidere i #laboratori di #analisi
privati? Forse perchè vuole svenderli a multinazionali estere? Guarda il video dell'intervista a Davide Barillari di ieri durante la manifestazione!
-------------------------------- SVENDITA LABORATORI ANALISI LAZIO: ecco le domande alle quali Zingaretti non rispondera' mai...
Alle scelte sconclusionate del fratellone di Montalbano ci siamo
abituati (vedi flop casette della salute e fallimento della spending
review).
La battaglia contro la svendita dei laboratori di analisi accreditati
del Lazio alle multinazionali estere SYNLAB e LIFE BRAIN e' importante
per difendere il diritto della salute dei cittadini.
E il M5S e' pronto a presentare interrogazioni e mozioni in aula per
affrontare una volta per tutte il problema, sfondando la pesante coltre
di silenzio di Zingaretti e dei suoi fedeli burocrati che stanno
attuando l'ennesima riforma al buio.
Queste le domande che porremo in aula al Presidente:
Come mai la regione ha sollecitato negli ultimi 2 anni ai laboratori
privati di fare formazione per i propri dipendenti e dotarsi di
strumentazione tecnologica all'avanguardia per poter avere
l'accreditamento regionale (quindi spingendo i privati a fare grossi
investimenti), e poi oggi svende tutto il settore ?
Come mai non esiste nessun documento ministeriale o della conferenza
stato-regioni che definisca il numero minimo di analisi o imponga
l'accorpamento ?
Quali sono i dati esatti dei risparmi che la Regione Lazio ipotizza dall'accorpamento dei laboratori di analisi ?
Come la Regione Lazio, in un momento di crisi economica, puo'
permettere la chiusura di attivita' imprenditoriali laziali, regalando
tutto in mano a due multinazionali private estere, per altro creando un
pericoloso monopolio che avra' come logica conseguenza un aumento dei
prezzi e uno strapotere di contrattazione che sbilancera' tutto il
settore?
Come mai ANISAP, una delle maggiori rappresentanze del settore dei laboratori, non dice nulla di tutta questa situazione ?
(Guarda caso molti membri del direttivo attuale, fra cui il
presidente di ANISAP, che dovrebbero rappresentare la maggioranza dei
laboratori di analisi, nei mesi scorsi hanno venduto proprio a queste
due multinazionali private i loro laboratori...e'una coincidenza ???)
E' possibile ipotizzare che ANISAP stia facendo pressione
direttamente negli uffici della regione lazio e abbia lavorato con i
dirigenti regionali a questa assurda "riforma" della rete dei laboratori
?
Altra coincidenza: come mai ad un fantomatico "tavolo tecnico" per
affrontare la situazione, e' stata invitata solo ANISAP e non
FEDERBIOLOGI (che propone una soluzione alternativa che preserva
l'indipendenza dei piccoli laboratori e salva i posti di lavoro) ?
Ma non e' finita.
La regione stessa, tramite un suo alto dirigente che sta gestendo la
trattativa per l'accorpamento dei laboratori, ammette che l'operazione
non viene fatta secondo buonsenso.
Ma deduciamo noi, per interessi prettamente politici e di convenienza economica (ma non per i cittadini)
Il MoVimento 5 Stelle chiede al presidente Zingaretti di esprimersi e
rispondere alle domande, scomode, dei cittadini che vedono un altro
servizio messo in svendita al miglior offerente.
''Altri duci'', una riflessione sui fascismi tra le due guerre
Estratto del libro di Marco Fraquelli: analisi di capitalismo e anti colonialismo.
19 Dicembre 2014
Dalla prefazione di Giorgio Galli del libro Altri duci. I fascismi europei tra le due guerre di Marco Fraquelli.
Altri duci è una panoramica storica sui fascismi europei unica
nel suo genere, almeno in lingua italiana (…) Dino Grandi (…) parlava
del fascismo come di un fenomeno nato dalla guerra e morto con la
guerra. In bibliografia viene segnalato il saggio di Marco Tarchi Il ruolo dei movimenti fascisti nella crisi delle democrazie europee tra le due guerre mondiali.
Queste due sintetiche rievocazioni del rapporto fondamentale tra
fascismo e guerra mi suggeriscono un approccio preliminare che, a mio
avviso, permette di collocare meglio Altri duci nell’analisi
della storia contemporanea. Se la corrente di pensiero storiografico
ancora prevalente continua a parlare di due guerre mondiali (…) una
tendenza minoritaria, che a me pare più convincente, ha introdotto, per
il periodo 1914-1945, la definizione di «Seconda guerra dei Trent’anni»
(…). La differenza nelle definizioni non sta tanto nel vedere una
continuità conflittuale dopo il 1918 e sino al 1939 (…) quanto nel
vedere una variazione di sequenze, inclusa la crisi del 1929 e sino a
quella attuale, per cui nel XX secolo non è cruciale la guerra civile
prima europea e poi mondiale, secondo la definizione di Ernst Nolte,
nella quale è dominante lo scontro tra fascismo e comunismo (…), bensì
la trasformazione del capitalismo settoriale nel capitalismo
globalizzato delle multinazionali, attraverso, appunto, la Seconda
guerra dei Trent’anni e la principale rivoluzione del secolo, che non è
quella comunista, ma quella anticolonialista. Secondo la valutazione
prevalente, il secolo breve comincia nel 1914 e si conclude nel 1989 con
l’abbattimento del muro di Berlino (….) Secondo l’altra sequenza, il
secolo comincia sempre nel 1914, ma si conclude, forse, con la crisi
iniziata nel 2007 e tuttora in corso, che vede il capitalismo
occidentale in difficoltà e l’emergere di una geopolitica planetaria con
protagonisti nati dalla rivoluzione anticolonialista (Russia, Cina,
India, Brasile, forse Sudafrica, oltre al mondo islamico risvegliato).
Qual è il senso di questa riflessione, in rapporto al libro di cui si
parla? Il fascismo è stato indubbiamente caratterizzato dall’opposizione
al comunismo. Sconfitto questo fascismo nel 1945, sconfitto anche il
comunismo nel 1989, la guerra civile (…) è una storia finita. Se invece
il fascismo è stato (…) un fenomeno più complesso, collocabile nella
storia del capitalismo e nella rivoluzione anticolonialista (…) allora
il modo di leggere il libro di Marco Fraquelli si presta a una
riflessione di grande attualità, per quello che (sono) il capitalismo e
la crisi della democrazia, alla quale il fascismo tentava di dare una
risposta (…) e che oggi darebbe origine (…) alla sfida dei populismi (…)
Il fatto che la più solida e rigorosa delle teorie critiche del
capitalismo (che solida e rigorosa rimane, pur se da essa è derivato
anche il fallimentare esperimento sovietico), quella di Marx e dei suoi
continuatori, sia stata alla base dell’espansione e del successo di
soggetti politici della sinistra (la socialdemocrazia prima e il
comunismo poi), ha sovente fatto dimenticare, nella storia delle idee,
che esistono anche teorie critiche del capitalismo fatte proprie dalla
cultura di destra, (…) Oggi siamo in presenza di una crisi (…) che
incrementa l’anticapitalismo di quello che viene definito come
populismo. Come vi siamo giunti? Siamo partiti da un altro trentennio,
quello tra la fine degli Anni 40 e la fine degli Anni 70 che la
storiografia, non solo di sinistra, definisce i «trenta gloriosi»,
durante i quali, politicamente caratterizzati dalla guerra fredda, e
punteggiati da conflitti caldi in Corea, Algeria, Vietnam (…), lo
sviluppo capitalistico si accompagnava con quello del welfare in Europa
(…). La svolta si espresse politicamente con le vittorie elettorali di
Margaret Thatcher e di Ronald Reagan (…), mentre il ritmo della
globalizzazione si faceva incalzante, anche con l’implosione dell’Impero
sovietico (1989-1992) (…) Lo spostamento in senso contrario
caratterizzava il trentennio successivo, sino alla crisi iniziata nel
2007/2008, mentre proseguivano le rivoluzioni anticolonialiste e mi
chiedevo, nei miei scritti di quel periodo, se sarebbe potuta perdurare
una situazione nella quale un quinto della popolazione del pianeta, il
cosiddetto primo mondo, avrebbe potuto continuare a utilizzarne
l’ottanta percento delle risorse, lasciandone solo il venti percento
agli altri quattro quinti. Dopo i due successivi trentenni, la risposta
sembra essere negativa: l’ascesa della Cina, dell’India, del Brasile,
del Sudafrica (…) paiono indicare che quell’abnorme squilibrio non viene
più accettato da chi ne era pesantemente svantaggiato, ed è in questo
quadro che il venir meno della prospettiva di un crescente livello di
vita, e anzi il delinearsi di un suo abbassamento, è alla radice
dell’affermarsi di tendenze dette populistiche (…) anche sulla base di
un anticapitalismo simile a quello che Marco Fraquelli registra nei
fascismi storici.
