Nel corso degli ultimi anni, praticamente in ogni moschea italiana,
dal più piccolo scantinato, alle poche moschee vere e proprie esistenti
nel paese, si assiste ad un confronto aperto, talvolta aspro, tra coloro
che sostengono la necessità di preservare un’identità sentita come
minacciata e coloro che invece rivendicano la necessità d’essere parte
integrante della società in cui vivono ed in cui i loro figli crescono.
Si tratta in realtà di un confronto che riguarda ogni singolo migrante,
combattuto tra l’attaccamento alla tradizione, alle radici, all’origine e
l’apertura al nuovo, al cambiamento e, in definitiva, ad una nuova
identità capace di conciliare vecchie e nuove appartenenze. Il confronto
nasce principalmente dalla spinta di una generazione emergente che,
ansiosa di proiettarsi verso il futuro, interroga il rapporto che i
genitori intrattengono con le radici, le tradizioni e la società in cui
vivono. Ad essere indirettamente messa in discussione è l’idea stessa di
comunità islamica così com’era stata elaborata dai genitori quando, tra
la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, hanno iniziato ad
aprire le prime sale di preghiera. Queste, oltre a fungere da semplici
luoghi di culto, rispondevano anche alla necessità di creare – in un
paese non musulmano come l’Italia – uno spazio “protetto” dove
poter trasmettere un’identità e un’etica ai figli perché, come emerge
dalle parole emblematiche di un imam marocchino da quasi trent’anni in
Italia, “se qui c’è chi ha paura dell’islamizzazione, i musulmani
hanno paura che i loro figli possano perdere i principi, perdere la loro
religione”.
Per capire l’importanza di quella che i musulmani preferiscono
chiamare “moschea”, nonostante spesso non sia che un semplice garage o
capannone, è necessario interrogarsi innanzitutto sulla funzione che
ricopre la religione nel processo migratorio. Per molti migranti, la
religione islamica, ed in particolare la pratica quotidiana,
rappresentano una protezione contro quelli che i vari rappresentanti
musulmani incontrati nel corso del tempo definiscono “gli eccessi” della società italiana. Il palestinese Mahmoud racconta dunque di aver iniziato a praticare l’islam perché aveva “paura di perdersi”, mentre per il marocchino Abdel la religione “era un rifugio”. Le parole di Said, anche lui marocchino, sono ancor più emblematiche: “è
quando sono arrivato qui in Italia che ho cominciato a legarmi di più
alle mie radici … quando sono partito da casa, non ero più nello spazio
rassicurante della religione islamica, ma ero come un pesce fuor
d’acqua… Quando sono arrivato in Italia, possiamo dire che ho fatto
l’italiano, ma non era cosa per me”. Per questi uomini, giunti in Italia anni fa, la moschea rappresentava dunque “la prima porta a cui bussare” in quanto punto di riferimento “per ogni persona che si perde, che perde il cammino”. La moschea, per riprendere le parole di un leader storico della comunità islamica di Bologna, è come “una candela che illumina il cammino”.
La principale preoccupazione di quasi tutti coloro che hanno aperto
le prime sale di preghiera era dunque proprio quella di costruire la
comunità. Per alcuni di loro, secondo le parole di un importante imam
romano, si trattava anche di “risvegliare l’identità islamica”
di migranti non praticanti o che si erano allontanati dalla pratica
religiosa. Quest’idea di comunità s’è tradotta in moschee piuttosto
chiuse e autoreferenziali, cui spesso corrispondeva una progressiva
marginalizzazione nella geografia urbana di comunità che, oltre ad
essere spinte verso l’esterno man mano che la loro visibilità aumentava,
preferivano starsene per conto loro, all’esterno piuttosto che dentro
la città. Un esempio emblematico di questa spinta alla
“marginalizzazione” tutt’ora in corso viene dalla recente moschea di
Ravenna, una delle pochissime in Italia ad essere stata costruita
secondo le norme architettoniche islamiche, ma che sorge nella zona
industriale, tra fabbriche e capannoni, ossia isolata dal resto della
città.
