la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
La Cina
esce dal suo perimetro regionale e manda le sue navi nelle acque del
Mediterraneo per una esercitazione congiunta con la Russia. Obiettivo
ufficiale dell’operazione Interazione in mare 2015 “aumentare la
capacità di risposta alle minacce alla sicurezza marittima”
INTERVENTISMO CINESE?
– Se può essere prematuro parlare di neo interventismo cinese, di certo
il ruolo della Cina sulla scena mondiale politico-militare sta cambiando
per andare oltre la retorica pacifista della non interferenza. Potrebbe
essere proprio il Mediterraneo, una delle aree più
turbolente al mondo, lontano da casa e lontano dai centri di riferimento
strategici della Cina, il terreno prescelto per dare il via al nuovo corso
della politica estera cinese. Si tratta di un quadro complesso se si
considera il deterioramento delle relazioni della Russia con l’Occidente
per la vicenda ucraina e le rivendicazioni territoriali di Pechino nei
confronti dei “vicini”, nel Mar cinese meridionale.
Anche se i timori sulla nascita di un nuovo asse autoritario sino-russo
non vanno sottovalutati, le motivazioni delle presenza cinese nel
Mediterraneo sono tuttavia più complesse e riflettono la coesistenza di interessi economici e di considerazioni strategiche, sono solo in parte funzionali alla realizzazione dei primi.
OBIETTIVI ECONOMICI
– Di recente la Cina ha scalzato gli Stati Uniti dal primo posto nella
classifica dei Paesi importatori di petrolio. Malgrado gli sforzi fatti
da Pechino per diversificare i fornitori di greggio, puntando in
particolare su Africa e Asia centrale, la dipendenza dell’economia cinese dai Paesi mediterranei e in generale da tutta l’area MENA (Middle East and North Africa)
continuerà ancora a lungo. Questo rende la Cina particolarmente
vulnerabile alle dinamiche geopolitiche e alle condizioni di sicurezza
di una delle aree più instabili al mondo. I flussi commerciali Europa –
Cina transitano attraverso il Golfo di Aden e il Canale di Suez, il che rende estremamente importante per la Cina poter contare su collegamenti garantiti e rotte di navigazione sicure.
Negli ultimi anni la Cina ha sviluppato notevolmente la sua presenza nel
Mediterraneo, come del resto, e ancor più, in tutto il continente
africano. Durante le Primavere arabe, anche se con qualche ambiguità, Pechino si è mossa nel solco della tradizione non interventista, mantenendo un approccio multilaterale anche rispetto a Siria e Libia. Tuttavia, ha pagato un prezzo alto in termini di perdite economiche. Negli ultimi anni la Cina è dovuta intervenire più volte con operazioni di salvataggio dei propri lavoratori. In Libia,
dove prima del 2011 gli investimenti cinesi ammontavano a circa 20
miliardi di dollari, più di 35mila lavoratori cinesi sono stati
evacuati a seguito delle violenze scoppiate con la fine del regime di
Gheddafi. Più di recente nello Yemen, dopo l’intervento armato saudita,
in Nigeria e in Sud Sudan.
Tuttavia è rimasto invariato il paradigma per cui è la geoeconomia a determinare la geopolitica della diplomazia cinese. Tanto nell’Egitto
di Morsi che in quello di al-Sisi, Pechino ha continuato
pragmaticamente ad iniettare liquidità e ad investire in progetti nel
settore dell’energia, dell’agricoltura, delle comunicazioni e nel
potenziamento infrastrutturale del Paese, in particolare dell’area del canale di Suez. Non meno forte la presenza in Algeria, con
cui Pechino ha siglato alla fine dello scorso anno un partenariato
strategico-globale quinquennale e dove sono presenti circa 40mila operai
cinesi impegnati nel settore energetico-petrolifero ed in quello
edilizio.
OBIETTIVI STRATEGICI
– Pur restando il Pacifico il fulcro dei suoi interessi strategici e
militari, la presenza militare della Cina in acque europee è rilevante,
innanzitutto da un punto di vista simbolico. Un’esercitazione navale nel
Mediterraneo, anche se di piccola dimensione (in tutto si tratta di
dieci navi), è una cosa da grandi potenze. La fortissima instabilità
dell’area mediterranea, su cui pesa più di ogni altra la minaccia del fondamentalismo islamico
in funzione anti-occidentale, e rispetto alla quale gli attori esterni
dimostrano scarsa capacità o volontà di intervento, preoccupa non poco
la diplomazia di Pechino.
Tutto questo per due ordini di ragioni. Gli obiettivi strategici della
Cina nel Mediterraneo sono strettamente collegati alla realizzazione
delle nuova Via della Seta, che nella duplice versione della Silk Road e della Maritime Silk Road collegherà la Cina con il Golfo Persico e il Mediterraneo attraverso l’Asia centrale e l’Oceano indiano. Una rete fittissima di connessioni terrestri e marittime uniranno tre continenti a conferma delle ambizioni di cinesi di restituire al “Middle Empire”, la sua antica vocazione di centro mondiale di scambi commerciali e culturali.
Fig. 4 – Un elicottero della Marina cinese in visita a Malta
La creazione di insediamenti portuali in Africa, Medio Oriente e Asia
sud orientale consentirà al petrolio cinese di evitare la “maledizione
dello stretto di Malacca”. La Via della Seta Marittima arriverà al
Mediterraneo attraverso lo stretto di Suez, dove Pechino partecipa alla
realizzazione del nuovo canale di Suez, un progetto che
raddoppierà la capacità di transito dello stretto. Va da sé che la
stabilità del Mediterraneo è essenziale per la realizzazione della Maritime Silk Road.