Il segretario della Lega Nord a Torino in visita nel quartiere
dell’ex Villaggio Olimpico dove vivono centinaia di migranti. Ma dopo il
caso Bologna niente scontri: «Qui per ascoltare»
ANSA
Il segretario della Lega Nord,
Matteo Salvini, durante la manifestazione contro l’occupazione abusiva
delle palazzine ex-Moi in via Giordano Bruno, Torino, 20
20/12/2014
Un «Matteo contro Matteo» in tv, possibilmente in “prime time”.
Questa la sfida che il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini,
lancia da Torino al presidente del Consiglio, Matteo Renzi. «Indignato»
per la Legge di Stabilità, per il voto notturno in Parlamento, per
«l’inutilità del semestre italiano», Salvini sceglie il palcoscenico
dell’ex Moi di Torino per lanciare il guanto di sfida.
Nel quartiere dell’ex Villaggio Olimpico oggi occupato da centinaia
di immigrati, evita per una volta di prendere di petto il tema
immigrazione. «Sono qui perché chiamato dai residenti, sono venuto a
vedere cosa succede», dice, evitando i toni espliciti che, in una
situazione analoga, avevano portato alle tensioni di Bologna. Si limita a
parlare di «Comune assente», ma evita con attenzione di alzare troppo i
toni. Intorno a lui e al segretario della Lega Nord Piemont Roberto
Cota, un quartiere blindato: decine di mezzi, centinaia di agenti delle
forze di polizia, a prevenire ogni possibile rischio. Ma la «visita» di
Salvini si svolge in un clima tranquillo: lui a fare il comizio in
piazza Galimberti, gli immigrati e i giovani dei centri sociali a tenere
a loro volta un loro presidio.
«I rifugiati, che sono una minima parte di quelli che sbarcano, hanno
tutto il diritto ad essere accolti con dignità - afferma - ma non
occupando abusivamente i palazzi». Tuttavia è davanti alle telecamere
(in particolare quelle di Sky) che Salvini riserva le frasi forti
sull’attualità politica: «Mi piacerebbe confrontarmi con Renzi in
diretta, in tv, magari proprio su Sky. Su tutto: tasse, pensioni,
immigrazione, conti pubblici. Sono disponibile a un confronto in tv. Mi
piacerebbe confrontarmi con lui sull’inutilità totale del suo semestre
europeo». «Perché - prosegue, riferendosi al voto in parlamento sulla
Legge di Stabilità - Renzi non è solo uno incapace a risolvere i
problemi, è uno pericoloso. Neanche nella peggior Unione Sovietica si è
visto votare alle cinque del mattino».
Il segretario della Lega si sente sempre più investito del ruolo di
«sfidante» e accetta di indossare i panni dell’ «altro Matteo». È in
questa chiave che ha deciso di avviare la nuova campagna al Sud.
Eliminando la parola «Lega» da ogni slogan, per sostituirla con un «Noi
con Salvini» scritto nei toni del giallo e del blu. «Il nostro progetto
piace così tanto che in sole 24 ore abbiamo già raccolto via web oltre
diecimila adesioni - dice -. Stiamo raccogliendo un sacco di adesioni,
gente nuova che si affaccia alla politica per la prima volta. Vogliamo
spalancare loro le porte. Ma sia chiaro, non siamo un raccoglitore di
riciclati: le richieste di adesione da parte di persone che arrivano
dalla politica saranno valutate caso per caso».
Per legittimarsi come potenziale leader del centrodestra, Salvini sa
di aver bisogno anche del Sud. Ma ora cerca anche un confronto diretto
in tv con Matteo Renzi. Un «faccia a faccia» che mediaticamente lo
legittimerebbe nel suo ruolo di sfidante. Lui al riguardo non ha dubbi:
«Nel 2015 abbiamo il dovere di prepararci a governare perché torneremo a
governare».
Onu: "Israele paghi 856,4 milioni di dollari al Libano per i danni della guerra del 2006 contro Hezbollah"
L'Assemblea Generale dell'Onu pretende che Tel Aviv paghi 856,4
milioni di dollari al Libano per la perdita di greggio causata dalle sue
forze armate
New York, 20 dicembre 2014 - Alimentando ulteriormente l'ostilità di Israele contro le Nazioni Unite, l'Assemblea
Generale dell'Onu pretende che Tel Aviv paghi 856,4 milioni di dollari
al Libano per la perdita di greggio causata dalle sue forze armate
durante la guerra dell'estate del 2006 contro le milizie sciite di Hezbollah.
La risoluzione, non vincolante come tutte le decisioni
dell'Assemblea, si riferisce ad un raid aereo in cui venne centrata una
petroliera che causò uno sversamento in mare di 15.000 tonnellate di
greggio, che inquinarono le coste libanesi.
L'analisi di Tino Oldani, già inviato speciale di Panorama, ora firma del quotidiano Italia Oggi
Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo
il commento di Tino Oldani apparso su Italia Oggi,il quotidiani diretto
da Pierluigi Magnaschi.
I tedeschi sono convinti che la Germania ha già pagato troppo per
aiutare i paesi in difficoltà dell’eurozona. Per questo dicono «nein» ad
altre iniziative europee che, a loro avviso, si configurano come aiuti
per i vicini spendaccioni, primo fra tutti il quantitative easing
proposto da Mario Draghi, presidente della Bce.
Contrastare ulteriori finanziamenti ai paesi cicala è diventato
addirittura il cavallo di battaglia di un partito tedesco euroscettico
(Alternative fur Deutschland), che sta erodendo consensi alla Cdu di
Angela Merkel. Per questo, la cancelliera non perde occasione per
bacchettare quei paesi, come la Francia e l’Italia, che, a suo avviso,
non fanno abbastanza per tenere i conti pubblici in ordine. A darle man
forte, oltre al ministro delle finanze, Wolfgang Schauble, uno dei più
solerti è il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato è
stato il suo principale consigliere economico.
In questo senso, la recente intervista di Weidmann a Repubblica
contiene alcune perle di ipocrisia politica che non devono passare sotto
silenzio. A suo dire, «se titoli sovrani di basso rating (come sono ora
quelli dell’Italia, ndr) venissero acquistati dalla Bce, rischi di
politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale,
aggirando governi e parlamenti». Per questo il «nein» di Weidmann al
quantitative easing di Draghi si configura anche come una lezioncina di
democrazia. Peccato che finora nessuno in Italia, governo e Banca
d’Italia compresi, abbia rispedito al mittente una simile accusa. Se in
Europa c’è un vero specialista nell’aggirare governi e parlamenti per
fare i propri interessi, questo paese è proprio la Germania.
Ciò è vero soprattutto nel settore finanziario, dove, pur di salvare
le proprie banche, che erano sull’orlo del fallimento a causa delle
folli speculazioni sui derivati, il governo della signora Merkel non ha
esitato a servirsi della Troika (Bce, Ue, Fmi) e dei suoi metodi
anti-democratici. Le devastazioni sociali compiute dalla Troika in
Irlanda, Spagna e Grecia, fatte con il pretesto dei conti pubblici fuori
posto, ma con l’obiettivo tacito di salvare proprio le grandi banche
tedesche e francesi, sono lì a dimostrarlo.
