Fine anno, fine della corsa?
di Sandro Moiso

Quello
che infastidisce maggiormente nello spettacolo di Mafia capitale è
l’accento posto sull’eccezionalità del caso romano, la sorpresa che
tutti i media sembrano mostrare nei confronti di quello che non è altro
che un caso (tutt’altro che anomalo) di corruzione amministrativa e
politica quotidiana nell’Italia degli scandali legati all’Expo, al Mose e
a molti altri ancora. Ma, ormai, il termine Mafia ha preso il posto
dell’Uomo Nero, di Freddie Krueger, di Walter White e di qualsiasi altra
figura dell’immaginario più diabolico e viene sbandierato ad ogni piè
sospinto per dimostrare che ciò che c’è di marcio nella società attuale
non dipende dai rapporti di classe e dall’appropriazione privata della
ricchezza sociale prodotta, ma da poche figure negative che guastano i
sani rapporti sociali basati sui principi del capitalismo e che possono
anche arrivare a minacciare gli equilibri politici faticosamente
raggiunti.
Da una parte dunque i buoni servitori dello Stato (e del Capitale) e
dall’altra i corrotti, le anime perse che non hanno saputo resistere
alle seduzioni del Grande Tentatore (di solito un singolo uomo,
ex-terrorista di destra oppure capo-bastone di un clan, il solito
“grande vecchio” che la sinistra istituzionale ci ha insegnato a vedere
dappertutto). Anche se sappiamo tutti che questa narrazione è falsa,
come la promessa di Renzi di resistere fino al 2018.
Tutti i commentatori, partendo anche da presupposti diversi,
convergono infatti su un unico proposito: salvare l’immagine del
capitalismo italiano, cercando di dimostrare che le cose vanno male a
causa della corruzione diffusa o, ancor peggio come ha affermato qualche
giornalista del solito TgNews RAI 24, che basti un unico individuo, in
questo caso Buzzi o Carminati, ad infettare un sistema. Che naturalmente
si presume sano.
E che sano non è. Basta rivolgere lo sguardo alle inchieste più
recenti, da quelle riguardanti l’Expo o il Mose arrivando fino
all’intrico di interessi che si celano ancora dietro al TAV in Val di
Susa (dove la presenza di interessi legati alla ‘ndrangheta sono stati
individuati e parzialmente perseguiti così come è evidente il
coinvolgimento delle coop nella sua realizzazione)
1,
per comprendere che la scelta del capitalismo italiano e della sua
imprenditoria grande e media è stata proprio quella di “migliorare” le
proprie prestazioni finanziarie (certo non quelle produttive)
affidandosi spesso alle ruberie nelle tasche del solito Stato Pantalone
o, ancor meglio, direttamente nelle tasche dei cittadini.
La stessa candidatura entusiasticamente avanzata in questi giorni
affinché Roma sia sede dei giochi olimpici del 2024 conferma ancor di
più tale ipotesi, perché mentre da un lato il governo presenta una
proposta di disegno di legge che serve soltanto a gettare polvere negli
occhi di chi spera in un giro di vite contro la corruzione, dall’altro
prepara il terreno per un’altra grande opera che potrebbe diventare
davvero, se messa in atto, la madre di tutte le speculazioni e di tutti i
possibili intrecci politico-amministrativi con mafie e ‘ndrine
2.
Da anni scrivo di questo su Carmilla e non mi pare che qualcosa sia
significativamente cambiato oppure che ci siano state solide smentite di
questa ipotesi. Il capitale italiano, soprattutto quello finanziario, è
in fuga dal settore produttivo e, come tutti dovrebbero aver già capito
da tempo, anche le leggi e le iniziative attuali sul lavoro (inique e
retrograde più che mai) sono soltanto rivolte ad attirare sulle imprese
italiane in svendita nuovi acquirenti stranieri, attratti dai bassi
costi che possono facilitare qualsiasi tipo di speculazione e dalla
facilità con cui si potrà licenziare a partire dall’approvazione del Job
Act.
