La firma di Mario Draghi sui derivati di Stato

Un immagine del 2001 che ritrae Mario Draghi, allora Direttore Generale del Ministero del Tesoro (Credits: LESLIE E. KOSSOFF/AFP/Getty Images)
«Molti errori sono stati fatti negli anni Novanta per far entrare l'Italia nell'euro e oggi si trasformano in più debito, nascosto dai conti ufficiali, in un'area molto grigia che al Tesoro solo poche persone sono in grado di comprendere e maneggiare». (Testimonianza resa da un funzionario governativo a Repubblica, 26 giugno 2013)
Dopo l'annuncio del Quantitave Easing di ieri, Mario Draghi è oggi su tutte le prime pagine, celebrato come il salvatore dell'Italia e dell'Europa. Nel passato di Draghi, tuttavia, c'è una vicenda che ancora fa sentire il suo peso nei nostri disastrati conti pubblici e che rischia di minare la ripresa della nostra economia. La storia è quella dei derivati sottoscritti tra il 1991 e il 2001 quando Draghi era Direttore Generale al Ministero del Tesoro.
È una storia scivolosa, quella dei derivati della Repubblica, e forse è meglio cominciare dall’inizio. Siamo nei primi anni ’90. A guidare il governo del Paese si succedono Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi, Romano Prodi. Ognuno di loro, soprattutto Prodi, si trova nella condizione di dover sistemare i conti pubblici per poter permettere all’Italia di entrare nell’Euro dalla porta principale. Per poter partecipare alla nuova valuta, infatti, gli Stati dovevano infatti rispettare i cosiddetti parametri di Maastricht: un deficit inferiore al 3% del Pil e un rapporto debito/Pil inferiore al 60%., tra le altre cose.
La storia la conosciamo: l’Italia riuscirà ad adottare l’Euro sin da subito pur avendo un debito ben superiore al 60% del Pil grazie ad alcune misure che portarono a una consistente riduzione del deficit. Forse ricorderete l’Eurotassa, la vendita delle riserve auree alla banca centrale e le nuove tasse sugli utili. Misure una tantum, cosmesi contabile, secondo i tedeschi, per nulla convinti del nostro ingresso nell'Euro. Stando a quel che raccontò Der Spiegel in un interessante inchiesta su quel periodo, fu la reazione francese – «se sta fuori l’Italia stiamo fuori pure noi» – a convincere i tedeschi a chiudere un occhio. Non certo i nostri conti pubblici.
Quel che qualcuno sospetta – sebbene il Tesoro smentisca categoricamente questa supposizione - è che ci furono altre misure che furono poste in essere per sistemare i conti pubblici italiani. Chi sospetta, si riferisce al fatto che il ministero del Tesoro sottoscrisse in quegli anni una serie di strumenti finanziari derivati per consentire un flusso di anticipazioni di cassa, necessario anch’esso a migliorare i conti pubblici e a consentire all’Italia di entrare nella moneta unica.
Un piccolo e sommario ripasso su come funzionano questi strumenti è utile. Nella loro forma più semplice si tratta di interest rate swap, che come il termine inglese indica, non sono altro che uno scambio di flussi monetari: lo Stato ricevede dalle banche, ad esempio, un flusso variabile sufficiente a pagare le cedole di un certo numero di Cct (che non variabili nel tempo perché indicizzati al tasso dei Bot) e in cambio paga alle banche un flusso costante. Se i tassi dei Bot salgono durante la durata dello swap, allora lo Stato ha fatto un affare. Se scendo, lo Stato perde.
Lo swap è la forma più semplice, ma di derivati ce ne sono un sacco, ognuno dei quali con un’ingegneria talmente complicata da far venire il mal di testa. Il succo tuttavia è chiaro e le motivazioni che giustificano una scelta simile le spiega proprio una nota del Tesoro: « Bloccare attraverso derivati un tasso fisso “a pagare” in contropartita di un tasso variabile “a ricevere” rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse, situazione peraltro sperimentata dallo Stato italiano a più riprese e con un’evidenza particolarmente significativa a seguito della grave crisi monetaria e finanziaria del 1992». In altre parole, finché vanno bene i derivati sono un assicurazione. Quando cominciano ad andare male, diventano un rischio. A prescindere dall'uso che se ne può fare. Ad esempio, come sospetta la stampa tedesca, per manipolare e abbellire i risultati di bilancio di un certo anno, a danno del futuro.
Negli anni ’90 e nei primi anni 2000, le cose andavano bene. Come ha ben raccontato su Linkiesta Fabrizio Goria, «Nel 1998 la Repubblica italiana ha guadagnato l’equivalente di 3 miliardi di euro, mentre tra il 1999 e il 2001 le entrate provenienti da derivati creditizi sono state pari a 1,048 miliardi. Conto in verde anche per il 2002, con 1,924 miliardi di euro, e per il 2003 e 2004, rispettivamente 705 e 929 milioni di euro».