Premessa. A questi tre paesi, a partire dal 2000 (introduzione
dell’euro), le banche tedesche hanno elargito per anni ingenti prestiti,
impiegati per finanziare alcune grandi iniziative immobiliari, oltre
all’importazione massiccia di prodotti tedeschi. In questo modo, con una
tecnica chiamata «vendor financing», cioè prestando soldi agli
acquirenti delle sue esportazioni, la Germania si è autofinanziata in
parte il proprio miracolo economico. Ma nel 2008, allo scoppio della
crisi dei subprime, le banche tedesche si sono trovate troppo esposte
verso i paesi periferici dell’euro, ai quali avevano concesso crediti
per 900 miliardi di euro, somma superiore di 2,5 volte il loro stesso
capitale.
Come recuperare prestiti così ingenti, dopo che la crisi aveva
investito i debiti sovrani dei paesi periferici dell’euro? Come evitare
il fallimento? A conti fatti, la Troika è stata il grande alleato delle
banche tedesche: i suoi interventi sono stati infatti decisivi per il
loro salvataggio, mentre ben poco è rimasto ai paesi «aiutati». Anzi,
questi ultimi sono stati costretti a massacrare i loro cittadini con le
tasse e con il taglio drastico della spesa pubblica (che ha colpito
sanità, pensioni, stipendi e occupati nel pubblico impiego), pur di
restituire centinaia di miliardi alle banche tedesche.
I numeri parlano chiaro. L’Irlanda, a partire dal 2010, ha ricevuto
dalla Troika 67,5 miliardi di prestiti (soldi di tutti gli europei e non
solo dei tedeschi), a fronte dei quali ha poi trasferito 89,5 miliardi
al settore finanziario, dei quali 55,8 miliardi sono finiti alle banche
creditrici straniere, tutte tedesche e francesi. In Spagna, nel 2012, le
banche locali avevano un’esposizione verso le banche tedesche per 40
miliardi. Sommandoli al debito totale del paese verso le banche
tedesche, si arrivava a 100 miliardi. Per fare fronte a questi debiti,
la Spagna ha chiesto e ottenuto dalla Troika un prestito di 100
miliardi, in cambio di riforme drastiche. Un’operazione che la rivista
International Financing Review ha definito «un salvataggio nascosto
delle banche tedesche».
In Grecia, la gran parte dei 240 miliardi del «piano di salvataggio»
finanziato dalla Ue e dal Fmi è stato dirottato dalla Troika alle banche
creditrici, per lo più tedesche e francesi, per circa 160 miliardi.
Così il 77% degli aiuti ricevuti sono andati alle banche straniere,
mentre alla Grecia sono rimasti solo 46 miliardi per ridurre il proprio
debito pubblico, che tuttora ha un buco di 2,5 miliardi nonostante il
governo abbia pagato 34 miliardi di soli interessi sul debito, imponendo
sacrifici enormi alla popolazione. In pratica, come hanno rivelato i
verbali segreti di una riunione del Fmi pubblicati dal Wall Street
Journal, il salvataggio della Grecia «è stato concepito solo per salvare
i creditori», cioè le banche tedesche. Il tutto, riducendo governo e
parlamento greci a tappetini. Che ora Weidmann venga a dare lezioni di
democrazia è davvero il colmo!
TORINO. Tav: Virano contro Cantone su interdittive antimafia
19 dic 2014
Mario Virano
Torino
La
Tav fa litigare (seppure a distanza) anche coloro che “la vogliono”. E’
successo oggi tra il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, da un
lato, dall’altro il commissario di governo per la Tav, Mario Virano, e
la società Lyon Turin Ferroviaire, che si occupa del progetto di
realizzazione della sezione transfrontaliera della Torino Lione. Motivo del contendere, la possibilità di infiltrazioni mafiose negli appalti riguardanti l’opera. Cantone
oggi a Milano in un’audizione davanti alle commissioni Antimafia ed Expo
del Comune di Milano e Regione Lombardia ha detto: “quelli della
Torino-Lione saranno lavori in cui non ricorreranno interdittive
antimafia, perché sono in base al diritto francese dove non c’e’
interdittiva antimafia”. Secondo
Catone, rispetto all’Expo quello della Tav si profila come un “caso
anche più clamoroso” di grande opera in cui le aziende straniere non
possono essere sottoposte a controlli antimafia. Immediata, e
irritata, la replica del commissario di Governo Virano. “La
Torino-Lione sarà ‘crime free’ indipendentemente dalla collocazione
territoriale dei cantieri – ha dichiarato -. E’
concordato che sul lato italiano si applica integralmente la normativa
antimafia italiana, estendendola anche al lato francese”. Virano ha
tenuto a sottolineare che il nuovo regolamento dei contratti “fa proprie
tutte le cautele italiane, beneficiando anche dell’aggiornamento della
legislazione francese”. Non solo recepisce le direttive comunitarie in
materia, ma fa scattare tutte le interdittive specifiche. “Ricordo
che non appena Cantone si è insediato al vertice dell’Autorithy
anti-corruzione gli ho rappresentato la specificità
delle problematiche tra Italia e Francia in materia di antimafia,
trovando la sua viva attenzione sull’argomento”. ha aggiunto Virano. La Tav è
opera “garantita” dal punto di vista dei controlli messi in campo contro
eventuali infiltrazioni. Lo ha ribadito anche Ltf, che in serata ha
diffuso una nota a Torino: “Al 30 novembre 2014 sono state effettuate
dalla Prefettura di Torino 435 informative antimafia a società e imprese
collegate (anche in sub-appalto) che hanno fatto richiesta di lavorare
per Ltf. Di tutte le
richieste, quattro hanno ricevuto una ‘interdittiva’, pari allo 0,92%
del totale”. Ltf ha tenuto a sottolineare che “vengono regolarmente
applicate le più restrittive normative antimafia per tutti i lavori sul
territorio italiano”, e che “sono al vaglio diverse ipotesi per
estendere le norme anche in Francia e fare della Torino Lione un’opera
‘crime free’”.
Il primo gasdotto verso ovest
Nel 1992, la rete ucraina rappresentava l’unica via di esportazione del
gas russo verso i Paesi dell’Europa occidentale. Nei decenni successivi,
Gazprom, la più grande compagnia energetica russa, ha promosso la
realizzazione di infrastrutture alternative per diversificare le rotte e
ridurre la dipendenza dalla cooperazione dei governanti ucraini.
Attualmente sono operativi due grandi gasdotti alternativi diretti in Europa occidentale (Yamal-Europa e NordStream) e uno diretto in Turchia (Blue Stream).
Tuttavia la rete di trasporto ucraina rimane essenziale per l’UE al
fine di mantenere gli attuali livelli di importazione, anche se la
Russia può contare su una serie di rotte energetiche capaci di esportare
all’estero grandi – ma tuttora insufficienti – volumi di metano.
Tra i gasdotti in progetto di sviluppo
per far affluire il gas dalla Russia e dalla zona mediorientale
(Kazakistan/Turchia) vi è un gasdotto Trans-Adriatico, che
collegherà Grecia e Albania e per giungere in Italia sino a San Foca in
provincia di Lecce. Ci doveva essere in cantiere, ma per ora è stato
bloccato, anche un altro gasdotto (South Stream) destinato a
passare più a nord e a collegare Italia, Austria, Bulgaria, Ungheria,
Grecia e Serbia bypassando il territorio ucraino.
Tutto questo nuovo irraggiamento di
nuovi condotti si realizzando a gran velocità a causa del problema
Ucraino sorto agli inizi del corrente anno. La Germania da 2 anni ha già
un condotto privilegiato per nutrirsi energeticamente e ora toccherà a
numerose altre nazioni, le più dipendenti dal gasdotto ucraino per
approvvigionamento, visto che Putin minaccia “la chiusura dei rubinetti“
all’Ucraina e quindi da quel gasdotto immenso, uno dei più importanti a
livello mondiale, passeranno solo veleni politici insidiosi atti a
colpire l’Europa.
Ma quali paesi sarebbero più i colpiti se Putin chiudesse i rubinetti all’Ucraina?