Il Mediterraneo preoccupa la Cina anche per un’altra ragione. Il caos politico
dell’area potrebbe facilmente avere un effetto a macchia d’olio
arrivando a lambire zone molto più vicine, perfino interne alla Cina
stessa. La minaccia di possibili connessioni tra l’estremismo islamico e
i movimenti separatisti della provincia dello Xinjiang non è mai sottovalutata dalle autorità cinesi.
C’è il fattore Stati Uniti tra le ragioni della uscita
cinese nel Mediterraneo. Schierandosi con la Russia in acque
occidentali, Pechino ha controbilanciato, sul piano simbolico, il peso
che gli Stati Uniti hanno gettato nel Pacifico nel sostenere i loro
tradizionali alleati contro le mire cinesi. Per più di una ragione,
quindi, c’è da aspettarsi che con il passare del tempo la Cina aumenterà
la sua presenza nel Mediterraneo. UNA PRESENZA DISCRETA – Non accadrà in tempi brevi,
né si può immaginare che in un futuro non molto lontano la Cina si
presenti come nuova potenza regionale in grado di contenere la
supremazia del modello occidentale. Pechino, del resto, non può pensare
di competere con Stati Uniti ed Europa nel loro cortile di casa. E non
sembra essere questa la sua intenzione. La Cina è consapevole di non
avere né i mezzi, in termini di capacità militare, né l’appeal
per diventare il perno dei futuri assetti della regione. Di certo sarà
sempre più difficile difendere ingenti interessi economici senza
ricorrere ad una presenza militare.
Nel Mediterraneo Pechino deve muoversi con circospezione, dosando con perizia soft e hard power nel rispetto della special relation
che la lega alla Russia, della cooperazione economica con Stati Uniti
ed Europa e, non in ultimo, della cornice ideologica della non
ingerenza funzionale a coltivare relazioni non conflittuali con il mondo
che “conta” e a proseguire lungo la nuova Via della Seta. Mariangela Matonte
Un chicco in più
Per approfondimenti sul tema si consiglia Enrico Fardella, ‘Il Mediterraneo nella strategia globale della Cina’, Orizzonte Cina, a. V, n. 8, settembre-ottobre 2014.
AFRICA/MALAWI - Una finanziaria “da far paura” che aggrava le già difficili condizioni della popolazione
Lilongwe (Agenzia Fides) - Una legge finanziaria “da far paura”
è quella che è stata presentata al parlamento del Malawi. Come
riferisce all’Agenzia Fides p. Piergiorgio Gamba, missionario
monfortano, “dopo due anni senza i fondi concessi dai paesi donatori che
coprivano fino al 40% del bilancio statale, il governo è stato
costretto a operare tagli in tutti i settori, dalla sanità
all’educazione fino al programma che era rimasto finora intatto, quello
che distribuiva fertilizzanti a oltre un milione e mezzo di contadini.
Un programma che dopo anni di critiche da parte dell’opposizione è
diventato insostenibile anche per il governo di turno, che su questa
distribuzione basava tanta parte del successo elettorale”.
La sospensione degli aiuti stranieri deriva dal cosiddetto Cashgate, lo
scandalo della malversazione dei fondi internazionali da parte di
diversi politici e funzionari locali (vedi Fides 10/11/2014).
“Le tasse ormai hanno raggiunto livelli troppo alti per la popolazione,
ed è proprio sulle tasse che si basa tutta la finanziaria. Per questo
viene definita ‘Scary’ - da far paura” dice p. Gamba. “Quest’anno
resterà nella storia della gente del Malawi come un anno buio: gli
ospedali avranno meno medicine, le scuole avranno costi impossibili
(sono stati soppressi anche tutti i bonus per gli studenti universitari)
e più in generale i commerci stagneranno”.
“Ha fatto poi scalpore - continua p. Gamba - l’introduzione di una tassa
del 10% sugli sms e sull’uso di internet. Tra mancanza di elettricità e
il difficile funzionamento di questi mezzi di comunicazione, questo
tributo non è certo una benedizione per le comunicazioni sociali, anche
se le tasse sulle batterie per radio e torce sono state ridotte”
“Già provato dall’alluvione e dalla siccità, dalla xenofobia del
Sudafrica (che ha costretto buona parte dei migranti malawiani a
rientrare in patria) e dal calo dei prezzi delle materie prime, come
quello del cotone, che è sceso a 178 Malawi Kwacha (30 centesimi di euro
al Kg), il Malawi si trova all’inizio di un anno di fame. E questo era
l’anno dell’Expo di Milano, della soluzione dei problemi alimentari per
tutti gli abitanti del pianeta Terra: la guerra alla fame non è nemmeno
iniziata in tante aree del mondo, in Africa in particolare” conclude il
missionario. (L.M.) (Agenzia Fides 29/5/2015)
(Agenzie). La leader dell’estrema destra francese Marine
Le Pen ha incontrato al Cairo il grande imam di Al-Azhar, Ahmed
al-Tayeb. L’incontro tra la politica francese e uno dei leader della più
importante istituzione dell’Islam sunnita si è concentrato sulle
“preoccupazioni” esposte dall’imam per le posizioni di Le Pen nei
confronti della religione islamica.
“Le Pen ha riconosciuto l’esigenza di non confondere l’Islam con i
violenti atti che vengono commessi in suo nome” si legge in un
comunicato rilasciato da Al-Azhar al termine dell’incontro. La leader
del Fronte Nazionale non ha rilasciato dichiarazioni, ma in un tweet
pubblicato sul suo account personale ha scritto che durante l’incontro
si è stabilito “un forte accordo sulla lotta contro l’estremismo”.
