Il
piano per la banda ultra larga italiana è ancora più lontano dal vedere la luce. Finora i giochi ruotavano attorno a
Metroweb,
società che, secondo quanto descritto dalla stessa nel proprio sito
internet, opera come dark fiber provider (fornitore di fibra spenta),
sviluppando e affittando l’infrastruttura della rete ai principali
operatori di telecomunicazione a livello nazionale, che provvedono poi
autonomamente ad implementare i propri servizi di connessione a valore
aggiunto per offrire ai loro clienti servizi come connettività Internet,
telefonia fissa, mobile e distribuzione di contenuti digitali
multimediali di ogni genere. In particolare Metroweb, fornisce l’accesso
alla rete in modalità
Ftth (Fiber-To-The-Home) fibra
fino alla casa, una connessione che permette all’utente di collegarsi
alla rete direttamente in fibra ottica, cioè alla più alta velocità di
connessione disponibile.
Per ora
infatti il colosso Telecom, così come gli altri operatori (Fastweb, ad
esempio), ha portato la banda nelle case attraverso la cosiddetta Fttc (Fiber
to the Cabinet). Questa tecnologia allaccia la fibra fino all’armadio
esterno, mentre il restante pezzo di strada (circa 300 metri) è coperto
con il rame. Fino a questa settimana i vari progetti prospettati
passavano per una soluzione condivisa dai vari player attraverso
l’investimento in una società veicolo, verosimilmente Metroweb stessa.
Una soluzione chiamata “condominio”. I principali coinquilini sarebbero
stati la Cdp, che attraverso Fsi (Fondo strategico italiano) partecipa in Metroweb insieme a F2i, Vodafone e naturalmente Telecom che tuttavia ha sempre chiarito che non avrebbe accettato niente di meno del 51% della newco. E così è iniziata la bagarre.
Il
controllo permetterebbe infatti di dominare il mercato italiano delle
tlc. Anche il Governo era intervenuto senza prendere le parti di nessuno
in particolare. Anzi, lo scorso 21 gennaio aveva proposto una soluzione
di compromesso: la società guidata da Marco Patuano sarebbe entrata in Metroweb
senza acquisirne immediatamente il controllo, in quanto subordinato al
raggiungimento di “precisi paletti”. Il modello sarebbe quello di
un’opzione put e call: le quote minori vengono cedute a Telecom, che
acquista così piano piano la maggioranza, solo man mano che gli
investimenti vengono effettuati e il Paese cablato.
Infatti il timore del Governo è che una volta venduta la maggioranza di Metroweb la telco italiana possa non effettuare quegli investimenti
necessari per la digitalizzazione del Paese attraverso l’irrobustimento
della banda ultra-larga. Anche Franco Bassanini, presidente di Cassa
Depositi e Prestiti, sembrava gradire il compromesso dichiarando lo
scorso 11 marzo che “se la rete fosse partecipata da tutti, con un piano
di investimenti concordato e adeguate garanzie di parità di
trattamento, una maggioranza Telecom potrebbe anche funzionare”.
La soluzione prospettata dai salotti buoni, scriveva il Sole 24 ore il 24 marzo, prevederebbe il congelamento dei diritti di voto
per la quota eccedente la maggioranza. In tal modo Telecom non
investirebbe in una infrastruttura che non sarà sicura di poter
consolidare, compromettendo di fatto il suo futuro, mentre la
controparte pubblica potrebbe verificare sul campo la serietà degli
impegni. Inoltre il congelamento sarebbe temporaneo, con uno
scongelamento parallelo al dispiegamento del piano di investimenti e al
completamento di tutte le garanzie regolamentari affinché la rete in
fibra sia assolutamente neutra e quindi aperta a tutti i concorrenti e a parità di condizioni come lo è oggi Metroweb.
Nondimeno,
pur avendo presentato una sorta di cronoprogramma sugli investimenti da
effettuarsi, Telecom Italia non ha mai mollato la presa sul 51%
di Metroweb o comunque di qualsiasi soluzione che si sarebbe potuta
prospettare perché la rete rappresenta il suo core business che deve
essere consolidato nel gruppo. Il braccio di forza è continuato fino
alla doccia gelata della mail di Maurizio Tamagnini, a.d. del Fsi. Il
top manager ha messo nero su bianco la non percorribilità
della proposta presentata dalla società presieduta di Giuseppe Recchi
per avere un ruolo chiave nella governance di Metroweb e nella nuova
rete.
Intanto, si legge sull’Ansa, Recchi
non commenta e conferma che se ne riparlerà dopo il Cda del 7
maggio, perché Telecom sta “facendo un gradissimo piano di investimenti e
siamo concentrati su questo nell’interesse della società e del Paese.
Poi – ha proseguito – qualunque altra opzione che possa accelerare la
consideriamo sempre preservando la capacità di creare valore di una
azienda che deve operare sul mercato con dei ritorni”. Recchi ha
osservato: “Dobbiamo fare solo cose che abbiano una razionalità
industriale e e finanziaria, non possiamo fare cose ideologiche. Siamo
totalmente allineati con i programmi del governo e impegnati a
raggiungere gli obiettivi comunicati alla comunità finanziaria, che sono
gli stessi del governo, ossia la banda ultra larga diffusa in molte
regioni”.
Insomma per ora la banda ultra larga – o meglio l’evoluzione del Paese – deve passare per la redditività dell’ex monopolista
di Stato. D’altronde non si capisce come potrebbe essere diverso: così è
già per tutti gli Stati al mondo, tranne che per il Belpaese.
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