la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
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"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
venerdì 24 luglio 2015
Gli euroimbecilli si cominciano ad accorgere che questo Euro fa arricchire solo la Germania, vivadio benvenuti nel mondo reale
Ecco quanto guadagna la Germania con la crisi dell’Eurozona
La Germania ha un forte incentivo a conservare condizioni di
instabilità nell’area della moneta unica. È questo il vero azzardo
morale che sta esacerbando la crisi nell'eurozona, rendendola l'area a
minor crescita del pianeta e accentuando la divergenza economica tra i
paesi che ne fanno parte, con effetti potenzialmente dirompenti sulla
stessa tenuta dell'area valutaria. L'ultimo rapporto del Cer (Centro
Europa Ricerche) intitolato "Favoletta morale o calcolo economico?"
Si può dire che, pur tra molti distinguo e con alcune eccezioni,
l’interpretazione prevalente sul caso greco sia quella basata sulla
contrapposizione fra la formica e la cicala. Non poche volte è
risuonato, inoltre, il richiamo all’etica del capitalismo di Max Weber,
che molti di noi hanno imparato a conoscere negli anni del liceo. Come
stupirsi, allora, che una popolazione educata da generazioni al rispetto
assoluto delle regole abbia alla fine avuto il suo scatto di orgoglio?
Che sia quindi giunta a riconoscersi unanimemente nell’opzione Grexit,
alla fine prospettata da un esasperato ministro Schäuble? Nell’auspicio
più generale che la lezione alla Grecia sia d’insegnamento per
l’opinione pubblica europea.
Dobbiamo tuttavia chiederci se questa visione di recuperata moralità
possa essere sostenuta in termini di analisi economica: in altre parole,
se osservassimo le odierne vicende europee avendo come i riferimento i
principi della teoria economica e non della morale, arriveremmo alle
stesse conclusioni?
Per rispondere, cominciamo con l’analizzare il significato del
grafico 1. In esso si dà visione di come, nel tempo, l’apprezzamento per
la moneta unica sia andato crescendo nei paesi del Nord relativamente a
quanto osservato nei paesi del Sud. Un primo balzo di questo indicatore
si osserva prima della metà degli anni duemila, in coincidenza con
l’allargamento a Est dell’Unione a cui, di fatto, è corrisposto un
ampliamento della sfera di influenza tedesca. Il secondo momento di
rialzo dell’indicatore coincide, invece, col progressivo avanzare della
crisi dell’euro. Di fatto, secondo i dati riportati nel Rapporto 1/2015,
il 52 per cento dei tedeschi è oggi molto favorevole alla moneta unica;
una quota che scende al 40 per cento in Francia, al 36 per cento in
Spagna, al 28 per cento in Grecia e Portogallo, al 22 per cento in
Italia. Da cosa nasce questa divaricazione?
Una possibile interpretazione, la si ritrova nel grafico 2, ancora
tratto dal nostro Rapporto 1. Come si osserva, esisterebbe una
correlazione statisticamente significativa fra i livelli della
disoccupazione e il grado di apprezzamento per la moneta unica: tanto
più alto il primo, tanto più basso il secondo. La visione “moralistica”
ci direbbe, a tal riguardo, che le cicale mediterranee, incapaci di
riformare le proprie economie negli anni di prosperità, attribuiscono
all’euro il prolungarsi della crisi e la caduta di benessere determinata
dall’aumento della disoccupazione. Tuttavia, anche ammettendo che
questa lettura possa spiegare la disaffezione dei paesi del Sud, come
motivare la crescente affezione dei paesi del Nord? In altre parole,
come mai le formiche dell’Eurozona non manifestano insoddisfazione verso
una moneta unica sempre più minata dai tentativi di azzardo morale
delle cicale?
La risposta, ci sembra, sta nel fatto che la Germania ha tratto e
trae enormi benefici dalla crisi dell’euro. Non dal suo dissolvimento,
si badi bene, ma da una situazione di protratta instabilità che da una
parte esalti i fenomeni di flight to quality che abbiamo visto all’opera
nel corso degli ultimi quattro anni e dall’altra consenta di
disinnescare i normali meccanismi di riequilibrio macroeconomico.
Quest’ultimo punto è cruciale. Si consideri il grafico 3, dove è
riportata la differenza fra il tasso di disoccupazione effettivo e il
Nawru. A partire dal 2010, ossia in coincidenza con l’avvio della crisi
dell’euro, la curva scende al di sotto dello zero, il che dovrebbe
segnalare l’avvicinarsi di condizioni di piena occupazione e, di
conseguenza, l’accumulo di latenti tensioni salariali. Una situazione a
cui si arriva in virtù di un incredibile livello di surplus corrente,
che secondo le stime delle organizzazioni internazionali raggiungerebbe
addirittura l’8,5 per cento alla fine dell’anno in corso: un livello,
tanto per dare un termine di paragone, due volte e mezzo superiore a
quello cinese.
Ora, a fronte di una tale situazione i meccanismi di stabilizzazione
macroeconomica impliciti nelle funzioni di reazione delle banche
centrali richiederebbero, già da tempo, un aumento dei tassi di
interesse, un apprezzamento del cambio e un riassorbimento del surplus
estero.