Expo 2015 Spa, presidente Diana Bracco indagata per
evasione fiscale da 1 milione
Giustizia &
Impunità
L'ipotesi
della procura è che fatture false siano servite in relazione a lavori su case
private e barche. La replica: "Non c'è stata alcuna frode. Abbiamo già
definito con l’Agenzia delle entrate attraverso il ravvedimento operoso"
Evasione
fiscale e appropriazione indebita. Diana Bracco, presidente di Expo 2015 Spa,
è indagata in qualità di presidente del consiglio d’amministrazione della Bracco
spa. L’indagine è stata chiusa ed è stato effettuato un sequestro da circa
1 milione di euro. L’ipotesi è che le fatture false siano servite in relazione
a lavori su case private e barche. “Non c’è stata alcuna frode fiscale“,
ha commentato l’avvocato difensore di Bracco Giuseppe Bana, “si tratta
di contestazioni riguardanti l’inerenza all’attività d’impresa di fatture,
situazione non rilevante sotto il profilo penale. Abbiamo già definito con l’Agenzia
delle entrate attraverso il ravvedimento operoso, siamo solo al termine delle
indagini preliminari e non è stata ancora formalizzata la richiesta di rinvio a
giudizio”.
Come
si legge in un comunicato del procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati,
nell’ambito dell’inchiesta condotta dal Nucleo Polizia Tributaria della Guardia
di finanza e coordinata dal procuratore aggiunto Francesco Greco e dal pm
Giordano Baggio, “è stato notificato avviso di conclusione delle indagini” a
carico di Diana Bracco, di Pietro Mascherpa, presidente del Cda di
Bracco Real Estate srl, e di due architetti dello studio Archilabo in Monza,
Marco Pollastri e Simona Calcinaghi. In particolare Bracco e Mascherpa sono
accusati di evasione fiscale attraverso l’emissione di fatture false e
di appropriazione indebita.
Dalle
indagini “è emerso che fatture” per oltre 3 milioni di euro, confluite nella
contabilità e nelle dichiarazioni fiscali “presentate dalle società del gruppo
Bracco per i periodi di imposta dal 2008 al 2013″, erano riferite
“all’esecuzione di forniture o di prestazioni rese presso locali in uso alle
medesime società ma effettivamente realizzate presso immobili e natanti di
proprietà, ovvero nella disponibilità” di Diana Bracco e del marito defunto Roberto
De Silva.
Lo
scorso 5 marzo, si legge ancora nel comunicato, la Guardia di finanza ha
eseguito un decreto di sequestro preventivo emesso dal gip Roberta Nunnari
nei confronti di Diana Bracco per 1 milione e 42 mila euro
“corrispondente all’importo totale dell’imposta complessivamente evasa per
effetto dell’utilizzo delle predette fatture”. Nella nota si legge infine che
lo scorso 21 maggio “sono stati depositati” in Procura da parte delle Fiamme
gialle “i verbali di constatazione delle correlate violazioni di carattere
amministrativo”.
Non
è la prima volta che Bracco ha problemi con il fisco. A fine maggio 2010 era
stata denunciata dalla Guardia di Finanza di Genova per lo yacht ”If
Only”, un 40 metri costruito nei cantieri olandesi Feadship e
intestato alla Ceber, società di Milano che ha come ragione sociale il
noleggio di unità da diporto. Le quote erano della signora Diana Bracco e
della Dolfin srl, interamente detenuta dalla presidente del
gruppo farmaceutico. Secondo la finanza, il panfilo, registrato a
Sanremo e ormeggiato ad Antibes in Costa Azzurra, sarebbe stato
usato privatamente dai Bracco. Il 9 aprile 2010 invece era andata a
processo con l’accusa di evasione fiscale assieme a un manager
della Bracco Imaging spa, in relazione ad alcune fatture per
operazioni in tutto o in parte inesistenti indicate in dichiarazioni dei
redditi della società.
Il 22 gennaio la Bce usciva allo scoperto annunciando i dettagli del primo quantitative easing della storia dell’Eurozona:
un’operazione da oltre 1.000 miliardi. In quella data il rendimento dei
BTp a 10 anni era all’1,56%, più basso di 50 punti rispetto a dicembre
quando già si parlava di «Qe» e i mercati si erano iniziati a
direzionare sulle aspettative della manovra di iniezione monetaria
dell’istituto di Francoforte. Il rendimento ha continuato a scendere
toccando un minimo all’1,12% l’11 marzo, ovvero due giorni dopo l’inizio
degli acquisti di titoli di Stato dell’Eurozona al ritmo di 45 miliardi
al mese.
Dopodiché i tassi hanno intrapreso un percorso al rialzo
fino a portarsi al 2% (massimo di periodo registrato in chiusura il 25
maggio) e stabilizzarsi nelle ultime sedute poco sotto l’1,9%. Il rendimento dei BTp è quindi tornato a livelli pre-Qe. Stesso discorso per i tassi dei Bonos spagnoli. Hanno toccato un minimo di periodo l’11 marzo e poi sono tornati a risalire. Diversa la storia del Bund tedesco.
Mentre i rendimenti di BTp e Bonos risalivano ad aprile il tasso del
Bund continuava a scendere fino a toccare a fine aprile il minimo
storico dello 0,04% (sempre restando sulla scadenza a 10 anni).
Dopodiché è partita un’ondata violentissima di vendite proprio sul Bund
che ha riportato il rendimento in alto, verso lo 0,8%. Ondata che ha
colpito (seppur in modo violento) anche gli stessi Bonos e BTp che hanno
visto così tornare i rendimenti sui livelli di inizio anno, più alti
quindi rispetto a quando è stato prima annunciato (22 gennaio) e poi
avviato (9 marzo) il Qe..
Si è verificato quindi un paradosso: il quantitative easing
agisce in linea diretta sui titoli di Stato ma, a conti fatti, al di là
di una fortissima volatilità, non ha avuto al momento l’effetto di
ridurre i rendimenti dei bond governativi dell’Eurozona, in particolare
della periferia, l’area che più di altre necessita di una manovra
espansiva. Il «qe» ha smosso invece i canali finanziari indiretti,
ovvero le Borse europee (in forte rialzo da inizio anno) e l’euro
(svalutatosi nei confronti del dollaro).
