01/07/2015 - Venerdì
26 giugno 2015, mentre la Francia riprendeva fiato dopo gli attentati
di Lione la Somalia tornava a vivere il suo tramonto rosso sangue.
Due realtà geopolitiche diverse, accomunate dalla paura reale del terrorismo.
La
Francia è il cuore dell'Europa dabbene, baluardo dei diritti civili e
luogo di innumerevoli storie dal risvolto romantico. Insomma la prima
della classe, da sempre.
La
Somalia è l'irrecuperabile della situazione, quella che non fa i
compiti a casa, che finisce in castigo e che i diritti civili non ha
nemmeno idea di cosa siano. Le innumerevoli storie della Somalia, riguardano più che altro la cronaca nera che di romantico non ha mai avuto nulla.
Nonostante
la Francia abbia dei trascorsi di terrorismo su suolo nazione è
difficile avvicinarla anche solo per sbaglio al grado di violenza che la
Somalia ha maturato negli anni.
Frettolose
analisi e qualunquismo hanno legato malamente ciò che è successo a
Lione all'attentato della base AMISOM (African Union Mission In Somalia) di Leego a Sud di Mogadiscio.
Le dinamiche e le vicende sono talmente distanti tra loro che è persino irrispettoso metterle una accanto all'altro.
Quando
si analizzano le dinamiche tattiche dei terroristi non lo si fa per
dare un premio al più spietato dell'anno ma si cerca di comprendere i
migliori approcci per contrastare la minaccia.Si
tenta di non cadere nella trappola del qualunquismo dove ogni attentato
è uguale all'altro, dando spiegazioni improbabili e collegamenti
fantasiosi.
Quanto accaduto a Lione è già stato ampiamente trattato. Yassine
Salhi è un giovane immigrato di seconda generazione che vive nel
distretto di Saint-Priest nel sud di Lione. Ha 35 anni e una famiglia
che vive con lui. Ha
un lavoro poco importante e un'istruzione di base. Frequenta una
moschea che però è già considerata luogo di estremismi, nonostante la
sorveglianza dei servizi segreti francesi nulla ha fatto pensare che
Yassine fosse un professionista del terrore.
Le dinamiche dell'attacco all'impianto di gas di Saint-Quentin-Fallavier sono rudimentali, poco avvezze a mietere vittime. La
decapitazione e il conseguente impalamento del suo datore di lavoro
sembrano la copia identica di un video diffuso su internet dall'IS. Il probabile selfie con la testa mozzata sarebbe la ciliegina sulla torta, una chicca che ancora nessuno ci aveva dedicato.
L'obbiettivo
è di basso profilo e l'attentato è messo in atto con tecniche
elementari che sembrano copiate da un film d'azione hollywoodiano. Niente lascia trasparire una preparazione di natura militare ed è chiaro come l'attentato manchi di pianificazione e struttura. La
convinzione di poter far esplodere delle bombole di comune gas
urtandole con la macchina è accettabile ma è alquanto inusuale. Il
fulcro dell'attentato sarebbe rimasto vittima del fato, l'unica cosa che
un terrorista non può permettersi di fare è proprio affidarsi al caso.
A Leego la storia che ci si para davanti è tutta un'altra questione.
La Somalia convive con la guerra da tempo immemore, anche i lattanti sanno come usare un Ak-47 senza farsi male.
Riuscire a pianificare un attentato soddisfacente è una questione sociale di una rilevanza quasi inammissibile.
Ne
risulta che dalle sorti delle azioni pianificate, non si decide solo la
vita delle ignare vittime ma anche quella della famiglia
dell'attentatore.
Ed è proprio sulle famiglie che si punta il Jolly.
Ai
soggetti scelti per il macabro rituale viene promesso un miglioramento
netto del tenore di vita della famiglia. In un paese come la Somalia
dove la vita ha un valore del tutto aleatorio, migliorare il proprio
status sociale può fare la differenza tra la vita e la morte. Non
importa come questo status viene raggiunto, nemmeno i somali vogliono
morire poveri.