Grazie alla moneta unica questi meccanismi non hanno mai operato, dal
momento che il valore dell’euro è rimasto al di sotto del valore
teorico che il marco avrebbe assunto in presenza di avanzi correnti di
tali dimensioni. Ma è con la crisi dell’euro che i meccanismi di
stabilizzazione macroeconomica vengono, per la Germania, definitivamente
aggirati e anzi invertiti. Da un punto di vista generale, perché la
crisi ha generato deflazione all’interno dell’Eurozona e ciò ha sopito
le latenti tensioni salariali sul mercato del lavoro tedesco; da un
punto di vista più specifico, perché grazie alla crisi la Germania
beneficia di tassi di interesse storicamente bassi e di un forte
deprezzamento del cambio nei confronti degli Stati Uniti e di altre
aree. Il risultato è, appunto, l’ulteriore aumento del surplus
commerciale che, di fatto, sta alimentando in Germania una vera e
propria “bolla manifatturiera”. Certo, bolla fondata su una solida
morale: non però quella weberiana, e neppure quella kantiana, bensì
quella mercantilista. Ossia la morale di una politica economica non
cooperativa che individua la fonte della ricchezza economica nelle
esportazioni e che per conseguirla non esita a comprimere i salari reali
e comunque non trasferisce ad essi che in minima parte gli aumenti di
produttività del lavoro. In un’area valutaria in cui, per definizione,
non sono possibili recuperi della competitività di prezzo basati su
riallineamenti del cambio, una politica mercantilista agisce come un
devastante rullo compressore sulle economie meno competitive,
sgretolandone la capacità produttiva a tutto beneficio dell’ulteriore
rafforzamento del comparto manifatturiero della potenza mercantilista.
Ci soccorre, in questa lettura, l’analisi svolta da Sergio De Nardis
che, in un contributo di prossima pubblicazione , ricorda come la
Germania si caratterizzi, non solo nel confronto con i paesi più
industrializzati, ma soprattutto in riferimento alle “leggi dello
sviluppo economico”, per una quota troppo elevata del settore
manifatturiero. L’originalità dell’analisi di De Nardis sta nel rilevare
come questo fenomeno, anche se originato da fattori positivi come uno
shock sulla produttività (che rientra pienamente nella metafora della
formica), può protrarsi nel tempo solo perché la politica economica
tedesca opera deliberatamente al fine di “spegnere gli interruttori del
riequilibrio”. Il riferimento specifico di De Nardis è alla sistematica
violazione di quella che è al contempo una condizione di equilibrio
microeconomico e di massimizzazione microeconomica: l’uguaglianza fra le
variazioni dei salari e della produttività. Nel modello tedesco, in
particolare nel settore manifatturiero, le prime sono invece
costantemente conservate al di sotto delle seconde, con l’esplicito
obiettivo di accumulare avanzi commerciali (e dal momento che questi
surplus sono disavanzi altrui, è chiaro che qui stiamo entrando in una
diversa “favoletta morale”, quella del lupo e dell’agnello…). Alimentare
la crisi dell’euro, che come abbiamo visto consente di spegnere gli
“interruttori” del riequilibrio macroeconomico, rientra nella stessa
logica.
Allo stesso risultato concorre lo spostamento della narrazione sulla
crisi dal terreno suo proprio, quello di crescenti squilibri delle
bilance dei pagamenti entro un’area valutaria, a quello di una crisi da
debito pubblico. Questo shift non soltanto apre la strada alla favoletta
morale della formica e della cicala, ma, più concretamente, ha
legittimato quale priorità di policy nei paesi in crisi un severo
aggiustamento di bilancio: col risultato di impedire politiche
anticicliche, ed anzi di forzare politiche direttamente procicliche che
hanno colpito severamente la domanda interna dei paesi interessati sui
due lati dei consumi privati e degli investimenti pubblici. Ben
diversamente aveva reagito la Germania alla propria recessione negli
anni 2008 e 2009, facendo di un imponente piano di intervento economico
con fondi pubblici a presidio del settore manifatturiero (69 miliardi di
euro) e per il salvataggio del sistema bancario nazionale (259 miliardi
di euro, 646 incluse le garanzie) l’architrave della strategia di
recupero del prodotto interno lordo perduto nei primi anni della crisi.
Anche questo dato di fatto viene annegato nella narrazione della formica
e della cicala.
Secondo i principi della razionalità economica, la Germania ha
insomma un forte incentivo a conservare condizioni di instabilità
nell’area della moneta unica. È questo il vero azzardo morale che sta
esacerbando la crisi nell’eurozona, rendendola l’area a minor crescita
del pianeta e accentuando la divergenza economica tra i paesi che ne
fanno parte, con effetti potenzialmente dirompenti sulla stessa tenuta
dell’area valutaria. È un aspetto che andrebbe tenuto assai più in
considerazione rispetto ad approcci di natura moralistica, che non
paiono in grado di spiegare le dinamiche economiche dell’Eurozona.
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