Nel caso specifico dell’Ucraina, i principali destinatari del gas russo
in transito in Ucraina sono l’Italia – 24 Gmc (giga metri cubi) nel 2013
– e la Germania (11 Gmc). Si tratta rispettivamente del terzo e del
primo mercato del gas in Europa. Entrambi i Paesi hanno ampia capacità
di stoccaggio e un approvvigionamento diversificato: possono dunque
affrontare un’eventuale interruzione dei flussi in Ucraina ricorrendo ad
altri gasdotti: nel caso italiano il Transmed dall’Algeria e in quello tedesco il Nord Stream, sempre dalla Russia.
Austria e Cechia sono dipendenti dal gas
russo in transito dall’Ucraina per oltre il 50% dei propri consumi, ma
possono supplire a un’interruzione dei flussi grazie alle
interconnessioni con le reti tedesca e italiana e sono dunque
relativamente poco vulnerabili. Bulgaria, Ungheria, Slovacchia hanno
invece un alto livello di dipendenza dai flussi in transito in Ucraina e
al contempo non dispongono di alternative affidabili.
Il sotteso ricatto all’Europa
A farne le spese energetiche, in caso di interruzione delle forniture,
sarebbero proprio i Paesi dell’Europa orientale visto che l’Ucraina fa
leva sulla maggiore capacità di stoccaggio in grado di minimizzare
l’impatto sociale e il rischio che un prolungarsi delle interruzioni
porti a un blocco del riscaldamento durante i mesi più freddi con il
risultato, per i governanti ucraini, di costringere le controparti
europee a intervenire per evitare disagi o danni economici ai paesi
coinvolti.
Si tratterebbe di una tattica diretta a
ricevere sostegno finanziario e appoggio politico da parte dei Paesi UE
anche se in ogni caso resta inderogabile la necessità di collaborare con
Gazprom per ottenere i volumi necessari a soddisfare la domanda
interna, per mantenere un livello minimo di sostegno da parte della
popolazione.
Guerra tra compagnie del gas: uno scontro tra titani
Il principale fattore di rischio per la stabilità degli
approvvigionamenti europei di gas russo attraverso l’Ucraina deriva
dall’esposizione finanziaria di Naftogaz nei confronti di Gazprom.
Nell’ultimo decennio Gazprom ha progressivamente allineato i prezzi
pagati dagli acquirenti ucraini a quelli pagati dai clienti europei ma
il governo ucraino ha impedito a Naftogaz di alzare le tariffe. Si
suppone che siano tariffe tanto basse da essere inferiori ai prezzi di
importazione pagati da Naftogaz, che quindi rifornisce in perdita.
Inoltre, con il progressivo deterioramento della situazione politica, le
amministrazioni locali hanno in molti casi sospeso i pagamenti a
Naftogaz.
Le attività di Naftogaz sono
dunque deficitarie e l’azienda ha accumulato nel tempo un’ampia morosità
nei confronti di Gazprom. Tra il 2013 e il 2014 il debito di Naftogaz
nei confronti di Gazprom è salito a quasi 2 miliardi di dollari! Da
aprile i prezzi ucraini di Naftogaz dovrebbero riallinearsi a quelli
praticati all’Europa occidentale e tutto ciò potrebbe tradursi in una
forte perdita di consenso per il governo poiché secondo le prime stime
l’aumento sarebbe del 40% per i clienti residenziali o per le società
che si occupano di riscaldamento.
Sarà la primavera a svelarci se si
riscalderanno i rapporti tra Ucraina e Russia o se nonostante l’avvento
della bella stagione i ghiacci politici perenni resteranno ancora
intonsi.
Il
semestre di presidenza italiana in Europa si è concluso con un nulla di
fatto, anzi con un’ulteriore erosione del peso e degli interessi del
Paese. Era facile profetizzarlo vista la consistenza della governance in
Italia e il letale cortocircuito tra politica, affari e informazione
che in questo ultimo scorcio dell’anno dà un triste, deprimente e
dunque perfetto spettacolo di sé. Ma il fatto è che la banda di governo e
i suoi sicofanti non hanno ottenuto nulla perché non volevano ottenere
nulla, non solo perché impari al compito.
Dal vegliardo vibrante, ma non si sa quanto vivo, al giovane scout
rottamatore del pensiero articolato, la parola d’ordine è stata quella
di massacrare il lavoro e introdurre le condizione per un ulteriore calo
dei salari e dunque un aumento delle disuguaglianze reali. Il job act è
stato un inno alla cecità e a tesi ormai ammuffite, a convenienze
direttamente scritte da Confindustria, che poco o niente hanno a che
vedere con la logica economica, persino quella liberista, ma molto con
le finalità politiche che la troika si è data in quanto braccio secolare
della lotta di classe alla rovescia.
Pare strano che Juncker, nei rari momenti di lucidità lasciati dai
vini della Mosella, parli di spiacevoli conseguenze se non si fanno a
tamburo battente le famigerate riforme contro il welfare e le pensioni e
le stesse cose faccia intendere Draghi nonostante la marinatura in
vaselina dei suoi discorsi. Strano perché l’Ocse, che non è precisamente
un organo della terza internazionale, ha pubblicato pochi giorni fa uno studio
secondo il quale in vent’anni la crescita delle disuguaglianze
sociali ha causato una perdita di aumento del pil dell’8,5 per cento.
Dunque rilanciare la crescita significa ridurre la forbice
sociale, cambiando radicalmente strada rispetto a quelle riforme che
elimina tutele e welfare in nome di una competitività che assume
grotteschi tratti ottocenteschi e da padroni delle ferriere. Che
ripercorre la risibile favola dell’offerta che guida la domanda e
spinge a salvaguardare i solo i profitti in una spirale senza fine.
Strano perché la troika, nonostante questo (peraltro patrimonio di
buona parte della letteratura economica più recente, esperti dell’Fmi
compresi), continua sulla medesima strada come se nulla fosse,
dimostrando ancora una volta che il disegno perseguito è essenzialmente
politico, volto all’affossamento della democrazia reale. Del resto
l’economia finanziaria non sa che farsene della crescita, anzi la teme (
vedi qui
) e le interessa soltanto la possibilità di smantellare le capacità di
reazione sociale e la sostituzione della legittimità popolare con quella
aziendal -bancaria. Il Trattato transatlantico non è un capitolo di
questa visione che Rodotà ha sintetizzato come “cessione di sovranità
all’impresa”. Non dubito che la pochezza del ceto politico, non causa
del disastro democratico, ma effetto dell’egemonia culturale esercitata
dal pensiero unico, renda difficile la consapevolezza intellettuale di
ciò che si sta facendo e impossibile quella morale, producendo un
effetto zombi che è comico e tragico insieme. Le dimissioni del
vegliardo del colle aggrappato a Renzi che è aggrappato al patto del
Nazareno che è aggrappato al conflitto di interessi, disegnano una
piramide politica che ha l’odore penetrante della decomposizione. Il
paradosso è che questi necrofori nazionali ed europei sperano di seguire
i funerali dell’Italia come di altri Paesi per continuare a far parte
di una diffusa razza padrona di “illuminati”. Sarebbe ora di cominciare
a far loro le condoglianze e togliergli ogni dubbio sui vivi e sui
morti.
Matteo
Renzi il suo governo i suoi sostenitori in accordo con gli Eurocrati
con il job act lasciano in mano al mercato la soluzione di questo
problema http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2014/12/19/aumentano-i-poveri-6-milioni-in-italia_9ba992d5-efe4-4fcc-801e-2e2f5f6f0238.html
quando è lo Stato che ha il dovere Costituzionale di pensare alla
dignita del vivere dei proprio cittadini. Il mercato si difendera dai
poveri i quali minacciano i loro profitti rappresentando un costo
sociale.Lo Stato è complice nel dare tutele ai mercati ed alla loro
avida sete dí profitti e non a chi ne ha piu bisogno e non ha potere per
difendersi. Con questa politica del lavoro i poveri saranno ancora di
più emarginati lasciati in mano di opere caritatevoli e se non sono
sufficienti andranno incontro ad un destino di solitudine e morte. Lo
Stato ha il dovere di difendere i poveri mentre li abbandona o li
ghettizza con un miserevole sussidio che non gli consentirà mai di
rientrare pienamente nella quotidianita fatta di Lavoro e e dignità. Se
ci dovessero chiedere ma i governi Monti Letta Renzi cosa hanno
sbagliato la risposta è TUTTO!