A questo punto è lecito chiedersi se nei prossimi mesi il
«qe» avrà effetti analoghi (ovvero continuerà a muovere le Borse in alto
e l’euro all’ingiù) ma a riportare effetti sostanzialmenti neutrali
sulla curva dei rendimenti dei bond dell’Eurozona o se invece il ribasso
dei rendimenti visto nella prima parte del Qe (e poi neutralizzato dal
violento ribilanciamento dei portafogli partito da fine aprile) potrebbe
ritornare. In più, c’è da chiedersi se l’Italia supererà la Spagna
nella sfida dei rendimenti tra BTp e Bonos visto che dopo la vittoria di
Podemos alle ultime elezioni comunali i rendimenti spagnoli sono
risaliti, avvicinandosi a quelli italiani in un aggancio (l’ennesimo da
quanto è scoppiata la crisi dell’Eurozona) che pare ormai probabile. Ci
sarà anche il sorpasso dei BTp (ovvero questi avranno rendimenti più
bassi dei Bonos nei prossimi mesi?
Partiamo dal primo quesito. Come mai i rendimenti dei bond
dell’Eurozona sono tornati ai livelli pre-Qe? C’è una risposta, e
riguarda l’aumento dell’offerta di titoli che ne è seguito. Ovvero i
governi hanno incrementato le emissioni. «L'offerta di obbligazioni sui
mercati europei è stata certamente un fattore chiave nel determinare il
recente calo dei prezzi (e il rialzo dei rendimenti, ndr). Nel tentativo
di sfruttare i bassi tassi di interesse, i governi hanno inondato il
mercato di titoli, esercitando pressioni sui tassi e provocandone il
rialzo - spiega Raman Srivastava, gestore del fondo Bny Mellon euroland
bond fund -. Tuttavia, ci stiamo avvicinando all'estate e nel mese di
luglio l'offerta netta sui mercati obbligazionari è tradizionalmente
negativa. Ci aspettiamo quindi che la sovrabbondanza di titoli si faccia
più contenuta. La Banca Centrale Europea ha già lasciato intuire che
modificherà il suo programma alla luce di questa previsione,
incrementando gli acquisti di titoli a giugno e rinviando quelli
previsti per luglio ai mesi di agosto e settembre. Pertanto, anche se le
dinamiche dell'offerta si protrarranno ancora a lungo, non dovrebbero
produrre nei prossimi mesi lo stesso effetto negativo sulle obbligazioni
cui abbiamo assistito nel secondo trimestre del 2015».
Il motivo è tecnico anche secondo Jeanne Asseraf-Bitton,
Head of Cross Asset Research – Lyxor am: «Tra i fattori tecnici in
gioco, crediamo che i volumi delle emissioni di bond governativi
nell'area euro abbiano avuto un ruolo chiave. Le emissioni governative
al netto degli acquisti della BCE sono passate dai -40 miliardi di
aprile ai +30 miliardi di maggio, attivando la recente correzione. Le
gestioni sistematiche hanno amplificato il movimento, come testimoniato
dai grandi volumi tradati sui future. Questo spiega perché il rendimento
medio aggregato a 10 anni dell'Eurozona è salito ora a 1,6%, vicino a
livelli dello scorso novembre, quando la Bce non aveva ancora annunciato
il qe».
Si può spiegare quindi così il paradosso iniziale del «Qe»,
ovvero l’aver fatto salire Borse e svalutato l’euro ma aver avuto
effetti neutrali sui rendimenti governativi? «Il punto sollevato è
correto: il qe è una misura contraddittoria. Si comprano bond per
stimolare l'economia e sconfiggere i rischi deflazionistici: nel momento
in cui la manovra è giudicata credibile, in realtà i tassi iniziano a
salire! In effetti, i fattori fondamentali di inflazione piu' alta e
crescita piu' vivace spingono giustificano tassi più alti. In questo
scenario di ripresa economica, le azioni danno buone soddisfazioni -
spiega Marco Piersimoni, senior portfolio manager, di pictet asset
management -. Quanto descritto, è coerente con le esperienze dei tre qe
negli Usa. L'effetto principale del qe è sui tassi reali (in discesa) e
sulle aspettative di inflazione (in salita): il risultato sui tassi
nominali è incerto. Le azioni, invece, tendono a fare bene soprattutto
nella fase di annuncio, ma il momentum prosegue anche durante
l'implementazione. Uno dei fattori favorevoli all'azionario è anche
l'indebolimento della valuta, che si osserva con buona regolarità
durante i qe».
Accorri
al supporto del Califfato Islamico! […] Il Califfato Islamico ha
allargato i propri territori, un Califfato che miscrede nei confini. I
Mujahidin che si sono alleati allo Stato Islamico si allargano
dall’Oriente all’Occidente. Per grazia di Allah i soldati sotto diretto
controllo dello Stato Islamico sono in Algeria, Nigeria, Ciad, Libya,
Egitto, Arabia Saudita, Yemen e altri Paesi ancora. Accorrete oh
Musulmani, questo con il permesso di Allah è il Califfato Islamico che
conquisterà Costantinopoli e Roma come Muhammad صلى الله عليه وسلم
profetizzò. Lo Stato Islamico sta combattendo una coalizione da [sic]
quasi 80 nazioni, e in shaa Allah come è stato citato nel Hadith,
proprio 80 nazioni combatteranno i Musulmani e verranno sconfitti a
Dabiq. Che Allah faccia realizzare tutto ciò [1].