Così,
circuiti e indottrinati vengono reclutati soggetti che molto giovani
con trascorsi militari in organizzazioni violente. A 25 anni, a
Mogadiscio, sei l'equivalente di un veterano decorato.
Il
terrorismo non è solo una questione ideologica ma è anche e sopratutto
una questione sociale. In Somalia il terrorismo smette di essere una
scelta quando diventa necessità di sopravvivere.
Per
tutte queste ragioni gli attentati nella terra degli Shaabab sono
studiati e pianificati attraverso una direzione strategica del gruppo
islamico radicale. Gli obbiettivi non sono scelti tra i più semplici ma
tra quelli che hanno un significato ideologico o simbolico rilevante,
meglio se può portare un grosso impatto mediatico.
Gli
attentati, non sono solo violenza fine a se stessa ma sono una vetrina
sui finanziamenti da elargire ai vari gruppi di cui un'organizzazione
terroristica si compone. Possono essere un modo per mostrare la propria
importanza ed influenza ai sostenitori delle varie cellule, come è
successo proprio in Somalia negli ultimi anni.
L'attentato
al centro commerciale Westgate di Nairobi nel Settembre 2013 e quello
al campus in Garissa hanno contato un numero esorbitante di morti e un
costo complessivo dell'operazione quasi pari a zero.
In
entrambi i casi la pianificazione e il commando sono stati il punto di
forza dell'azione, i soggetti vittime dell'azione erano bambini e
famiglie nel primo caso e giovani studenti nel secondo.
Questi
due eventi hanno smorzato subito il flusso di turismo verso la capitale
keniota e creato un clima di insicurezza generalizzato che - in modo
minore - dura ancora oggi.
Oltre
ha mostrare il baratro fin dove gli esseri umani si possono spingere
questi due eventi hanno avuto il duplice scopo di evidenziare l'alto
livello militare raggiunto da Al-Shaabab ( per i finanziatori ) e la
forte vena di estremismo che li caratterizza.
Nel
caso del Westgate un commando armato di 10 uomini a volto coperto ha
fatto irruzione da diverse entrate del centro commerciale sparando a
vista sui visitatori.
L'offensiva
è iniziata verso le ore 12 e un paio di ore dopo ha preso il via la
seconda parte dell'azione rivolta contro i poliziotti che tentavano di
fare irruzione.
L'asserragliamento
è durato poco più di un giorno e le vittime totali sono state 68 con un
numero di feriti che oscilla tra 150 e 200.
La
complessità di trincerarsi dentro un luogo grande come un centro
commerciale è evidente anche a chi non è molto esperto nel settore
militare, le variabili sono tantissime. Tuttavia, il ritorno di immagine
che questo atto ha portato con se è impagabile per la cellula somala.
Parlare
di "benefici" con 68 morti accertati è aberrante ma reale, il
ragionamento messo in atto dai terroristi è proprio questo.
A Garissa il metodo usato è più complesso e standardizzato.
Un'autobomba
o uno Human-IED entrano in un edificio fortemente frequentato oppure in
luoghi ad alta densità facendosi esplodere per creare una prima ondata
di caos e vittime.
Una
volta rotta la routine quotidiana con la prima esplosione i miliziani
appiedati e ben armati entrano nell'edificio o nella zona interessata e
aprono il fuoco.
Una
tecnica semplice ma a tutt'oggi efficacissima che rispetta i termini di
economicità ed efficienza tipici dei gruppi terroristici.
Questa tecnica è stata utilizzata anche venerdì scorso alla base AMISOM presso Leego 130km a sud di Mogadiscio.
Un'autobomba
carica di esplosivo è stata inviata a folle velocità contro la base
delle truppe di peacekeeping dell'Unione africana, subito dopo
l'esplosione è seguito uno scontro a fuoco durato - riferisce l'agenzia Reuters - oltre tre ore.
