Sapelli a Renzi: Ilva, così non basta ci vuole lo Stato imprenditore e un’Europa “confederale”
di Fabio Tamburini
Il fondo per la ristrutturazione di aziende in crisi? “Meglio di niente ma, di fronte all’enormità della crisi, rischia di essere un pannicello caldo”. Le priorità di politica industriale per il 2015? “Passare dalle parole ai fatti realizzando una rete capillare di banda larga in fibra ottica, decisiva per la riorganizzazione dell’industria manifatturiera.” Il crollo dell’euro? “Sarebbe una catastrofe, ma il problema si pone. Deve rinascere un’Europa delle Nazioni, non più prigioniera degli apparati burocratici di Bruxelles e dei vincoli di bilancio voluti dalla Germania che hanno fatto ricchi i tedeschi e massacrato Paesi come la Grecia.” Giulio Sapelli, autorevole economista e professore ordinario di Storia economica all’Università Statale di Milano, conferma l’abitudine a parlare chiaro, senza reticenze e timori reverenziali.
Come giudica l’intervento del governo sull’Ilva?
Lo stato d’emergenza richiede ben altro. Le prime dichiarazioni di Matteo Renzi avevano fatto sperare in una svolta, che andasse al di là del caso Ilva. In parte sta accadendo ma occorrono provvedimenti più incisivi, sia per il risanamento del gruppo siderurgico sia per il rilancio dell’intera industria manifatturiera. Una situazione così drammatica come la perdita di una ventina di punti del prodotto interno lordo negli ultimi 20 anni non può essere superata con singole iniziative, magari utili ma non risolutive. Siamo ben lontani da interventi risolutivi.
Cosa sarebbe necessario?
Una svolta vera.
Quale?
Il ritorno dello Stato imprenditore, difficile da realizzare perché siamo tutti prigionieri dell’ideologia liberista. Ma non ci sono alternative. E tutti i Paesi, anche quelli più conservatori, stanno andando in questa direzione. Perfino in Nord America e nel Regno Unito sta accadendo qualcosa del genere. Per non parlare della Francia. L’ideale sarebbe una forma d’intervento pubblico sul modello di quanto fatto da Obama per risanare l’industria dell’auto negli Stati Uniti. Condizione necessaria è il ritorno diretto dello Stato nell’economia.
Con che strumenti?
Occorre crearli ex novo. Occorrono imprese pubbliche che operino a supporto delle aziende, a partire da quelle piccole e medie. Per esempio rendendo disponibili servizi informatici avanzati oppure l’acquisto di materie prime provenienti dalle terre rare, un mercato che è sotto il controllo di un oligopolio internazionale difficile da contrastare. Il compito affidato alla nuova società pubblica potrebbe essere di trattare le condizioni di acquisto e rivendere le materie prime alla piccola e media impresa.
Le iniziative annunciate dal governo per l’Ilva sono condivisibili?
L’Ilva è indispensabile per la sopravvivenza di una parte importante dell’industria manifatturiera italiana ma ha bisogno di capitali massicci, d’iniziative di ampia portata.
Condivide la scelta dell’amministrazione straordinaria?
L’Ilva non è un’azienda fallita ma è in crisi per interventi molto, molto discutibili della magistratura. L’entrata in amministrazione straordinaria è una sorta di esproprio degli azionisti, i Riva e gli Amenduni, con una operazione un po’ all’Argentina di Peron. Il dubbio viene. La certezza è l’apertura di un contenzioso giudiziario che durerà a lungo. Certo l’intervento pubblico era il nodo gordiano da sciogliere.
Quali sono le altre priorità per rilanciare l’industria manifatturiera italiana?
La rete a banda larga in fibra ottica.
Perché?
E’ la premessa irrinunciabile per l’intera riorganizzazione dell’attività produttiva e dei servizi. Il modo tradizionale di fare impresa è destinato ad una rivoluzione, che renderà archeologia le scelte attuali. Servono più dati e più software, in collegamento con le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale e dalle nanotecnologie. Ma dati e software possono circolare soltanto sulla banda larga in fibra ottica, che diventa premessa irrinunciabile. L’Agenzia digitale, ben condotta da Francesco Caio quando ne è stato commissario, ha fatto capire bene quali sono le necessità e in che direzione andare. Finora però è mancata la capacità di dotare il Paese delle infrastrutture necessarie. Adesso sta passando l’ultimo treno. Lo Stato deve provvedere, anche sfidando le ire di Bruxelles. In caso contrario andiamo a picco. Anche per questo occorre la rinascita dello Stato imprenditore, che intervenga dove è necessario.
Può fare almeno un esempio?
Nell’informatica abbiamo un paio di aziende significative e almeno 40-50 mila esuberi. Il settore è vitale per l’intera economia e va spinto verso la direzione giusta.
Gli investimenti nelle infrastrutture non dovrebbero essere di competenza europea?
Certamente si, in teoria. Nei fatti non sta accadendo.
Il piano annunciato da Jean-Claude Juncker, il nuovo presidente della Commissione europea, prevede 300 miliardi di euro d’investimenti…
Soltanto sulla carta. La verità è che i fondi europei sono soltanto poco più di una ventina. Il resto dovrebbe arrivare da operazioni di project financing, con l’intervento di capitali privati. Il che significa la presentazione di progetti, una trafila interminabile di autorizzazioni e controlli europei, percorsi complessi e probabilmente scelte discutibili. E’ un piano che Juncker ha annunciato nel novembre scorso prima della sua elezione e prevedeva investimenti europei diretti elevati. Poi si è trasformato in un piano burletta, un imbroglio e una vergogna, che servirà soprattutto ad alimentare l’euroburocrazia.
E’ la conferma che l’Europa non funziona?
Così non può funzionare. Occorre una verifica politica e la Grecia costringerà a farla. L’Unione europea va cambiata perché si è trasformata in una grande iattura. E’ stata pensata immaginando una crescita costante dell’economia, mentre sta accadendo esattamente il contrario. Il risultato è che è cresciuta, e crescerà ancora di più, un’ondata di antieuropeismo che, a sinistra come a destra, mette in discussione le politiche europee. L’errore di fondo è stato di sottrarre sovranità agli Stati, creando meccanismi di potere che hanno finito per essere governati dalla Germania, trasferendo ricchezza ai tedeschi e massacrando altri popoli. L’esempio della Grecia è significativo: i crediti delle banche francesi e tedeschi sono stati salvati, ma hanno ammazzato il Paese.
Qual è la via di uscita?
Un’Europa confederale che valorizzi l’apporto delle Nazioni, non più prigioniera di apparati burocratici e soggetta ai diktat della Germania. E’ arrivato il momento di archiviare vincoli di bilancio e fiscal compact (le regole comunitarie in materia, ndr). Subito, prima che sia troppo tardi. La politica deve rialzare la testa e va dato atto a Renzi di avere sollevato il problema.
http://www.ilghirlandaio.com/copertine/126113/sapelli-a-renzi-ilva-cos-non-basta-ci-vuole-lo-stato-imprenditore-e-un-europa-confederale/