6/02/2015
Si chiama reverse charge e sta facendo infuriare produttori e distributori. Per una volta d’accordo
(PATRICK KOVARIK/AFP/Getty Images)
Il
fisco italiano sta riuscendo in un’impresa finora impossibile: mettere
d’accordo chi fabbrica i prodotti e chi li vende nei supermercati. I
rivali di mille battaglie - sui tempi di pagamento, sui margini, sul
posizionamento negli scaffali - si ritrovano assieme, per protestare
contro l’inversione dell’Iva decisa dall’ultima legge finanziaria. «Avrà
un effetto devastante», sintetizza Mario Gasbarrino, amministratore
delegato di Unes/U2 Supermercati, «l’impatto sarà triplo rispetto alla
legge che ha imposto il limite di 60 giorni per i pagamenti ai fornitori
(
Art 62 legge n° 27/2012),
che qualche anno fa ha tolto sei miliardi di liquidità alla grande
distribuzione organizzata». Non solo: «crea distorsione nel mercato»,
«sarà una mazzata per la Pmi», «assieme alla norma sulle etichette
produce un combinato disposto mortale».
Di che mostro stiamo parlando? Di un meccanismo che nel gergo dei
ragionieri si chiama “reverse charge” (inversione contabile). È stato
introdotto prima per regolare il commercio con l’estero. Poi, dal 2012 è
stato esteso al mondo dell’edilizia. Con
la legge di Stabilità 2015 l’applicazione ha riguardato una serie di altri ambiti,
come le pulizie, le demolizioni, l’installazione degli impianti, il
settore energeticco e appunto la gdo (supermercati, ipermercati e
discount alimentari). Per la grande distribuzione organizzata, a
differenza degli altri ambiti, l’applicazione del reverse charge al caso
in esame è subordinata al rilascio di un’apposita autorizzazione da
parte dell’Ue. La quale è però tutt’altro che scontata. Lo scopo è
evitare l’evasione fiscale in settori in cui è diffusa.

Se il meccanismo non è chiaro, meglio spiegarlo. Per una volta, Wikipedia non aiuta, quando
definisce
il reverse charge “un particolare meccanismo di applicazione
dell'imposta sul valore aggiunto, per effetto del quale il destinatario
di una cessione di beni o prestazione di servizi, se soggetto passivo
nel territorio dello Stato, è tenuto all'assolvimento dell'imposta in
luogo del cedente o prestatore”.
L’enciclopedia libera si riscatta
fornendo un esempio
di come funziona l’Iva normalmente. “Un commerciante acquista materia
prima per un valore di 1.000 euro, per cui pagherà 1.220 euro, essendo
l'Iva pari a 220 euro (22%). Supponiamo che, a seguito di una serie di
lavorazioni effettuate su di essa, il valore del prodotto lavorato sia
di 1.200 euro. Al momento della vendita il consumatore finale pagherà al
commerciante una somma di 1.464 euro (1.200 + 264). La somma che il
commerciante deve versare allo Stato è di 264 – 220 = 44 euro (Iva che
il commerciante ha ricevuto dal consumatore finale al netto di quella
versata per acquistare la materia prima)”.
Con l’inversione dell’Iva, il commerciante compra invece a 1.000
dal fornitore. Se il valore del prodotto lavorato è sempre pari 1.200,
il commerciante venderà a 1.464 euro e la somma che dovrà versare allo
Stato sarà di 264 euro. Per il commerciante non cambia niente, ma per il
produttore è un problema grosso, perché per ottenere le materie prime
ha pagato con Iva. Dovrà quindi bussare allo Stato per ottenere i
rimborsi. «Il problema è che passa un anno e mezzo prima del rimborso»,
dice Gasbarrino. Questo «per le Pmi è una mazzata, soprattutto quelle
che fino ad ora si sono autofinanziate e che ora perdono molta
liquidità». Un esempio è la Balocco, nota azienda dolciaria, il cui
amministratore delegato Alberto Balocco
si sta facendo portavoce della protesta dei piccoli produttori.