Per circa tre decenni, nonostante alcune importanti eccezioni dovute
in particolare a leader lungimiranti che avevano capito l’importanza di
restare dentro la città, i musulmani hanno dunque costruito le loro
comunità senza prestare particolare attenzione alla relazione con la
società italiana, che a sua volta ha sempre considerato i musulmani come
stranieri e le comunità islamiche di passaggio, semplicemente come
corpo estraneo alla polis. Ma di fronte a figli ormai cresciuti e che
non nascondono il loro sentirsi italiani, la posizione d’indifferenza o
di chiusura dei padri risulta sempre meno sostenibile. Una domanda
banale quanto fondamentale si pone infatti con sempre più urgenza alla
prima generazione, quella dei padri migranti: “cosa fare di fronte a
figli che si sentono italiani e che sembrano allontanarsi ogni giorno di
più?”.
Di fronte alla sfida lanciata dalla generazione emergente e di fronte
alla paura di vedere i figli scappar via, da una parte c’è chi sostiene
la necessità di preservare l’identità attraverso un maggiore isolamento
e un codice comportamentale ancora più stretto o, detto altrimenti, più
fondamentalista; c’è invece chi, dall’altra, rivendica la necessità
d’uscire dalla marginalizzazione attraverso un nuovo ruolo nella società
italiana, che passa necessariamente tanto per un riconoscimento da
parte delle istituzioni, quanto per un’assunzione di nuove
responsabilità da parte dei musulmani stessi. La mancanza di
riconoscimento e legittimità da parte delle istituzioni, insieme ai
continui discorsi anti-islamici o islamofobici prodotti da media e
politici, è sicuramente uno dei fattori che maggiormente contribuiscono a
rafforzare il procrastinarsi di discorsi e atteggiamenti vittimistici e
di chiusura all’interno di numerose moschee in Italia. Ma le ragioni,
contrariamente a quanto sostengano pubblicamente molti leader musulmani,
non sono solo esogene. Infatti, anche laddove colgono l’importanza di
un’evoluzione interna e di un’apertura nei confronti della società
italiana, le comunità islamiche si scoprono terribilmente inadeguate,
non solo perché frammentate, ma soprattutto perché prive di risorse
umane, oltre che economiche (è bene ricordare che le comunità, non
potendo partecipare all’8 per mille, vivono esclusivamente dei
contributi dei fedeli). In molti casi, a mancare terribilmente non sono
solo gli imam, ossia “ministri dediti al culto”, ma anche e soprattutto
leader che siano in grado d’interagire con le istituzioni, di parlare ai
media e, più in generale, di definire una strategia d’azione capace di
far uscire le comunità islamiche dall’isolamento. Il non aver dato
sufficiente importanza alla formazione di una vera leadership è
probabilmente il più grave errore strategico commesso da tutte le
componenti della variegata comunità islamica durante i suoi trent’anni
d’esistenza in Italia.
La via d’uscita sembra oggi rappresentata dai giovani di seconda
generazione, capaci non solo di parlare alla società in cui vivono, ma
anche di sottrarsi all’approccio vittimistico e diffidente in cui si son
rifugiati una parte di coloro che han gestito le moschee fino ad oggi.
Il primo ostacolo sulla via del rinnovamento sta nel fatto che, ed
eccezione di qualche caso, “i vecchi” non hanno nessuna intenzione
d’abbandonare il controllo dei luoghi che hanno aperto per dar spazio a
nuove forze che in molti casi metterebbero rapidamente a nudo la loro
inadeguatezza. Ma l’esito del confronto all’interno delle moschee
italiane dipenderà anche dalle risposte delle istituzioni pubbliche,
spesso gestite da politici ed amministratori che non hanno il coraggio o
la capacità di riconoscere che l’islam è ormai parte integrante delle
città che amministrano.
http://formiche.net/2015/11/11/islam-e-dintorni-il-confronto-nelle-moschee-italiane/
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