Il governo ha cercato di tagliare i tempi e invece sulla legge di
Stabilità ha finito per incartarsi. Il Senato avrebbe dovuto votare
ieri mattina al più tardi la fiducia per passare la palla alla Camera,
che tra oggi e lunedì avrebbe chiuso definitivamente la pratica della
legge di bilancio, ed invece di rinvio in rinvio i senatori sono stati
chiamati al voto nel cuore della notte ingarbugliando il resto del
calendario parlamentare di fine anno, camera compresa.
Cosa è successo? Le colpe sono molte. La Commissione bilancio non è
riuscita a concludere i tempo i lavori ed in aula è arrivato un testo
«aperto», senza il tradizionale mandato al relatore. Per poter chiedere
la fiducia il governo ha così dovuto approntare un maxiemendamento e la
relativa relazione tecnica che ha richiesto più tempo del previsto in
seguito ad un nuovo rimpallo tra Palazzo Chigi, il Tesoro, la Ragioneria
dello Stato ed i tanti interessi in gioco. In questi ultimi giorni si è
infatti tornati alla vecchia pratica delle finanziarie di una volta, in
perfetto stile assalto alla diligenza. Con tanto di lobbisti che
affollavano i corridoi del Senato (a cominciare dal «re delle slot
machines» segnalato dai grillini), e deputati, «soprattutto quelli del
Pd» accusavano ieri dall’opposizione, che intasavano i lavori di
commissione con le loro richieste di modifica.
O di «marchette», come le hanno definite quasi all’unisono sia Renzi
sia i grillini. E’ chiaro che il governo è andato in tilt, mentre a
Palazzo Madama è andata in scena una commedia dell’assurdo con l’aula
convocata a ripetizione per votare sul nulla.
Misera conclusione per l’iter di una legge che partiva sotto i
migliori auspici: una stazza consistente, 36 miliardi poi scesi a 32,
ben 18 miliardi di riduzione delle tasse (dal bonus da 80 al taglio
dell’Irap), risorse aggiuntive per gli ammortizzatori sociali e una
significativa carica espansiva nei confronti dell’economia. Poi, in
corso d’opera, da un lato è stata infarcita di micronorme che nulla
avevano a che vedere col bilancio, come la proroga delle armi da scena
(per salvare le riprese romane del nuovo film di James Bond e altre
produzioni di cinema e tv), e dall’altro si è dovuti intervenire per
correggere una serie di norme, come il taglio dell’Irap (che penalizzava
le imprese senza dipendenti) o le nuove tasse su fondi pensione e casse
private (a cui alla fine è stato concesso un parziale credito di
imposta). Come se non bastasse poi per cercare di tacitare l’opinione
pubblica alle prese col salasso fiscale di fine anno, e per questo
comprensibilmente irritata, hanno pure inventato due disposizioni che
hanno il sapore della presa in giro: da un lato, anziché varare per
davvero la nuova «local tax» che almeno serviva a fare un po’ d’ordine,
si è deciso solamente che nel corso del 2015 le tasse sulla casa non
aumenteranno e dell’altro si è congelato a 113,5 euro il canone Rai.
Quello stesso canone che sino a qualche settimana fa doveva invece
finire in bolletta ed essere dimezzato.
E pensare che quando venne introdotta nel 2010 la legge di Stabilità
doveva servire esattamente ad evitare tutti questi pasticci. Mandando in
soffitta la pratica delle leggi finanziarie e le sue tante
degenerazioni, questo nuovo «strumento» doveva farsi carico
esclusivamente di regolare per tre anni la vita economica dell’Italia
coordinando e tenendo assieme politica di bilancio e norme di finanza
pubblica. Insomma tabelle e poco più, coi vari fabbisogni, i saldi, ecc.
E col divieto assoluto di infarcirla di norme ordinamentali di
qualsiasi tipo. Regola che nel giro di pochi anni è stata però
bellamente stravolta.
Legge di Stabilità, il Senato approva nella notte la fiducia sul maxiemendamento
(ansa)
Il testo
presentato dal ministro Boschi. Critiche dalle opposizioni: "Padoan
venga a riferire". E i sindacati si mobilitano contro i tagli alle
province previsti dalla legge di stabilità. Delrio: "Nessuno perderà il
posto". Marianna Madia: "Martedì incontro con le parti sociali"
ROMA - Solo
poco prima delle 5 arriva il via libera del Senato alla fiducia posta
dal governo sul maxiemendamento alla legge di Stabilità. I voti
favorevoli sono 162, i no 37, nessun astenuto. Tocca quindi a un breve
Consiglio dei ministri e ancora un voto al Senato per la Nota di
variazione al bilancio per concludere all'alba la lunga maratona del
voto.
Proteste accese dalle opposizioni, che accusano il governo
di aver presentato un testo pieno di errori. "Forza Italia abbandona
l'Aula e invita le altre opposizioni a fare altrettanto", annuncia il
capogruppo di Fi Paolo Romani, convinto che "non si sia nelle condizioni
di continuare". M5S chiede il rinvio in commissione del provvedimento e
alla fine non partecipa al voto: dura l'accusa di Giuseppe Vaccaro "ci
chiedete di votare Topolino",.
imprecisioni, discrasie, refusi vengono
riconosciuti dallo stesso viceministro all'Economia Enrico Morando: "Il
governo accetta e si scusa per gli errori commessi anche nella relazione
tecnica ma abbiamo cercato di rendere più leggibile il testo". Sotto
accusa infatti finisce il dossier che correda la manovra ma anche lo
stesso testo del maxiemendamento che, almeno in parte, viene rivisto
durante i lavori dell'Assemblea come spiega il presidente del Senato
Pietro Grasso: "si tratta - è la tesi - di drafting e la presidenza si
assume dunque la responsabilità di fare correzioni". Polemiche che fanno slittare di
qualche ora il via libera finale al testo, dopo la decisione del Governo
di porre la fiducia sul maxiemendamento
e della conferenza dei capigruppo del Senato di votare a oltranza
nella notte. La manovra torna così alla Camera dove l'ufficio di
presidenza della commissione Bilancio di Montecitorio deciderà l'ordine
dei lavori. Quello alla Camera, che sarà il terzo e l'ultimo passaggio,
si annuncia comunque come un esame lampo: già lunedì è atteso l'ok
finale ai documenti di bilancio.
Il maxiemendamento.
Tra le novità più importanti inserite nel passaggio parlamentare al
Senato ci sono: il blocco della Tasi e congelamento del canone Rai nel
2015, credito d'imposta Irap per gli autonomi, bonus per i fondi
pensione e per le casse di previdenza da utilizzare per gli
investimenti, anticipo della gara di aggiudicazione del gioco del Lotto e
nuove regole sulla tassazione, nuove regole sul patto di stabilità
interno per gli enti territoriali.
La questione province. Intanto, sindacati sul piede di guerra contro la legge di stabilità.
I sindacati sono pronti a continuare l'occupazione delle Province per
protesta, stando a quanto si legge in una nota. "Oggi la mobilitazione
si estende a tutte le Province italiane, e senza un intervento del
Governo, un passo indietro su provvedimenti dannosi e insensati, non si
fermerà", scrivono Rossana Dettori, Giovanni Faverin e Giovanni
Torluccio, Segretari Generali di Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Fpl. I sindacati
sottolineano il rischio di esuberi per 20mila lavoratori a tempo
indeterminato e del licenziamento per oltre 2mila precari e "i pesanti
tagli" previsti dalla legge di stabilità. E si attende per oggi il voto
sul maxi emendamento del governo.
La protesta dei sindacati.
"Chiediamo al Parlamento di evitare il peggio, alle Regioni di fare la
loro parte", prosegue il comunicato. I tagli, spiegano i leader
sindacali della P.a., "mettono a rischio il funzionamento dei servizi di
area vasta, dalla sicurezza scolastica alla tutela ambientale,
passando per la viabilità e le politiche attive sul lavoro. Una
mobilitazione cresciuta in queste settimane e che oggi raggiungerà il
suo apice in tutto il Paese, dopo le prime occupazioni di ieri".
