“Abbiamo
bisogno e vogliamo un cambiamento”. Ora, è vero che un ritornello di
Papa Francesco, rivolto in primo luogo a chi si occupa di informazione, è
sull’ermeneutica: e cioè che, dato che il pensiero si esprime in un
discorso, quando si riflette su una singola frase è necessario
considerare l’insieme del ragionamento. Ma questa frase, da lui
pronunciata parlando al secondo raduno mondiale dei movimenti popolari
in Bolivia, può essere considerata la sintesi di quel testo, e non solo.
Quella frase comprende in sé in modo straordinario la visione del tempo
di crisi che il mondo intero sta vivendo, e insieme l’unica via per
uscirne. Che non è continuare su questa strada, ma, appunto, cambiare.
Cambiare l’economia mondiale: sembra utopistico. Può esser preso come
la predica del parroco, il disegno di un ‘sogno’, ascoltato con un po’
di commozione ma spesso dimenticato appena usciti dalla chiesa. E invece
è un pensiero straordinariamente pratico, che può risultare utopia
soltanto per un pensiero pigro, adagiato sulla certezza dell’immortalità
dell’economia finanziaria. Da noi per esempio, nei Paesi sviluppati, si
pensa alla crisi come ad un fenomeno passeggero. Meglio, come ad un
‘assestamento’ del sistema in vista di un suo rilancio. Quindi come ad
una dolorosa ma necessaria crescita dello stesso sistema nel quale
stiamo vivendo. Lo si pensa leggendo, sulla scrivania o sotto
l’ombrellone o sotto il condizionatore per chi resta in città,
l’editoriale, l’intervista, l’analisi o il commento prevalenti. Lo si
pensa. E incredibilmente non si pensa, in questa accettazione
compiacente del liberismo selvaggio, oggi imperante e impegnato a dettar
legge anche in un’Europa ‘ragioniera’ sempre più lontana dall’Europa
etico-politica di De Gasperi, Schumann e Adenauer, ad un fatto: che l’
‘assestamento’ dell’economia mondiale si sta traducendo nello scrollarsi
di dosso, da parte delle economie nazionali e locali più vicine e
sensibili ai bisogni dei popoli ma sempre più condizionate dalla finanza
globale, del ‘peso’ economico dei diritti sociali e umani. E’ un fatto
fisiologico: perché i diritti umani non sono fra le finalità del
‘capitalismo selvaggio’, del liberismo imperante. Ma non per questo è un
fatto neutro o ineluttabile. Incredibilmente invece, non si pensa al
fatto che questi diritti non sono minacciati solo nelle fasce povere
della popolazione, ma lo sono sempre più anche nelle classi medie:
perché sono proprio le classi medie, soprattutto quelle europee, con le
loro conquiste sociali, la bestia nera dell’economia finanziaria, il
‘peso’ economico ma ancor più ideologico che questo sistema vuole
scrollarsi di dosso. Alla scrivania, sul divano o sotto l’ombrellone si
pensa pigramente che il rigore finirà. Sfugge la disumanità di questa
economia insensibile alla persona, sfugge la disumanizzazione delle
persone asservite a questa economia. Sfugge l’antipatia del ‘liquido’
sistema finanziario per ogni forma di immobilizzazione della ricchezza:
compresa quella, tipica dell’Europa, in termini di prestazioni e servizi
che rappresentano la realizzazione dei diritti sociali.
Una immobilizzazione alla quale concettualmente appartiene anche,
esempio che troviamo nei fatti di questi giorni, la ristrutturazione del
debito greco sostenuta da Draghi e dalla Lagarde nell’ambito del
programma di riforme per la Grecia negoziato all’Eurosummit: un
programma studiato “per far diventare la Grecia un’economia in rapido
sviluppo”, come l’ha descritto il Presidente della Bce. Perché
l’obiettivo di una politica economica deve essere la crescita. E
l’obiettivo dell’Europa deve essere una crescita condivisa, la crescita
di ‘noi’ Europei. E’ sintomatico che oltre a Schaeuble, ministro
teutonico delle Finanze ma niente di più, ai tagli fossero favorevoli i
Paesi approdati da poco in Europa, che non hanno vissuto la nascita
dell’Europa politica dei padri fondatori, e che hanno una visione
ragionieristica dell’Unione: Lituania, Estonia e altri. Ma al dilà del
‘laboratorio Europa’, dove da anni sta aggredendo i centri decisionali,
il problema di un sistema che ha fretta di liquefare le risorse locali
per alimentare il risiko globale, è presente in tutto il mondo.
Dappertutto si comporta nello stesso modo, producendo la crescita
dell’economia ‘liquida’ piuttosto che il benessere delle persone.
Dappertutto è così: il problema è mondiale.
Per questo il ‘cambiamento’ indicato da Francesco è l’unica
soluzione. Una soluzione che, per le ragioni dette, non è solo a
vantaggio delle popolazioni dei Paesi poveri come quelli dove il Papa è
stato in missione, ma anche, e forse soprattutto, e magari
inaspettatamente, a vantaggio di quelle dei Paesi evoluti. Un
cambiamento verso un’economia ‘etica’, che non si serva dell’Uomo, ma
serva l’Uomo. In quella frase, oltre l’obiettivo c’è anche il metodo:
‘abbiamo bisogno’, ‘vogliamo’, il cambiamento. Noi, prima persona
plurale. E’ importante: i ‘mercati’, infatti, sono impersonali. Gli
‘affari’ dettano legge al disopra e al dilà dei singoli operatori: sono
entità astratte che precedono, in in quella scala di valori, persino le
persone che vi operano. Da secoli c’è tutta una retorica su una
presunta ‘necessità’ di mercati e affari, talmente pressante da aver
prodotto una ampia accettazione, perlomeno nei Paesi di cultura
occidentale. L’Economia del futuro, quella etica, è altra cosa. Riguarda
‘noi’. Persone. Volti umani. Noi tutti. Dal Sudamerica all’Europa. Noi,
figli di una ‘Patria Grande’ quanto il mondo. Non è un’utopia: è la
soluzione. Che ha radici non solo nella saggezza dei popoli poveri:
“Questo sistema non regge, gli umili lo hanno capito prima degli
scienziati”, ha detto Francesco in Bolivia. Ma è dentro anche il
pensiero politico-economico, e dentro tante sagge decisioni di ieri come
di oggi, di uomini e donne di buona volontà della Vecchia Europa.
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