Se la verità giudiziaria coincide con la best practice della governance
Per gli investitori stranieri, esattamente come per gli italiani, i
tempi della giustizia civile e penale sono ancora tra i fattori che
collocano il nostro Paese dopo il Burundi nelle classifiche
internazionali sulla competitività e la libertà d’impresa.
Forse anche per questo, ogni eccezione è fonte di ottimismo. Come nel
caso Unicredit, dove l’azione tempestiva del Tribunale del riesame di
Firenze nell’analisi e nell’archiviazione del le accuse contro la
banca ha censurato non solo gli errori del Pm, ma ha soprattutto
scongiurato il rischio di un gravissimo danno reputazionale
all’istituto, ai suoi manager, ai soci e persino ai suoi organismi di
vigilanza. Del caso si è detto e scritto già tutto, e la reputazione
della banca è certamente uscita rafforzata dalla chiarezza con cui i
giudici del riesame hanno smentito e censurato le tesi dell’accusa. Per i
giudici, infatti, non solo non esiste alcun rapporto o connivenza tra
la banca e società in odore di mafia, ma è lo stesso sistema di
controlli interni e vigilanza di cui si è dotata Unicredit a rendere
estremamente difficili comportamenti illegali di tale natura. La verità
processuale accertata, insomma, ha confermato totalmente la tesi
difensiva della banca: non solo nessun manager o consigliere ha
commesso reati o abusato del proprio ruolo, ma a garanzia del rispetto
delle procedure - sia nelle nomine che nei crediti - c’è un sistema di
governance a livello di best practice.
Per tutte le banche, e in particolare per Unicredit, la reputazione è
molto più di un asset strategico. Un credito incagliato si può
svalutare o anche vendere, ma non c’è pulizia di bilancio che riabiliti
una reputazione compromessa. Spesso si guarda alla governance come a
una questione marginale per la vita di una società quotata, ma per chi
come Unicredit ha dimensioni paneuropee ed è sottoposto allo scrutinio
dei soci, degli investitori e di oltre 50 diverse autorità nazionali e
sovrannazionali di vigilanza, garantire la best practice nel governo
societario è una necessità imprescindibile. E soprattutto, non è una
scoperta recente. Il quadro complessivo della corporate governance di
Unicredit è stato infatti definito tenendo presenti non solo le norme
vigenti, ma anche le raccomandazioni contenute nel Codice di
Autodisciplina emanato da Borsa Italiana nel marzo 2006, a cui la banca
ha aderito con delibera del consiglio del 19 dicembre dello stesso
anno. Non c’è nomina, credito, stipendio, promozione o scelta strategica
che non passi attraverso l’esame di uno o più comitati interni, senza
contare che lo stesso consiglio di amministrazione ha 9 membri
indipendenti su 19 componenti: è quanto meno difficile non solo credere,
ma anche sospettare che un consigliere non operativo possa imporre le
proprie scelte al management o creare centri di potere alternativi a
quelli istituzionali. A conferma di ciò non c’è soltanto la sentenza del
Tribunale del riesame di Firenze, ma anche il lavoro investigativo
svolto prima e dopo l’esplosione del caso dalla stessa banca. Se nessun
provvedimento è stato preso contro i dirigenti o i consigliere
sospettati, è stato non solo per l’archiviazione della magistratura, ma
anche per l’esito delle inchieste interne svolte dal Comitato governance
e dallo stesso consiglio di amministrazione, che come detto è composto
per più della metà da consiglieri indipendenti. La verità processuale e
quella della governance, insomma, coincidono perfettamente. Il resto,
come hanno detto i giudici, sono solo illazioni non sostanziate dai
fatti: dal presunto ufficio di Mercuri in Unicredit, che non esisteva,
ai presunti interventi di raccomandazione effettuati dal vicepresidente
Fabrizio Palenzona, di cui non esiste alcuna telefonata ,mai registrata
in tal senso. E se anche Palenzona avesse mai dialogato via sms un
manager di prima linea a proposito di scelte della banca, è
difficile sostenere che si sia trattato di pressioni o invasioni di
campo: lo scambio di opinioni o di giudizi personali, e non solo in
realtà di grandi dimensioni e complesse come Unicredit, evidenzia forse
amicizia e stima, ma certamente non è un reato. Non lo è per la legge,
e non lo è per la governance. Per concludere, si potrebbe aggiungere
che la questione della trasparenza e dell’eccellenza nel governo
societario ha spinto Unicredit a dotarsi persino di un codice di
comportamento interno a cui aderiscono tutti i dipendenti del gruppo,
la Carta di Integrità. La Carta non è un corpo normativo
onnicomprensivo, in quanto le leggi (prima sfera di giustizia) e i patti
contrattuali (seconda sfera), già definiscono i perimetri delle
obbligazioni soggettive. Per Unicredit, è una sorta di terza sfera di
giustizia che rafforza l’impegno sulla governance, favorendo il dialogo e
la correttezza dei comportamenti individuali all’interno del gruppo e
in ogno ufficio sparso per il mondo. Garantire che nessun dipendente,
consigliere o manager commetta abusi o reati è impossibile in una banca
come in una società manifatturiera: vigilare perchè ciò non avvenga è
invece un dovere, come Unicredit ha dimostrato al Tribunale del riesame
di Firenze.
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-11-10/se-verita-giudiziaria-coincide--best-practice-governance-073210.shtml?uuid=AC7xJpWB
Nessun commento:
Posta un commento