Bastino a confermare ciò le recenti rivelazioni sull’uso fatto dalle banche del prestito Tltro promosso dalla BCE:
“Dei
26 miliardi di euro che le banche italiane hanno preso in prestito
dalla Banca Centrale Europea a settembre, due terzi sono stati investiti
per l’acquisto di Buoni poliennali del Tesoro. Quindi solo 8 miliardi
sono stati effettivamente utilizzati per i prestiti alle imprese, e
quindi introdotti nell’economia reale del Paese. Secondo quanto
riferisce la Banca d’Italia, gli istituti di credito italiani hanno
investito ad ottobre 18,4 miliardi di euro in BTp, portando gli asset
governativi al livello mai raggiunto prima di 414,3 miliardi di euro. I
nuovi acquisti in Btp, in sostanza, consistono nei due terzi di quei 26
miliardi di euro che le banche hanno preso dalla Banca centrale europea
nell’asta Tltro del settembre scorso. I prestiti Tltro si differenziano
dai prestiti Ltro proprio per quella T, che sta per “targeted” ovvero
vincolati a un uso specifico: il sostegno alle imprese non finanziarie,
senza troppi margini di discrezionalità”3.
In effetti vi è una liquidità estremamente volatile che circola
vorticosamente a caccia di investimenti redditizi a breve o brevissimo
termine, cosa che non può far altro che favorire, da un lato, la
crescita esponenziale della spesa pubblica destinata a coprire gli
interessi pagati sui titoli di stato e, dall’altro, speculazioni e
appropriazioni indebite di attività lasciate spesso morire di inedia a
causa di investimenti e prestiti che non arriveranno mai a destinazione.
E’ il destino di tanta piccola e media industria, destinata a seguire,
anche involontariamente, le orme delle grandi famiglie del capitalismo
italiano e delle loro imprese e società per azioni. Destinate a loro
volta ad essere acquisite e smembrate per fornire ai nuovi acquirenti la
proprietà di un marchio di prestigio (e non vale assolutamente le pena
di ritornare qui ad elencarli tutti poiché sono ormai centinaia) oppure
una base “produttiva” per aggirare i divieti posti dall’Europa alle
merci provenienti da altri continenti.
Possiamo quindi tranquillamente ipotizzare che non sono state
soltanto la corruzione e le infiltrazioni mafiose o della malavita ad
inficiare la vita politica e le attività economiche, ma che, al
contrario, proprio le nuove regole del gioco hanno permesso
l’allargamento del tavolo a gruppi ed attività un tempo sì
significative, ma ancora relativamente marginali rispetto al peso
esercitato sul PIL. Mentre oggi, non a caso, proprio i proventi di tutta
una serie di attività illegali connesse alla grande criminalità
organizzata (prostituzione, contrabbando, spaccio) sono ormai
conteggiati anche nel PIL nazionale
4. In attesa soltanto di rientrare in circolo attraverso le banche e attività speculative più o meno legali.
Stupirsi della corruttela presente nelle cooperative bianche o rosse,
come ha fatto recentemente il presidente dell’Autorità Nazionale
Anti-corruzione Raffaele Cantone nella trasmissione serale di Lilli
Gruber
5,
significa quindi non aver colto la grande trasformazione che è avvenuta
negli ultimi trent’anni all’interno dell’economia italiana, della sua
classe imprenditoriale e della sua classe politica. Sempre di più tesa a
realizzare profitti individuali nel minor tempo possibile, anche a
costo di abbandonare qualsiasi norma di carattere economico, civile e
morale. Come continua a dimostrare in primo luogo l’azienda torinese
produttrice di auto, e capofila dell’imprenditoria italiana, che ha
spostato la sua gestione patrimoniale e aziendale all’estero per non
pagare le tasse in Italia, così come ha denunciato anche in questi
giorni il numero uno dell’Agenzia delle entrate Orlandini.
Il lento declino di Silvio Berlusconi e del suo partito sta infatti
contribuendo a rivelare che il “berlusconismo” non era il solo elemento a
produrre la corruzione e il deragliamento istituzionale, che in altri
paesi (vedi Germania) non è avvenuto oppure non ha avuto le stesse
preoccupanti caratteristiche; in realtà non era altro che il prodotto di
una trasformazione già in atto e in gran parte già avvenuta e di cui
uno dei principali interpreti politici era proprio l’ex-PCI , poi PDS e
poi PD.
E il cui nodo degli interessi “materiali” comuni sta proprio negli
interessi economici incrociati di gran parte delle coop, di ogni colore e
sigla, nel business degli appalti e nelle amministrazioni locali. Ad
ogni livello. Con un partito caduto oggi talmente in basso da far sì che
Matteo Orfini si è visto costretto a lanciare l’idea, apparentemente
ridicola, di un corso di formazione anti-corruzione per i militanti
romani.