Con
queste parole, a mezza strada tra l’invocazione profetica e l’appello
accorato, terminava il primo scritto in lingua italiana diffuso dallo
Stato Islamico (IS); un testo dal chiaro intento propagandistico ma che
probabilmente non è stato adeguatamente analizzato. Infatti da un lato,
complici le concomitanti notizie provenienti dalla Libia [2], ci si è
soffermati essenzialmente sul passaggio relativo ai propositi di
conquista («Roma e Costantinopoli»), dall’altro si è posto
l’accento sul fatto che i destinatari del messaggio fossero chiaramente i
musulmani di seconda generazione nati e cresciuti in Italia, vista
dunque come terra in cui fare proselitismo.
In
effetti dei 14 capitoli per 64 pagine che compongono lo scritto, solo
due (11 e 13) parlano, peraltro in termini estremamente generici, di
“politica estera”; il resto è tutto un alternarsi di citazioni dal
Corano, di interviste ad esponenti dello Stato Islamico, di foto e di
descrizioni della vita quotidiana nelle terre del califfo, volte a
dimostrare al lettore la coerenza tra i precetti religiosi ai quali l’IS
si ispira e la loro applicazione concreta alla vita quotidiana e,
soprattutto, a rivendicare come l’autoproclamato Califfato sia uno Stato
non solo dal punto di vista formale ma anche sostanziale. Apprendiamo
pertanto come l’IS sia organizzato in direzioni (corrispondenti
grossomodo ai nostri Ministeri) attive negli ambiti tipici di uno Stato
moderno: istruzione, sanità, giustizia, sicurezza/difesa, riscossione
della “tasse” e conio. In particolare la natura “integralista” dello
Stato Islamico traspare dalla presenza di istituti quali la riscossione
della zaqat (sorta di decima la cui esazione si rende doverosa,
si precisa nel testo, non per far cassa ma per “purificare” i beni e le
ricchezze [materiali] possedute), dell’hisba, polizia religiosa che ha il compito di «ordinare il bene e proibire il male» (così come li si ricavano dal Corano e dalla Sunna), per finire con la reintroduzione del dinar,
moneta in uso ai tempi del califfato “storico” e che, rifiutando secoli
di teorie economiche, basa il proprio valore sull’intrinseco di
materiale prezioso. Non meno cura viene prestata per descrivere la
correttezza formale dei passaggi seguiti per proclamare la rinascita del
Califfato, vale a dire la bay’a (“dichiarazione di sottomissione
ed alleanza”) nei confronti di Abu Bakr al-Baghdadi da parte degli
altri emiri e comandanti militari [3].
Stuttura dell’IS – Fonte: CNN/Terrorism Research and Analysis Consortium
Alla
luce di quanto esposto le finalità propagandistiche/di
controinformazione da una parte e di proselitismo dall’altra risultano
evidenti ed innegabili; ciò nondimeno l’immagine, peraltro già diffusa,
che traspare da questo testo di un Califfato nel quale forma-Stato,
riferimenti storici e religiosi procedono di pari passo, induce a
ritenere che tali elementi possano essere utilizzati per tentare di
tratteggiare le linee evolutive e di espansione future.
È opportuno al riguardo ricordare come rifarsi all’esperienza del califfato, in opposizione a quella del sultanato, assume ipso facto
una valenza che non è puramente simbolica ma anche “programmatica”:
occorre infatti evidenziare che il termine califfo (in arabo khalīfa)
viene impiegato per indicare il “vicario” o “successore” di Maometto
alla guida non solo politica ma anche spirituale della comunità islamica
(Umma), differendo in questo dal sultano (sultān, dal vocabolo sulta,
“forza”, “autorità”) che è il titolo sovrano proprio di chi esercita un
potere di natura essenzialmente politica [4]. Ciò, storicamente,
significa guardare a ben definite esperienze e realtà istituzionali;
infatti il modello califfale ha contraddistinto solo i primi secoli di
vita dell’Islam, che hanno visto susseguirsi, nell’ordine, il califfato
dei Rashidun (ovvero “degli Ortodossi”, dal 632 al 661; i quattro
califfi che assursero alla carica in questa fase potevano vantare il
fatto di essere legati a Maometto o da vincoli di sangue o di antica
amicizia e conversione), quello degli Omayyadi (661-750) e degli
Abbasidi (750-1258); successivamente il modello predominante è stato
quello sultanale, tipico dell’Impero Ottomano (1299-1922) [5].
Alla
luce di quanto sin qui detto, il fatto che l’attuale guida dello Stato
Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, nato Ibrāhīm ʿAwwād Ibrāhīm al-Badrī,
abbia optato per la dignità califfale (e non per quella sultanale) e che
come nome si sia posto lo stesso del primo dei califfi Rashidun, ovvero
Abu Bakr al-Ṣiddīq (“il grandemente veritiero”, coetaneo e miglior
amico del Profeta), induce a ritenere che tali scelte, lungi dall’essere
casuali, discendano da precise valutazioni di ordine religioso e
politico e facciano riferimento ad un preciso modello: infatti l’Islam
al quale l’IS si ispira è quello delle origini, quello che dalla
penisola arabica trabocca verso il bacino mediterraneo da una parte e si
espande verso gli altipiani iranici dall’altra (vedi mappa a destra),
quello nel quale l’elemento arabo è predominante (mentre la dinastia
ottomana, si ricorda, era di etnia turca) e che, come naturale
conseguenza, aveva il suo baricentro nel Medio Oriente e non nella
penisola anatolica [6].
