Lavoro. Se la Cgil scopre la cogestione alla tedesca, che studi finanzia la Fondazione An?
Pubblicato il 21 settembre 2015 da Andrea Delmastro*
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Politica

Partecipazione dei lavoratori
Mentre siamo infervorati attorno a
documenti identificati dall’età anagrafica dei firmatari, mentre ci
chiediamo quale possa essere il futuro della destra culturale,
prepolitica e quindi politica italiana, incredibilmente perdiamo di
vista mutamenti epocali. La scorsa settimana su un tema centrale
che coinvolge economia, occupazione, lavoro, o meglio modelli di
organizzazione del lavoro è avvenuto un cataclisma.
Confindustria per il tramite del presidente Squinzi ha accennato alla
possibilità di collegare i salari alla produttività. La Cgil (non la Uil
o la Cisl ma la Cgil!) per bocca di Susanna Camusso, ha rilanciato,
invocando l’art. 46 della Costituzione e il modello tedesco della
codeterminazione.
Le due principali organizzazione del
capitale e del lavoro, che hanno sempre rifiutato ogni modello di
collaborazione e di partecipazione perché inammissibile teoria fascita,
si annusano e rilanciano su un tema che da sempre appartiene alla
cultura della destra italiana, che da sempre contraddistingue la destra
italiana. In altre parole si impone finalmente il modello della
partecipazione che per noi è sempre stato segno di civiltà, prima ancora
che strumento per competere sui mercati globali, perché concilia
capitale e lavoro, nazione e società.
Possibile che da questo dibattito possa
essere assente la Destra Italiana che – irriducibile alle destre
banalmente conservatrici europee – ha nel suo dna proprio il modello
partecipativo in economia? Possibile che noi che, in splendida ed
orgogliosa solitudine, abbiamo sempre presentato il progetto di legge
della partecipazione non ci accorgiamo dei segnali di una società che
cambia e introduce temi nostri?
La terribile crisi economica,
l’incapacità dello Stato di intervenire per offrire protezioni e la
comune sofferenza di lavoratori e datori di lavoro, le sfide della
globalizzazione hanno cambiato profondamente il mondo del lavoro e delle
relazioni sindacali e la apertura congiunta di Confindustria e CGIL
all’eresia partecipativa ne è la più eloquente testimonianza. Le
dinamiche conflittuali hanno lasciato, dunque e finalmente, il posto ad
una possibile visione comunitaria? Non lo so, non lo sappiamo, ma i
segnali ci sono.
Il mondo del lavoro reale sa che le
ricette di Renzi, oltre a precarizzare l’esistenza di tutti, non sono
sufficienti per competere sul mercato globale. Il mondo del lavoro sa
che non possiamo – per competere – fare la guerra sul costo del lavoro a
certe economie postsocialiste che coniugano iperliberismo ed
autoritarismo in un mix disumano e degradante: sino ad oggi abbiamo
rincorso i cinesi perché il costo orario del lavoro in Italia non fosse
10 volte superiore, è tempo di immaginare che dentro a quell’ora ci sia
un contenuto di intelligenza, di esperienza, di professionalità e di
militanza molto più alto. Pare che Confindustria lo abbia compreso, pare
che la CGIL si sia arresa alla fine dell’era della lotta di classe.
Noi, da sempre, abbiamo portato avanti la più romantica, poetica,
competitiva eresia economica: la partecipazione.
Ora questa poesia inizia a fiorire sulle
labbra dei nostri avversari e noi siamo drammaticamente assenti da
questo dibattito… In compenso sappiamo tutto di trasformazioni
societarie e di diritto in tema di fondazioni…
Coniugare flessibilità con un maggiore
coinvolgimento nelle scelte dell’impresa è sempre stato patrimonio della
cultura di destra, partendo dal presupposto che quanto più un
lavoratore sarà partecipe delle strategie aziendali e degli utili della
stessa, tanto più sarà disposto a rinunciare ad un sistema di garanzie
rigide, interpretando sempre più l’impresa come una comunità di valori
di cui è il primo protagonista.
L’Italia, nella sua insopprimibile
vocazione industriale, deve recuperare competitività non rivedendo al
ribasso i salari, ma valorizzando professionalità e saperi per il
tramite del coinvolgimento dei lavoratori nella impresa. Ma v’è di più:
l’impresa partecipata non dismette le catene industriali e gli
investimenti per garantire immediati vantaggi agli investitori anonimi
di un sistema finanziario che ha smarrito la sua funzione ancellare
rispetto al mondo dell’economia reale.
L’impresa partecipata vince perché
coniuga e concilia capitale e lavoro, eccita gli animi, costruisce una
comunità. L’impresa partecipata vince perché contiene una fagocitante
finanziarizzazione che uccide i tempi di investimento per la voracità di
investitori anonimi e per la cecità di manager apolidi che mirano solo a
aumentare gli utili con i ritmi serrati della finanza inconciliabili
con i tempi degli investimenti industriali. La partecipazione agli utili
e alla gestione dell’impresa significa “rubare l’anima ai lavoratori”,
coinvolgerli nelle ragioni dell’impresa, portarli al governo
dell’impresa, dove lo scambio non è più al ribasso, non è più salari più
bassi e assunzione, ma è uno scambio di più alta tensione morale e
strategica: responsabilità vera di governo dell’impresa da un lato e
dall’altro liberazione ed eccitazione di energie etiche, intellettuali,
cognitive.
Questa è la battaglia per il radicamento
industriale contro il depauperamento e la dismissioni delle catene
industriali soffocate dall’avidità della finanza che, per eterogenesi
dei fini, da ancella dell’impresa ne è diventata il boia. Questa è la
nostra irrinunciabile poesia economica nazionale. Eppure siamo assenti
da questo dibattito.
Faccio una proposta modesta. Mentre i
quarantenni studiano se, come e quando utilizzare politicamente i fondi
della Fondazione A.N., è possibile immaginare che la stessa sia
incaricata di produrre studi di economia comparata sulla
partecipazione? E’ possibile che la Fondazione A.N. studi seriamente il
tema più affascinante e caratterizzante della destra italiana? E’
possibile che la Fondazione A.N. finanzi e organizzi convegni sul tema?
E’ possibile che la destra ritrovi centralità in un tema – quello
dell’economia reale contro la finanza, dell’industria contro la
depauperazione industriale, della occupazione contro la
delocalizzazione – che coinvolge il nostro modello di sviluppo, il
nostro livello di benessere ed il nostro futuro? Ma soprattutto è
possibile affermare che così ritroviamo la nostra identità prima ancora
che tentando di scimmiottare Salvini, la versione caricaturale di una
destra moderata con il manganello in mano, senza nessuna capacità di
comprensione della complessità della modernità e senza nessuna idea di
come indirizzare e governare la complessa modernità? Io credo di sì.
Questa battaglia in Fondazione A.N. mi appassionerebbe e vorrei proprio
sapere chi possa sostenere che questo significhi ‘musealizzare’ la
fondazione.
*Componente esecutivo nazionale Fratelli d’Italia, responsabile cultura
Di Andrea Delmastro*
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