"Chiediamo un riordino vero. Ma il Governo abbandoni certi toni. Ognuno
- concludono Dettori, Faverin e Torluccio - faccia la propria parte.
Ma senza un dialogo vero la mobilitazione continua".
Il governo: "Nessuno perderà il posto".
La replica del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, graziano
Delrio: "Il personale delle province non rimarrà per strada ma verrà
assorbito tramite blocco di tutte le assunzioni in tutte le
amministrazioni dello Stato e affini". Nel maxiemendamento alla legge di
stabilità, continua Delrio, ci sarà un "elemento di certezza e non
d'incertezza come qualcuno ha erroneamente sottolineato". Poi il tweet
di Marianna Madia: "Dipendenti province abbiate fiducia martedì ore 13
incontriamo con Lanzetta Cgil, Cisl e Uil per spiegare il percorso".
Nel periodo agosto-ottobre 2014 il numero dei disoccupati in
Ungheria ha toccato le 319mila unità, 114mila circa in meno rispetto
allo stesso periodo del 2013. Il tasso di disoccupazione è stato del
7,1%, -2,7% a confronto con l'agosto-ottobre 2013.
I dati sono stati resi pubblici oggi dall'Ufficio statistico centrale
magiaro (KSH), che ha al contempo annunciato un aumento del tasso di
occupazione nella fascia d'età 15-64, salito al 62,9% (+3,6% anno su
anno). Nel periodo agosto-ottobre 2014, infatti, sono stati 4,184
milioni gli ungheresi con un impiego, 192mila in più (+4,8%) rispetto
allo stesso periodo dell'anno precedente. Nella fascia d'età 15-64,
4,153 milioni di persone hanno un'occupazione. Secondo le statistiche
dell'Ufficio Nazionale di Collocamento, in Ungheria alla fine di ottobre
2014 il numero totale delle persone registrate in cerca di un lavoro
era di 395mila, -19,1% in confronto all'ottobre 2013.
Vorrei segnalare un libro che merita di essere letto. È lo splendido testo di Enrica Perucchetti e Gianluca Marletta, Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità” (Arianna, Bologna 2014).
Tutti dovrebbero leggerlo, per chiarirsi le idee intorno a uno dei problemi del nostro presente: l’orrida ideologia gender,
in nome della quale non esisterebbero più maschi e femmine, ma un
pulviscolo anonimo e senza nessi comunitari di individui atomistici unisex. In accordo con l’ideologia gender (da qualche tempo insegnata anche nelle scuole), uomini e donne non esisterebbe per natura, ma sarebbero (sic!) un prodotto sociale.
Come ben argomentato da Enrica Perucchetti e Gianluca Marletta, si sta
oggi diffondendo su scala planetaria l’immagine di un essere umano
ibrido, puramente funzionale al rito del consumo e dello scambio di
merci. A tal punto che sempre più spesso il semplice presupporre
l’esistenza di sessi differenti viene visto come atteggiamento
discriminatorio.
“Omofobia” è l’etichetta in voga con cui si mette a tacere chi osa
ancora pensare che esistano uomini e donne e che, pur essendo infiniti
gli orientamenti sessuali, due soltanto siano i sessi esistenti.
Condannati come omofobici, infatti, non sono soltanto coloro che usano
violenza (in questo caso, naturalmente, è giusta la piena condanna dei
violenti, come del resto è giusto condannare e punire ogni violenza), ma
anche quanti pensano che per natura i sessi esistenti siano due.
L’ideologia mondialista gender mira
alla creazione e all’esportazione di un nuovo modello antropologico,
pienamente funzionale al capitalismo dilagante: l’individuo senza
identità, isolato, infinitamente manipolabile, senza spessore culturale,
puro prodotto delle strategie della manipolazione. L’ideologia
mondialista gender – appoggiata da tutti i poteri forti – fa
ampio uso della “rielaborazione del linguaggio comune”: non si può più
dire sesso, ma solo genere; non si può più dire padre e madre, ma
genitore 1 e 2, ecc. Orwellianamente, la creazione della neolingua è
funzionale alla desertificazione del pensiero e alla possibilità di
immaginare realtà altre rispetto a quella propagandata dall’ordine
simbolico dominante.
Il libro è una vibrante e appassionata denuncia dell’ideologia mondialista gender;
una denuncia che si inscrive idealmente in una più ampia denuncia degli
errori e degli orrori del capitalismo finanziario globalizzato. La
famiglia odierna, quando ancora esista, è disordinata e stratificata,
priva di un nucleo e strutturata secondo le forme più eteroclite: dalle
gravidanze affidate a una persona esterna alla coppia alle adozioni
nelle coppie omosessuali, dalle separazioni sempre crescenti
all’inseminazione artificiale. Il fanatismo economico aspira a
distruggere la famiglia, giacché essa costituisce la prima forma di
comunità ed è la prova che suffraga l’essenza naturaliter comunitaria
dell’uomo. Il capitale vuole vedere ovunque atomi di consumo,
annientando ogni forma di comunità solidale estranea al nesso
mercantile. L’ideologia gender si inscrive appunto in questa dinamica.
La Via della seta raggiunge ormai Belgrado e l'Ungheria di Orban
L’Europa Orientale è per la Cina la porta di accesso per le “terre interne dell’Europa”
La formula 16+1 a molti potrebbe dire poco o nulla. In realtà riassume
freddamente l’espansione dell’influenza economica e politica della Cina
popolare in Europa: si tratta, infatti, della tavola rotonda tra Pechino e i Paesi dell’Europa Orientale e centrale (CEE-
Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca,
Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, polonia,
Romania, Serbia, Repubblica Slovacca e Slovenia), che ha preso il via a
Varsavia nel 2012 e che il 15 dicembre scorso a Belgrado ha vissuto il
suo terzo appuntamento all’insegna di una sempre maggiore cooperazione. I
legami economici tra questo pezzo del Vecchio Continente (che nella
retorica interventista dell’amministrazione Usa di Bush jr era definita
la “giovane Europa”) e l’ex Celeste impero sono in forte crescita, anche
se ben poca cosa rispetto ai livelli di interscambio economico cui ci
ha abituato la Cina: 50 miliardi di dollari al termine di quest’anno
(incremento su base annua di poco più del 10%), investimenti delle
imprese cinesi per circa 5 miliardi e una quarantina di progetti di
cooperazione in gara parte realizzati e in atto.
Aggiungi didascalia
I settori interessati sono soprattutto quelli delle infrastrutture e dell’energia
e il premier cinese Li Keqiang, con al seguito un missione di
imprenditori, ha annunciato la costituzione di un fondo di 3 miliardi di
dollari, da aggiungere ad una linea di credito di 10 miliardi, e tra i
progetti ci sono quelli di un’autostrada che colleghi Belgrado con
diverse regioni della Serbia centrale e orientale, una nuova centrale
elettrica e la costruzione della ferrovia tra la capitale serba e
Budapest. A questo va aggiunto anche la volontà di utilizzare sempre più
le rispettive monete negli scambi commerciali.
Per Pechino una cooperazione sempre più stretta con quest’area (tuttora
mercati interni secondari e non certo ricchi di materie prime per
l’ormai prossima futura prima potenza economica mondiale), soprattutto
con la Serbia (partner strategico) e l’Ungheria, è vista come tappa fondamentale per una progressiva penetrazione nell’Europa occidentale, attraverso la costruzione di hub strategici a partire dal porto del Pireo, al quale legare una rete ferroviaria ad alta velocità.
Si tratta quindi della paziente costruzione, a partire dai Balcani, del
“ramo” più occidentale - un “anello essenziale” come ha sottolineato
Xinhua - della Nuova Via della Seta. Lo ha spiegato bene Minghao Zhao, esperto cinese di politica estera e ricercatore del Charhar Institute, quando descrive l’Europa
Orientale come parte estrema della “cintura economica della Via della
Seta” e porta di accesso per Le “terre interne dell’Europa”.