Perché, se colpisce i produttori, il reverse charge sta facendo
infuriare anche i distributori? Perché non tutti i distributori sono
uguali. Ci sono quelli che, come Conad, Sisa o Crai, non vendono
direttamente ai clienti ma a delle società minori sul territorio, le
quali effettivamente vendono ai consumatori finali. Con l’inversione
contabile il fornitore (per esempio la Coca-Cola) vende un bene che vale
1.000 a Conad aggiungendo l’Iva (quindi a 1.220 euro). Conad, sempre
con un valore del lavorato pari a 1.200, venderà a 1.200 al venditore
finale, il quale poi venderà al pubblico aggiungendo l’Iva. Quindi Conad
(o Crai, Sisa eccetera) perde liquidità e dovrà aspettare un anno e
mezzo per incassare i denari che gli spettano dall’Erario.
E questo non è un problema da poco: «le aziende della distribuzione
si finanziano con l’Iva», spiega Gasbarrino. Per una società come
Conad, aggiunge, significa perdere almeno un miliardo di liquidità
all’anno. «Salteranno le aziende - aggiunge - e se non salteranno
taglieranno gli investimenti, proprio quelli che mancano di più
all’Italia. È la cosa meno necessaria in un momento di credit crunch».
C’è un poi un terzo problema. «Si crea anche una discriminazione
nel mercato - spiega Gasbarrino - : la Coca-Cola, per fare un nome a
caso, sarà più contenta di vendere a Conad, perché potrà fatturare con
l’Iva, piuttosto che a Unes ed Esselunga, che vendono direttamente al
pubblico». Quindi una società che fa affiliazione, come Conad o Crai, da
una parte è svantaggiata dal reverse charge, dall’altra è
avvantaggiata. «La legge senza volerlo dà un colpo al cerchio e uno alla
botte - dice l’ad di Unes -. Questo mette d’accordo industria e
distribuzione nella protesta».
Perché si è arrivati a questa situazione? «Non c’è ratio se lo scopo è
il recupero dell’evasione - aggiunte Gasbarrino -: i fornitori della
Gdo sono affidabili, sono tutti medi o grossi produttori».
Per l’ad della catena di supermercati la norma è solo «una misura
tampone: sono stati appostati 730 milioni di euro di recupero teorico di
evasione dell’Iva, con un calcolo sovrastimato, perché l’Europa
chiedeva una correzione da 3 miliardi di euro nella legge di stabilità e
non si riusciva a trovare gli ultimi 700 milioni». Ma l’Europa stessa
dirà probabilmente di no. «Si sa già che l’Europa è contraria: ha già
detto di no a un’inversione dell’Iva per un zuccherificio dell’Europa
dell’Est. Nella sostanza la nuova legge non si potrà fare e scatterà la
clausola di salvaguardia: si metteranno cioè nuove accise, a partire dai
carburanti. Sono dilettanti allo sbaraglio».
La vis polemica di Gasbarrino si estende anche alla nuova legge
sull’etichetta: dopo l’entrata a regime del regolamento europeo XX/2011
non è più obbligatorio sulle etichette indicare lo stabilimento di
produzione. Una sorta di spinta alla delocalizzazione, a cui dovrebbe
essere messa una pezza da un intervento del governo, promesso dal
ministro dell’Agricoltura Martina e sul quale il ministro Federica Guidi
ha promesso un intervento, senza sbilanciarsi sui dettagli.
«Si fanno le leggi a favore del Made in Italy, come la legge
Sabatini, e poi si toglie l’obbligo dell’etichetta - conclude
Gasbarrino. La mano destra ancora una volta non sa quello che fa la
sinistra».
http://www.linkiesta.it/reverse-charge-inversione-iva-conseguenze-su-supermercati
Nessun commento:
Posta un commento