I morti accertati sono più di 50 e quasi tutti soldati del vicino Burundi, il bilancio è però destinato a salire.
Nonostante
quanto si è detto in queste ultime ore mi pare improbabile accostare i
fatti di Lione a a quelli somali, le ragioni sono diverse.
In
primis i metodi utilizzati per le operazioni sono diametralmente
opposti, da una parte imprecisione e dall'altra una freddezza letale.
In secondo luogo e non meno importante sono le ragioni che hanno sospinto i due attentati.
In
Somalia le ragioni sottese alla violenza di venerdì sono molto più
attinenti a questioni regionali che coinvolgono la perdita del potere e
di influenza da parte di Al-Shaabab.
Le
milizie islamiche infatti circa un decennio fa si erano conquistate la
fiducia dei suoi sostenitori promettendo maggior sicurezza economica e
sociale dopo le violenze dei signori della guerra che hanno martoriato
il paese per mezzo secolo.
Sicuri dietro il muro di sostegno popolare le milizie hanno iniziato ad instaurare una forma di sharia
piuttosto severa che non è vista di buon grado dai somali musulmani, in
larga parte di rito sunnita, vicini alla dottrina sufi, più moderata.
Vivere
sotto la repressione di un gruppo che dal 2009 ha vietato ogni libertà
individuale, ha allontanato la popolazione dal gruppo militante che se
non vuole vedere scemare ancora il suo consenso farebbe bene a rivedere
le sue decisioni politico-religiose.
L’approccio
wahhabita, ha sollevato molti malumori tra le aree più urbanizzate che
sarebbero disposte ad accettare solo alcune limitazioni in cambio della
"pace" garantita dagli Shaabab.
Ma si può parlare davvero di pace e stabilità in Somalia?
Nonostante
le evidenti prove in decenni di soprusi i somali sembrano cedere di
nuovo alle lusinghe di chi gli promette enormi vantaggi con pochi
sacrifici.
Umar
- l'attuale leader delle milizie terroristiche - si ipotizza sia
disposto a concedere l’apertura di nuovi corridoi umanitari nelle aree
controllate dai suoi uomini, recuperando quell'immagine gloriosa
sbiadita negli anni.
In
un contesto come questo gli attentati all'AMISON sarebbero una vetrina
perfetta per dimostrare come il gruppo terroristico sia in grado di
centrare obbiettivi anche molto importanti, gettando così le basi per la
sua nuova leadership regionale.
Un
ruolo importante potrebbe avere anche il presunto avvicinamento di
Al-Shaabab al Califfato Islamico di Al-Baghadadi che rappresenta un
grosso esempio di virtuosismo estremista.
L'obbiettivo di venerdì ci fa propendere per una ragione di tipo regionale e non tanto"internazionalistica".
Considerando Francia e Somalia due eventi distinti e non collegati possiamo concentrarci sui veri motivi di tali eventi.
Nel
caso francese l'emulazione del califfato e nel caso somalo - almeno per
questa volta - questioni regionali legate al controllo del territorio.
In
Somalia è già presente un governo regolare e una missione delle nazioni
unite che con importanti investimenti nel paese ha già ridotto
notevolmente l'influenza del gruppo terroristico. Tuttavia, la marginale importanza che viene data a paesi come questo non lascia presagire nulla di buono per il futuro.
Sarebbero
necessari investimenti maggiori e un impegno politico stabile e
duraturo dei paesi europei, in primis l'Italia che ha da sempre un
dialogo privilegiato con la Somalia.
L'evoluzione
sempre più trans regionale di Al-Shaabab e il suo nuovo obbiettivo di
reinventarsi come meteora del califfato non può che destare
preoccupazioni, ma la Somalia dista 150 ore e ben 9.000km da Roma. Pare dunque che possiamo permetterci di non ascoltare e di non vedere?
Denise Serangelo
(nella foto il chief of staff di AMISOM visita un soldato ferito nell'attacco)
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