Cooperative che si rivelano, intanto e sempre di più, tutt’altro che
impermeabili alle infiltrazioni speculative, mafiose, criminali o più
semplicemente “politiche”. Tanto quelle che non ci stanno sembrano
destinate a morire. Come ben dimostra il caso della Cooperativa
Un sorriso,
al centro delle proteste, evidentemente manovrate, degli abitanti di
Tor Sapienza, vero obiettivo di chi voleva togliere di torno un
concorrente scomodo nell’affare dell’accoglienza degli immigrati.
“Chi
insufflò le prove di pogrom di Tor Sapienza? Chi doveva incassare i
dividendi delle notti di fuoco, sassi e cocci di bottiglia di una
borgata “rossa” che improvvisamente, a metà novembre, si era accesa al
comando di saluti romani e ronde assetate di “negri” e “arabi”? Sono
stati scomodati i sociologi per provare a dare un senso alla furia della
banlieue di Roma.
E
invece, per raccontare quella storia bisogna cominciare da un’altra
parte. Dagli appetiti mafiosi del Mondo di Mezzo. Dai Signori degli
appalti del “terzo settore” Salvatore Buzzi e Sandro Coltellacci, oggi a
Regina Coeli per mafia, dal loro interfaccia “nero” Massimo Carminati e
dalla sua manovalanza del Mondo di Sotto . E da una coraggiosa donna
salentina, Gabriella Errico, presidente della cooperativa sociale Un
sorriso, che in quelle notti ha perso tutto. I 45 minori non
accompagnati di cui aveva la custodia e la struttura che li ospitava,
resa inagibile da un assedio violento”6.
A confermare la contiguità tra finanziarizzazione delle attività
economiche, comportamenti speculativi e coop è giunta una recentissima
indagine di Mediobanca in cui si afferma che:
“Nel
2013 le Coop hanno guadagnato più dalla finanza che dai supermercati
[…] I proventi finanziari hanno rappresentato l’1,9% dei ricavi
aggregati del 2013 (pari a 11,2 miliardi di euro) e si sommano a un
margine operativo netto (cioè al reddito della gestione industriale) che
si ferma solo allo 0,4%. Nel periodo 2009-2013 la gestione industriale
delle Coop ha prodotto utili lordi per 249 milioni a fronte di 889
milioni di proventi della gestione finanziaria.[…] I 12,2 miliardi di
investimenti delle Coop includono 3,1 miliardi di titoli di stato e 2,4
miliardi di obbligazioni, 2,1 miliardi di partecipazioni (in gran parte
concentrate sul gruppo Unipol, che le Coop controllano attraverso
Finsoe, a cui si aggiungono l’1,85% di Mps e l’1,5% di Carige)[…] Sei
delle undici cooperative esaminate hanno chiuso con una gestione
industriale in perdita, con risultati particolarmente negativi per
Ipercoop Sicilia (-9,4% dei ricavi) e Unicoop Tirreno (-3,2% dei
ricavi). Grazie al contributo della finanza le Coop in ‘rosso’ nel 2013
sono scesa a quattro: Unicoop Tirreno (-24,2 milioni), Coop Lombardia
(-15,3 milioni), Ipercoop Sicilia (-13,5 milioni) e Distribuzione Roma
(-8,8 milioni)“7.
Non a caso, poi, proprio a livello di cooperative sono state
sperimentate tutte quelle forme di lavoro che oggi, con il Job Act,
sembrano essere diventate legge. Con la difesa strenua e vergognosa
fatta dal ministro Poletti in Parlamento del diritto degli imprenditori
di poter fare ciò che vogliono per garantire i propri interessi e
investimenti.
Sì, perché se il Re è oggi più nudo che mai lo è anche “grazie” al
fatto che tale ideologia, così strenuamente difesa dal Presidente del
Consiglio e dal suo ministro, non può fare altro che arrivare anche a
giustificare indirettamente forme di coinvolgimento tra istituzioni e
malaffare. Con tanto di cene e contributi, da cui si sta cercando di
distogliere l’attenzione del pubblico.
Ma tutto ciò non può più costituire soltanto un problema morale e giudiziario. Qui è un sistema intero che va raso al suolo.
Pur essendo l’Italia già di fatto parzialmente commissariata
dall’Unione Europea, nonostante il tanto celebrato semestre di
presidenza italiana, Padoan, rispondendo a Juncker, può però affermare
che le riforme fatte sono quelle che “
ci servono e non perché ce l’hanno detto”.