Ma
gli spunti di riflessione non si esauriscono qui: il succitato richiamo
al Califfato, con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo
organizzativo e degli obiettivi strategici, aiuta a comprendere anche
buona parte delle motivazioni che hanno condotto alla “rottura” con
al-Qaeda. Giova infatti ricordare che proprio da AQI, la costola
irachena di al-Qaeda “fondata” nel 2004 da Abu Mus’ab al-Zarqawi,
originò nell’ottobre del 2006 l’ISI (lo Stato Islamico dell’Iraq),
all’epoca guidato da Abu Umar al-Baghdadi, che nel frattempo era
succeduto ad al-Zarqawi ucciso da uno strike aereo statunitense.
Morto anche Abu Umar nell’aprile 2010, il comando passò ad Abu Bakr
al-Baghdadi, il quale, cogliendo le opportunità derivanti dalla crisi
nella vicina Siria, in atto dal marzo 2011, ampliò l’area delle
operazioni anche a quest’ultimo Stato e cambiò, nell’aprile 2013, la
denominazione dell’organizzazione da ISI ad ISIS (o ISIL), a sancire il
fatto che Iraq e Siria costituivano un tutt’uno. Il resto è storia degli
ultimi mesi, con la proclamazione del Califfato dello Stato Islamico
(29 giugno 2014), le straordinarie conquiste territoriali dei mesi
successivi ed il conseguente intervento di una coalizione
arabo-occidentale che solo in parte è riuscita ad arrestarne la spinta
espansiva. Naturalmente i successi ottenuti sul campo hanno accresciuto
il prestigio dell’IS e, per contro, oscurato la stella di al-Qaeda,
innescando una competizione tra le due sigle del terrore [7] che, pur
perseguendo le medesime finalità (vale a dire la lotta agli infedeli
attraverso il jihad e l’imposizione della sharia), rischia di compromettere definitivamente i rapporti. Ma quali sono, nello specifico, queste differenze?
Il primo grande motivo di differenziazione è di tipo organizzativo: al-Qaeda è un network
moderno, snello e scarsamente centralizzato al quale aderiscono, o
perlomeno hanno aderito, cellule e gruppi attivi dai monti dell’Atlante
alle foreste delle Filippine e che, di conseguenza, dal punto di vista
operativo godono di elevata libertà; se questo li rende difficili da
individuare e da bloccare (tanto più che le loro azioni sono ispirate
dai principi della guerra asimmetrica), d’altro canto impedisce loro di
coordinare adeguatamente gli sforzi ed, in ultima analisi, limita la
loro capacità di incidere realmente sullo scenario internazionale.
L’IS,
consapevole di queste “controindicazioni”, ha perciò puntato sul ben
più tradizionale modello statuale, con tutti i vantaggi e gli svantaggi
che ne conseguono; in particolare, dal punto di vista militare, lo Stato
Islamico ha optato per la creazione di un esercito territoriale che,
seppur composto in larga parte dai cosiddetti foreign fighters,
opera su un determinato territorio [8] mescolando tattiche classiche
(assedi, bombardamenti di artiglieria, etc.) ad altre tipiche del
terrorismo (autobombe, attacchi suicidi, etc.). In relazione poi al
fatto che pure l’IS non abbia disdegnato di internazionalizzare il
proprio brand, affiliando gruppi sparsi per il mondo (sovente
strappandoli ad al-Qaeda), va precisato che questi ultimi, nel momento
di aderire, hanno fatto propri gli obiettivi dello stesso IS,
proclamando la nascita di altrettanti emirati e califfati destinati a
confluire in un unico, grande califfato globale esteso su tutti i
territori in cui l’Islam è storicamente stato presente. Quello del
territorio è dunque il secondo grande punto di differenziazione: mentre
al-Qaeda non ha mai avuto come obiettivo la realizzazione di uno Stato,
l’ISI-ISIS-IS l’ha perseguito con determinazione sin dal 2006 e,
soprattutto, l’ha fatto partendo dal cuore arabo dell’Islam e non dalle
sperdute periferie centrasiatiche o africane [9].
La
ritrovata centralità dell’elemento arabo è, a sua volta, il terzo
elemento di novità e basta a dimostrarlo il numero di combattenti arabi
presenti nelle schiere del Califfo: si stima siano circa 17mila (3mila
dei quali dalla sola Tunisia) su un totale calcolato in 20mila unità,
con i rimanenti 3mila appartenenti ad altri gruppi etnici (ceceni,
bosniaci, albanesi, etc.) [10].
Il
quarto ed ultimo aspetto di novità è quello relativo alle fonti di
finanziamento: mentre al-Qaeda dipendeva fortemente dai soldi elargiti
dai tanto ricchi quanto oscuri donatori dei Paesi del Golfo (tra i quali
può a buon a buon diritto essere annoverato lo stesso fondatore, Osama
bin Laden) e da quelli raccolti attraverso charity islamiche
sparse nel mondo, lo Stato Islamico può contare su fonti decisamente più
diversificate e strutturate. A riguardo il FATF (Financial Action Task
Force), in un interessante Report di recente pubblicazione, segnala come
ISIL
earns revenue primarily from five sources, listed in order of
magnitude: (1) illicit proceeds from occupation of territory, such as
bank looting, extortion, control of oil fields and refineries, and
robbery of economic assets and illicit taxation of goods and cash that
transit territory where ISIL operates; (2) kidnapping for ransom; (3)
donations including by or through non-profit organizations; (4) material
support such as support associated with FTFs and (5) fundraising
through modern communication networks [11].