La crisi, tuttavia, ha drammaticamente cambiato le carte in tavola. Da geniali strumenti di copertura i derivati hanno iniziato a mostrare il loro volto tossico. L’Italia, insomma, ha cominciato a perderci: «L’ultimo anno in positivo fu il 2005 con 1,016 miliardi di euro, – racconta ancora Goria - poi un lento declino: meno 163 milioni di euro nel 2006, meno 337 milioni nel 2007, meno 392 milioni nel 2008».
Da quel momento in poi, si è abbassato il sipario e nessuno ha più saputo quanto l’Italia stesse perdendo sui derivati che aveva sottoscritto. La questione, tuttavia, si è riaccesa nel 2011. Anno in cui il Tesoro ha pagato pronto cassa circa 2 miliardi di Euro a Morgan Stanley per chiuderne anticipatamente uno, le cui perdite, si suppone, sarebbero state ben maggiori negli anni a venire. A seguito di un’interrogazione parlamentare, si scoprì finalmente l’entità dei derivati nella pancia dello Stato, pari a circa 160 miliardi di euro. Tuttavia, erano i giorni dello spread, della fine di Berlusconi, dell’arrivo Monti. Nessuno, insomma, ci fece troppo caso.
Ad aprile 2013, tuttavia, la questione esplode di nuovo. Stavolta, sono La Repubblica e il Financial Times a dare testimonianza di una relazione del Tesoro sull’andamento del debito pubblico, in cui si scopre che di queste chiusure anticipate, tra il 2011 e il 2012, lo Stato ne ha fatte parecchie. Ristrutturazione, la chiamano. Avere in pancia troppi derivati, per farla breve, avrebbe fatto schizzare l’interesse sui nostri titoli di Stato alle stelle. Da quella relazione, inoltre, si scopre che la stima relativa alla perdita potenziale sui soli derivati ristrutturati nel 2012 – circa 31 miliardi di valore nominale- era pari a circa 8 miliardi di euro.
Escono anche cose poco chiare sulle rinegoziazioni stesse. Un esempio su tutti, un contratto degli anni ’90 in cui lo Stato fa uno swap su 3 miliardi di debito pubblico. Swap che viene rinegoziato nel 2012, trasformandolo, racconta ancora La Repubblica, «in un nuovo scambio di tassi - sempre fisso contro variabile - su una scadenza inferiore (circa 6 anni) e su un controvalore triplicato a 9 miliardi». La cosa più curiosa è un’altra però: «Le elaborazioni indicano che quel derivato "prima versione" aveva un valore negativo per lo Stato di 900 milioni al momento del riassetto. E un valore negativo di 1.350 milioni nella versione rinegoziata». Perché mai, si chiede il giornalista - «rinegoziare un contratto aggiungendo 450 milioni di perdite attese per l'Erario?»
Mistero. Nel frattempo, tuttavia, le opposizioni - soprattutto il Movimento Cinque Stelle, che su questa partita sta dando battaglia sin da quando ha messo piede in Parlamento - chiedono conto al Governo. Che lo scorso 15 dicembre, a seguito di un interpellanza del deputato grillino Daniele Pesco - risponde per bocca del sottosegretario Cassano: «Le operazioni in derivati hanno generato nel 2013 un esborso netto pari a 3 miliardi di euro». E ancora: «Il valore di mercato, aggiornato al secondo trimestre del 2014, è negativo per 34,428 miliardi di Euro».
La Legge di Stabilità 2014 aggiunge un carico da novanta a una situazione già complessa di suo. L’articolo 33 afferma infatti che il Tesoro «è autorizzato a stipulare accordi di garanzia bilaterale sulle operazioni in strumenti derivati». In altre parole, se il derivato è in perdita, la banca che ha sottoscritto lo swap può chiedere al Tesoro di congelare sul conto della banca stessa una somma a garanzia dei suoi impieghi. Parola e onore non bastano più, insomma, quando il tuo rating è BBB-. Vale per noi, così com’è valso per paesi come Irlanda e Portogallo, che a suo tempo si sono visti costretti a ratificare la medesima norma.
Fermiamoci un attimo, e facciamo il punto della situazione. Negli anni ’90 vengono sottoscritti circa 160 miliardi in derivati. Tra il 2011 e il 2012 quei derivati vengono rinegoziati dallo Stato e molti di essi vengono liquidati in anticipo alle banche, per una quota parte delle perdite attese. Nel 2013 si scopre che il valore di quel che è rimasto nella pancia dello Stato è pari a una perdita potenziale di circa 34 miliardi di euro. In funzione di tale perdita, infine, le banche saranno autorizzate a ratificare accordi di garanzia che congeleranno qualche miliardo di euro nei conti delle stesse, pratica necessaria per poter emettere altri titoli di Stato senza che siano considerati spazzatura dai mercati. Forse, insomma, abbiamo capito a cosa serviranno i miliardi in più che ci arriveranno – se ci arriveranno – dal Quantitative Easing di Draghi. A pagare il prezzo delle spericolate operazioni finanziarie di cui, negli anni ’90, fu lo stesso Draghi uno dei principali artefici.
http://www.linkiesta.it/quantitative-easing-derivati-tesoro-mario-draghi