E ha ragione perché effettivamente tutte le riforme varate da Monti in
avanti hanno semplicemente fatto comodo al capitale finanziario e
speculativo italiano (togliere risorse al lavoro e alla società per
favorire la rendita). Anche se la girandola di poteri e di governi
alternatisi in Italia dal 2011 in avanti sta giungendo alla fine della
corsa. Magnificamente e simbolicamente rappresentata dal baratro
apertosi intorno alla giunta capitolina e dall’imminente uscita di scena
di Giorgio Napolitano. Cosa di cui lo stesso Presidente è ben conscio e
preoccupato.
Sul quale ultimo iniziano già ad abbattersi gli strali anche di un
politologo moderato come Gianfranco Pasquino che, commentando il recente
discorso del Capo dello Stato all’Accademia dei Lincei, ne ha
sottolineato il fallimentare progetto politico affermando che: ”
non
ha ottenuto quello che voleva. Se per fallimento si intende essersi
affidati a persone mediocri, a un manipolo di ipocriti, sì, ha fallito
[…] Non va mai oltre l’approccio che storicizza e non lo sfiora mai
l’autocritica, quella politica.“. E augurandosi infine che lo stesso Napolitano
“rinunci a nominare altri senatori a vita e che lui stesso rinunci alla
carica, come invece gli spetterebbe. Questo spero che lo faccia,
sarebbe un atto fondamentale. Ma non sarà così“
8.
Così, mentre inizia la corsa per la nomina del nuovo Capo dello
Stato, lo stesso Napolitano è costretto a difendere ancora a spada
tratta, e vanamente, l’operato dell’ultima sua creatura con un
endorsement privo di precedenti che sembra avere tutte le
caratteristiche di un ultimo e disperato colpo di coda. Job Act, riforme
istituzionali autoritarie, vaneggiamenti e febbre da annuncite del
giovane premier sono tutti presentati, dal Presidente uscente, come
passi essenziali per garantire ancora la stabilità del paese.
Nel fare questo Giorgio Napolitano è però costretto a rovesciare la
realtà dei fatti, imputando l’instabilità politica, sociale ed economica
del paese a chi si oppone con le lotte, nel tentativo di criminalizzare
ancora una volta qualsiasi forma di opposizione, mentre in verità tale
instabilità è insita proprio nelle scelte politiche portate avanti da
una compagine governativa e da una classe dirigente estremamente divisa
al proprio interno, che, come un branco di iene, è capace di riunirsi
intorno ad un progetto soltanto quando si tratta di spogliare le
carcasse delle proprie vittime designate o di quelle già abbandonate da
altri, e superiori, predatori. Con un governo capace soltanto di
proseguire a colpi di voti di fiducia, ma incapace di qualsiasi
formulazione coerente, come il rinvio fino all’ultimo istante del
maxi-emendamento sulla legge di stabilità ha dimostrato ancora una
volta.
Mentre qualsiasi candidatura per l’elezione del futuro Presidente
della Repubblica non farà che confermare lo stato di debolezza,
incertezza e paralisi in cui si trovano le forze di governo, prive di
qualsiasi possibilità di ricambio o cambiamento di rotta, se non quella
di affidare ancora ad un esecutore testamentario vicino a Bruxelles un
mandato settennale. Consegnando così, come al tempo delle Signorie, il
governo delle proprie contraddizioni ad una forza mercenaria esterna.
All’inizio del mandato di Renzi avevo affermato che avremo visto i due personaggi uscire di scena insieme
9.
La cosa si sta, nemmeno troppo lentamente delineando all’orizzonte, in
un contesto in cui l’ultimo argomento rimasto in mano al Governo e ai
suoi rappresentanti, messi sempre più a nudo dall’ultimo scandalo,
sembra essere infatti soltanto quello della minaccia dell’arrivo della
Troika europea. Mentre la capitale scivola lentamente verso il baratro e
Piazza Affari corre sulle montagne russe, la nave affonda e i topi
scappano, lanciando dietro di sé dei fumogeni nell’inutile tentativo di
coprirsi la ritirata.
Gli stessi giochi all’interno del teatrino politico del PD sembrano
cercare soltanto di allontanare o ritardare tale ipotesi con altre
elezioni, pur sapendo, viste le recenti percentuali dell’astensionismo
di massa, di essere giunti alla frutta.
Non c’è un’altra alternativa e il tentativo di gonfiare
mediaticamente l’immagine di Salvini (così come era stato fatto nel 2013
con Grillo, oggi consapevolmente auto-sgonfiatosi) non ha altro scopo
che quello di far andare ai seggi qualche elettore in più, sia da una
parte che dall’altra.
Anche se difficilmente il gioco potrà riuscire anche questa volta.