Come si può notare, le fonti esterne (rispettivamente le donazioni attraverso charity e/o ONG ed attività di fundraising via social network
ed in generale mediante Internet) occupano la terza e la quinta
posizione, mentre nelle prime due posizioni si trovano fonti di entrata
direttamente correlate al controllo di un territorio. Riguardo a
quest’ultimo punto va osservato come l’approccio dello Stato Islamico
sia essenzialmente predatorio: l’IS in sostanza, si tratti di svuotare i
depositi bancari, di prosciugare i pozzi petroliferi [12], di imporre
gravami vari sulle merci in circolazione, di vendere sul mercato nero
reperti archeologici trafugati, etc., non fa altro che drenare risorse
dal territorio controllato, spendendole da un lato per mantenere
l’apparato statale messo in piedi (con quel minimo di welfare ad esso collegato indispensabile per ottenere il consenso della popolazione e di accreditarlo presso la umma,
come visto all’inizio di questa analisi, come Stato con tutti i
crismi), dall’altro per sostenere l’intenso sforzo bellico. Si tratta di
modalità di spesa sostanzialmente improduttive che, viene rilevato nel
Report, sono difficilmente sostenibili nel tempo a meno che manu militari
non si riesca ad allargare ulteriormente il territorio sotto il proprio
controllo, sottoponendolo al medesimo trattamento e reperendo in tal
modo risorse con le quali alimentare la macchina bellica, effettuare
ulteriori conquiste e così via.
Le
conseguenze sono di assoluto rilievo, dal momento che impattano
profondamente sulla strategia del Califfato, la quale, viste le
premesse, non può che essere costantemente offensiva. Difatti per lo
Stato Islamico è di vitale importanza mostrarsi sempre all’attacco: solo
in questo modo esso può preservare la propria immagine vittoriosa,
sfruttando la quale può attrarre nuovi “volontari del jihad” e/o attuare efficaci attività di fundraising,
strumenti necessari per perpetuare lo sforzo militare ed estendere i
propri domini. Naturalmente, per rendere ancor più efficace il tutto,
gli obiettivi territoriali devono essere “paganti” in termini di valore
simbolico (da manuale “Roma e Costantinopoli”) e/o di ricchezze da poter
sfruttare (ad es. campi petroliferi); ecco dunque che trova una
spiegazione la fitta trama di citazioni religiose, riferimenti storici e
profezie disseminate per tutto lo scritto come si diceva inizialmente.
Che c’è di più seducente per un aspirante mujāhidīn che la
prospettiva di rinverdire i fasti dei primi Califfati e magari di
conquistare, finalmente, la capitale degli infedeli assicurandosi nel
contempo un posto in Paradiso (Jannah)? Si tratta, con tutta
evidenza, di un gioco assai rischioso, nel quale è essenziale trovare un
punto di equilibrio tra obiettivi storico-religiosi spendibili sul
piano mediatico, inderogabili necessità finanziarie e reali capacità
operative: al contrario il meccanismo rischia di incepparsi e la
possibilità di un tracollo dello Stato Islamico e delle sue istituzioni
sarebbe un’evenienza più che verosimile.
Chiarito
che le basi “religioso-ideologiche” e materiali dello Stato Islamico
sono al contempo solide e fragili, va però riconosciuto che l’attuale
contesto internazionale gioca a favore di Abu Bakr al-Baghdadi: le
divisioni intra-sunnite, il settarismo di stampo etnico-religioso, la
frammentazione del quadro di sicurezza regionale ed infine la
polarizzazione politica e geopolitica degli attori nazionali,
transnazionali, regionali e globali coinvolti rendono di fatto più
efficace e solida la capacità d’azione dell’IS nell’area. A questo si
aggiungono inoltre alcune conquiste territoriali strategiche (Palmira in
Siria e Ramadi in Iraq), nonché la presunta complicità di buona parte
degli Stati arabi ed in particolare delle petro-monarchie del Golfo, le
quali piuttosto guardano con sempre maggior preoccupazione alla
crescente influenza sulla regione da parte dell’Iran [13]. In questa
prospettiva lo Stato Islamico, sfruttando la sua posizione geografica
che lo interpone tra la Siria di Assad ed il sud dell’Iraq (sciita),
risulta fondamentale per bloccare le velleità “mediterranee” di Teheran,
il che spiegherebbe la scarsa convinzione con la quale gli altri Stati
arabi della regione l’hanno finora combattuto.
Un
atteggiamento ambiguo e per certi versi pure comprensibile ma che, per
converso, li espone al rischio che il mostro che essi stessi hanno
contribuito a creare, e che si è visto agisce sullo scacchiere
internazionale secondo logiche che poco hanno da spartire con i
tradizionali ragionamenti geopolitici e geo-economici, si rivolti loro
contro.
Estensione del controllo territoriale dell’IS (al 20.05.2015) – Fonte: Institute for the Study of War (ISW) * Simone Vettoreè OPI Adjunct Fellow
[1] Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare,
testo di propaganda diffuso su Internet da parte di un militante che si
firmava come “fratello Mehedi” e che è stato individuato dalla
magistratura italiana in al-Mahadi Hailili, ventenne abitante nel
torinese tratto in arresto con l’accusa di «apologia dello Stato
Islamico [ed] associazione con finalità di terrorismo internazionale»; a
riguardo vedi G. Bianconi, Le conversazioni via Facebook: «Reclutati 40 italiani».
[3]
Il metodo democratico non è ovviamente contemplato. Sono peraltro stati
sollevati dubbi circa l’effettiva rappresentanza dell’intera comunità
musulmana di coloro che hanno espresso la bay’a la quale, per di
più, da sola non sarebbe sufficiente a sancire la validità della
proclamazione, mancando l’indispensabile parere favorevole degli ulema (la comunità dei dotti, n.d.r.).
[4]
Questo, si badi, non esclude che il Sultano potesse interessarsi delle
questioni religiose, cosa che era praticamente la norma.
[5]
In verità i sultani ottomani si attribuirono il titolo di Califfo sin
dal 1517, ma non essendo essi né legati da vincoli di sangue con il
Profeta né tantomeno appartenenti alla tribù araba dei coreisciti, non
avevano i requisiti generalmente richiesti per potersi fregiare di tale
titolo; ma poiché de facto la maggior parte dell’umma ricadeva sotto il loro governo, essi rivendicarono de iure tale carica che però inizia a comparire nei documenti ufficiali solo dopo il 1774, con Abdul Hamid I.