Anche in vista di un maggiore sicurezza per la Cina. Prosegue, infatti,
lo studioso: “il successo della cintura economica della Via della Seta
avrà notevoli ripercussioni sulla stabilità delle province occidentali
cinesi, tra cui il XinJiang”. Insomma, la sicurezza dei confini cinesi,
quelli storicamente più sensibili e un tempo troppo permeabili alle
penetrazione straniera, passa anche dalla collaborazione economica con i
Paesi dell’Europa orientale.
“La crescita greca è
un’invenzione, il paese è in piena Grande Depressione, e tutto questo
perché si è scelto di salvare le banche a spese dei cittadini. Ma ora,
con Tsipras, il paese è pronto a cambiare rotta.
E a far cambiare rotta all’Europa”. Parola di Yanis Varoufakis, economista molto vicino a Syriza.
Il 9 dicembre 2014 verrà ricordato come l’inizio della “seconda crisi dell’euro”? In un solo giorno la borsa di Atene ha perso quasi il 13% del suo valore, mentre i tassi di interesse sui titoli di stato greci a dieci anni sono schizzati dal 5.5% al 9%. A scatenare il panico
sui mercati la decisione del primo ministro Antonis Samaras di
anticipare a questo mese l’elezione del presidente della Repubblica. Si
tratta di un azzardo non da poco per Samaras: se non sarà in grado di
ottenere un numero sufficienti di voti in parlamento per il suo
candidato, l’ex commissario europeo per l’Ambiente e più volte ministro
Stavros Dimas, la Costituzione prevede la convocazione di nuove elezioni
politiche. E al momento tutti i sondaggi danno favorita Syriza, la
forza della sinistra radicale guidata da Alexis Tsipras. Ecco spiegata
la reazione isterica da parte dei mercati, e quella altrettanto
preoccupata dell’establishment europeo, con il presidente della
Commissione europea che si è espresso a nome di tutta Bruxelles, o
quasi, augurandosi che i greci non votino “in modo sbagliato”. Tali
reazioni sono difficili da giustificare: a dispetto di quello che spesso
riportano i giornali, Tsipras non ha nessuna intenzione di portare la
Grecia fuori dall’euro, e per quel che riguarda il suo piano di
ristrutturazione del debito greco – l’ipotesi che probabilmente spaventa
di più i mercati –, la sua intenzione non è quella di colpire i
creditori privati ma piuttosto i creditori ufficiali: l’Unione europea e
in particolare la Germania (che detengono il grosso del debito greco).
Di questo e altro abbiamo parlato con Yanis Varoufakis, economista molto
vicino a Syriza nonché autore della “modesta proposta” per riformare
l’eurozona (di cui abbiamo parlato qui).
La Grecia, che oggi mostra un tasso di crescita economica tra i
più alti di tutta l’Unione, viene presentata dai fautori dell’austerità
come una dimostrazione dell’efficacia del consolidamento fiscale e della
svalutazione interna, che avrebbero reso l’economia greca più
efficiente e competitiva. Cosa ne pensa?
Penso che sia una perversa distorsione della realtà. La Grecia è in
piena Grande Depressione. Sono sette anni che i redditi e gli
investimenti nel paese sono in caduta libera; questo ha determinato una
vera e propria crisi umanitaria. E ogni anno la Commissione europea, la
Bce e il Fondo monetario internazionale ci dicevano che la ripresa era
“dietro l’angolo”. Non era affatto così. E adesso, sulla base di un
trimestre di crescita del Pil reale, sono tutti lì a festeggiare la
“fine” della recessione! Ma se si guardano attentamente i numeri, ci si
rende conto che siamo ancora in recessione, anche in base ai dati ufficiali.
La spiegazione è piuttosto semplice: nello stesso periodo in cui il
Pil reale è cresciuto dello 0.7%, i prezzi sono caduti in media
dell’1.9%. Per chi non lo sapesse, il Pil reale equivale al Pil nominale
(ossia calcolato in euro) diviso per l’indice dei prezzi (il cosiddetto
deflatore del Pil). Considerando che questo indice è sceso
dell’1.9%, e che il Pil reale è aumentato solo dello 0.7%, questo vuol
dire che il Pil misurato in termini nominali, ossia in euro, è sceso!
Dunque la crescita del Pil reale non dipende dal fatto che il reddito
nazionale, in euro, è cresciuto; dipende dal fatto che esso è caduto più
lentamente dei prezzi. E ora l’establishment politico, sia europeo che
nazionale, vorrebbe vendere ai greci questo piccolo trucco contabile
come la “fine della recessione”. Ma non funzionerà.
Pil al -25%, disoccupazione ai massimi livelli dai tempi della
seconda guerra mondiale: pensa che questi siano semplicemente gli
effetti indesiderati di politiche “sbagliate”, o possono essere
considerati il frutto di un disegno preciso?
Nessuna delle due, credo. Queste politiche erano le uniche che non
comportavano un’ammissione del fatto che l’architettura dell’eurozona è
fondamentalmente disfunzionale, e che la crisi era sistemica e non
“greca”. Ma soprattutto, erano le uniche ad essere compatibili con
quello che era l’obiettivo principale dell’establishment: salvaguardare i
banchieri da qualunque tentativo di espropriazione da parte dell’Unione
europea o degli stati membri. Ed è così che una nazione piccola ma
fiera è stata costretta a implementare una feroce politica di
svalutazione interna che ha causato e sta causando enormi sofferenze
alla popolazione, oltre ad aver fatto lievitare il debito privato e
pubblico del paese a livelli insostenibili, e tutto questo per mantenere
l’illusione che l’architettura dell’eurozona fosse sostenibile, e per
scaricare le perdite colossali delle banche private sulle spalle dei
cittadini comuni, dei lavoratori e dei contribuenti. Una volta decisa la
strategia, l’hanno poi ammantata di propaganda neoliberista per
renderla più appetibile…
I mercati hanno reagito in maniera isterica alla decisione di
procedere all’elezione anticipata del presidente della Repubblica,
perché temono che questo spianerà la strada ad elezioni politiche
anticipate. È una paura giustificata? E perché temono così tanto la
prospettiva che la Grecia torni alle urne?
Sì, è giustificata. È difficile che Samaras riuscirà a far eleggere
il suo candidato. E quello che temono è lo scoppio delle due bolle
economiche gonfiate ad arte da Berlino, Francoforte e Bruxelles negli
ultimi anni, quella dei titoli sovrani e quella dei titoli di borsa, che
avevano lo scopo di alimentare l’illusione della “ripresa greca”. Ma
questo è il destino di tutte le bolle: alla fine scoppiano. E prima lo
faranno meglio sarà, perché ci costringerà a guardare finalmente in
faccia la realtà e a darci da fare per migliorare le condizioni di vita
di tutti, sia in Grecia che nel resto dell’eurozona.
Pensa che la vittoria di Syriza sia un’ipotesi realisticamente
possibile? O ritiene che le forze conservatrici dell’establishment greco
– ed europeo – siano disposte a tutto pur di sbarrargli la strada?
Entrambe le cose. Non c’è alcun dubbio che le forze
dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle
più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato
greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con
successo in passato, sia destinata a fallire. Una vittoria di Syriza al
momento sembra sempre più probabile.
Come giudica l’augurio di Juncker affinché i greci non votino “in modo sbagliato”?
Direi che dimostra un profondo disprezzo per la democrazia, e un
atteggiamento neocoloniale che si fa beffa dell’idea secondo cui
l’Unione rispetta la sovranità dei suoi stati membri. In teoria, è la
Commissione europea che è tenuta a rispondere delle sue scelte di fronte
ai cittadini degli stati membri, e non i cittadini che sono tenuti a
rispondere delle loro scelte di fronte alla Commissione. E per
definizione la Commissione non può esprimere alcun giudizio di merito
sull’esito di un’elezione. E non può di certo dire quale sia il
candidato “giusto” e quello “sbagliato”. Con questa affermazione,
Juncker ha fatto cadere ancora più in basso la reputazione della
Commissione, già ai minimi storici, e ha allargato ancora di più il
deficit democratico dell’Ue. Il suo intervento è stata una delle mosse
più anti-europee che si potessero immaginare, in quanto è riuscito a
delegittimare in un colpo solo sia la Commissione che l’Unione stessa.
Ci può descrivere in breve i punti principali del programma di Syriza?
In primo luogo, un governo guidato da Syriza farà di tutto per far sì
che l’Europa affronti i nodi che finora si è rifiutata di affrontare:
la disfunzionalità dell’architettura dell’eurozona, e il fatto che i
cosiddetti “salvataggi” della troika – che erano tutto fuorché dei
salvataggi – sono stati molto deleteri sia per i paesi della periferia
che per quelli del centro, inclusa la Germania. In secondo luogo, si
sforzerà di ricostruire e di rimettere in moto l’economia sociale della
Grecia per mezzo di un “New Deal per l’Europa” finalizzato a tirare
tutta la periferia, e non solo la Grecia, fuori dalla depressione.
Infine, si adopererà per riformare sia il settore privato che quello
pubblico al fine di incrementarne la creatività e la produttività, e per
costruire una società migliore.
Il ritorno alla normalità passa necessariamente per un default su una parte del debito pubblico?
Sì, e questo non vale solo per la Grecia. La Grecia farà senz’altro
default a un certo punto, ma probabilmente non lo farà in maniera
formale, ma con un taglio del debito greco nei confronti del resto
dell’Europa. E a quel punto, poco dopo, seguiranno l’Italia e poi la
Spagna e il Portogallo. Di fatto rappresenterà il primo passo verso una
specie di unione fiscale: quando uno stato ha avuto in prestito dagli
altri e non è in grado di ripagare al tasso concordato, è una specie di
unione fiscale, ma una specie terribile, la peggior specie, un’unione
fiscale per default.
Arabia Saudita: «L'offerta di petrolio rimarrà invariata»
Ill Ministro del petrolio saudita: «Vedo
impossibile che noi o l'Opec intraprendiamo qualsivoglia misura che
condurrebbe ad una riduzione delle nostre quote di mercato e a un
aumento di quelle altrui». Intanto il Brent torna sopra i 62 dollari
mentre la Chevron abbandona piani per trivellazioni in Artico canadese.
RIYAD - L'Arabia Saudita ribadisce in maniera molto netta che non intende ridurre la sua offerta di petrolio: «è impossibile»,
ha affermato il ministro del Petrolio Ali al-Nuaimi. Tagliare
significherebbe accettare che altri produttori di oro nero ne traggano
vantaggio, rafforzando le loro quote a discapito, appunto, di quella
dell'Arabia Saudita, primo produttore globale e dell'Opec. «E' difficile, vedi impossibile - ha detto Nuaimi citato dall'agenzia di stampa ufficiale - che
l'Arabia saudita o l'Opec intraprendano qualsivoglia misura che
condurrebbe ad una riduzione delle loro quote di mercato e a un aumento
di quelle altrui». Barile Brent torna sopra 62 dollari - Prezzi
petroliferi in risalita, in parallelo ai recuperi delle Borse che, come
l'oro nero, nelle passate sedute avevano accusato pesanti ribassi. A
Londra il barile di Brent, il greggio di riferimento del Mare del nord
che a inizio settimana era sceso fin sotto la soglia psicologica dei 60
dollari, segna un incremento di 1,05 dollari rispetto alla chiusura di
ieri, a 62,23 dollari.
Negli scambi fuori seduta sul Nymex, la Borsa merci di New York, Il
barile di West Texas Intermediate guadagna 79 cents, con i futures in
prima consegna a 57,26 dollari. Chevron abbandona piani per trivellazioni in Artico canadese - Chevron ha sospeso «a tempo indeterminato»
i piani sulla trivellazione petrolifera nelle acque dell'Artico
canadese sulla scia dell'incertezza delle previsioni sull'andamento dei
prezzi del petrolio.
La decisione della compagnia petrolifera americana, comunicata alle
autorità canadesi, conferma la preoccupazione dei colossi petroliferi
per i recenti ribassi del greggio, che perde più del 40% rispetto ai
massimi di giugno.
Come spiega il Wall Street Journal, se è vero che nell'Artico si trovano
riserve non ancora sfruttate per miliardi di barili di greggio, è anche
vero che i costi delle trivellazioni off-shore, soprattutto in quella
zona, sono tra i più alti, complici le condizioni meteorologiche
proibitive e la distanza dalle coste.
La divisione canadese di Chevron ha effettuato negli ultimi anni test
per un programma di trivellazione nel Mare di Beaufort, ma la decisione
appare ora irrevocabile: "Il piano è messo in attesa a tempo indefinito,
dato l'alto livello di incertezza economica del settore", mentre "tutti
i progetti di Chevron devono essere competitivi nel portafoglio di
esplorazione globale", si legge in una lettera al National Energy Board
canadese.
Auto venduta in Usa, Pick-up riappare in Siria come arma jihadisti
Gruppo Ansar al Deen lo mostra in rete. Minacce a propietario
Roma, 18 dic. (askanews) - Vende la sua Pick-up in un'asta tenuta negli Stati Uniti. Lo stesso camioncinio, alcuni mesi dopo, riappare in Siria come arma di un gruppo Jihadista che diffonde in rete un video nel quale si vede il mezzo, una Ford F-250 nera, con sopra un combattente che spara da una mitragliatrice alla periferia di Aleppo. E' quanto è successo ad una società di impianti idraulici nel Texas, la quale ha dovuto rivolgersi alla polizia per denunciare le minacce ricevute da persone che hanno visto il video dei jihadisti ripreso dall'emittente CBS News.
La vicenda è raccontata oggi dalla stessa emittente Usa assieme alle immagini del video diffuso sul proprio account Twitter dal gruppo jihadista siriano "Ansar al Deen Front", composto prevalentemente da combattenti ceceni.
Interpellato da CBS News, un rappresentante della società di impianti idraulici in Texas City ha detto che il veicolo è stato venduto alla concessionaria Auto Nation a Houston nell'ottobre 2013, e che non sapeva più niente del mezzo da allora.
La società è stata assediata da telefonate, anche minacciose, dal momento che le immagini diffuse in rete mostrano chiaramente il nome e il numero di telefono della società. CBS News non identifica l'azienda, ma dalle immagini diffuse in rete si legge chiaramente il nome della società: "Marck-1 Bloombing", con tanto di numero telefonico
Il rappresentante, ha riferito che la sua società intende proseguire un'azione legale per costringere Twitter a rimuovere le immagini da Internet.
CIA: in Siria 12mila "Foreign Fighters", 2.500 sono europei
Roma, 18 dic. (askanews) - Sono 12mila gli stranieri che combattono in Siria divisi tra i gruppi jihadisti dell'opposizione e le forze militari del regime di Damasco. E' quanto emerge da un rapporto della CIA, il servizio d'intelligence statunitense, secondo il quale 2.500 di questi Foreign Fighters provengono dall'Europa.
Secondo, un secondo recente rapporto sempre della CIA citato oggi dalla tv satellitare "al Arabiya", la crisi in Siria "non è più una rivolta che cerca di abbattere il regime, ma le città del Paese si sono trasformate a campi d'attrazione per combattenti stranieri provenienti da tutto il mondo".
Combattenti che si uniscono ad entrambi le parti in causa: da una parte a fianco delle forze del regime di Damasco "come la milizia sciita libanese Hezbollah, elementi dei Guardiani della Rivoluzione islamica iraniana"; e dall'altra nelle file dei gruppi jihadisti come lo Stato islamico (Isis) ed il Fronte al Nusra, filiale ufficiale in Siria di al Qaeda.
Secondo lo studio, sarebbe di "oltre mille" il numero dei combattenti stranieri che entrano ogni mese in Siria "provenienti da 81 Paesi". Nel corso degli ultimi tre anni, emerge sempre dal rapporto, "il numero dei combattenti stranieri in Siria ha superato quello in Afghanistan in 10 anni".
Infine, il rapporto della CIA, sostiene che "alcuni stranieri, appena reclutati, ricevono addestramenti in campi delle milizie estremiste nell'Est della Libia prima di inviarli in Siria attraverso la Turchia".
Legge di Stabilità, il Senato approva nella notte la fiducia sul maxiemendamento