[6]
Le capitali dei tre Califfati “storici” sono state, rispettivamente,
Medina, Baghdad e Damasco. Le differenze tra Islamic State ed Impero
Ottomano sono peraltro ben più profonde: tanto quest’ultimo era
multietnico, plurilingue e pluriconfessionale (al netto delle periodiche
persecuzioni delle minoranze religiose), tanto l’IS attua in modo
sistematico l’eliminazione delle minoranze etniche, linguistiche e
naturalmente religiose che rientrano nel suo territorio. Visto sotto
questa luce l’accostamento fatto dal “fratello Mehedi” tra Roma e
Costantinopoli, l’odierna Istanbul (che viene significativamente citata
con il suo nome latino), come futuro obiettivo da conquistare è
significativo di come, agli occhi degli jihadisti, la metropoli sul
Bosforo sia da redimere al pari della città che ospita il soglio di
Pietro.
[7] Competizione che ha
raggiunto l’apice, anche mediatico, nel corso degli attentati
terroristici di Parigi del gennaio 2015: mentre i fratelli Kouachi,
autori dell’assalto alla sede del Charlie Hebdo, sarebbero stati
addestrati in Yemen nei campi dell’AQAP (al-Qaeda in the Arabian
Peninsula), Amedy Coulibaly, responsabile del pressoché contemporaneo
assassinio della poliziotta di quartiere Clarissa Jean-Philippe e della
strage al supermercato kosher, ha dichiarato legami con l’IS, come
sarebbe comprovato dalla fuga in Siria della moglie (e complice?) Hayat
Boumeddiene.
[8] La scelta da parte
dello Stato Islamico di “agire locale” non significa che esso non “pensi
globale”: così come al.Qaeda, gli uomini di al-Baghdadi guardano
all’intera umma ed alla necessità della sua unità.
[9]
Sudan prima ed Afghanistan poi sono stati visti da Osama bin Laden come
semplici basi logistiche. Caso emblematico l’Afghanistan, dove si
lasciò ai talebani il compito di organizzare i territori controllati,
accontentandosi di ricevere protezione e di poter allestire i propri
campi di addestramento. I talebani, dal canto loro, con l’avvio
dell’operazione Enduring Freedom e lo schieramento del dispositivo ISAF,
lasciarono rapidamente le città rifugiandosi nelle zone montuose di
confine dove potevano attuare le tattiche di guerriglia più loro
consone. Insomma, nemmeno i talebani dimostrarono grossa affezione per
il modello statuale!
[12]
A riguardo viene sottolineato come l’IS non disponga di tecnici con
adeguate competenze sicché non è in grado di rimettere in funzione
quegli impianti che vengono danneggiati dagli attacchi aerei né
tantomeno di avviare ulteriori trivellazioni.
[13]
L’operazione “Decisive Storm”, sostituita poi da “Renewal of Hope”,
guidata dall’Arabia Saudita con il concorso di una dozzina abbondante di
stati arabi contro i ribelli Houti nello Yemen è indicativo di questo sentiment e non è che l’ultimo capitolo di quella lotta per procura che oramai da anni si svolge tra sunniti e sciiti.
Isis, nuovo attentato a una moschea in Arabia Saudita
Prosegue la campagna del Daesh di attacchi ai luoghi di culto sciiti nel paese. Serve più controllo alle frontiere
29 maggio 2015
Nuovo attacco contro la moschea sciitadi Al-Anoud in Arabia
Saudita. Almeno quattro persone hanno perso la vita e molte altre sono
state ferite a seguito di un’esplosione causata da un attentato suicida
(shahid). Un gruppo di uomini hanno cercato di parcheggiare un veicolo
nei pressi di una moschea a Dammam (nell’Est), dove i fedeli erano
riuniti in occasione delle tradizionali preghiere del venerdì, ma sono
stati scoperti e bloccati. A quel punto l'automobile è detonata. È il
secondo attacco a un luogo di culti sciita nel paese in una settimana.
Lo scorso venerdì, infatti, 21 persone erano morte a Qatif a seguito
dell’esplosione di una bomba. Lo stesso giorno, peraltro, era avvenuto
un evento analogo anche a Sana’a. La mano dietro agli attacchi è quella
dell’Isis, che ha rivendicato le due azioni della settimana scorsa. Per
quanto riguarda quella nello Yemen ha fatto sapere che “I membri del
Califfato – si legge su uno dei profili Twitter vicini alla formazione –
hanno fatto detonare un ordigno presso una moschea degli Houti, che ha
portato alla morte e al ferimento di molti di loro”. In relazione a
quella a Qatif, invece, la formazione si era limitata a confermare di
essere l’autrice dell’attentato.
Le intelligence internazionali
ritengono che l’Isis abbia avviato una campagna di attacchi terroristici
nei due paesi per tre motivi: il primo è lanciare – soprattutto nei
confronti di Riad – un messaggio chiaro: avete attaccato lo Yemen e
siete un alleato dell’Occidente. Perciò, anche se combatte il nemico
comune (gli Houti), siete voi stessi un nemico. Il secondo vuole essere
un avvertimento a tutti gli sciiti, che non saranno al sicuro in nessuna
parte della Regione. Il terzo, infine, è teso a far crescere l’immagine
del Daesh non solo in tutta l’area, ma anche a livello globale.
L’obiettivo dello Stato Islamico, infatti, è imporre il proprio potere
con la forza, non solo nei confronti degli infedeli, ma anche sui
musulmani in tutto il mondo. Attaccare i luoghi di culto all’estero (in
particolare il venerdì, giorno “sacro” per i musulmani) vuol
rappresentare una dimostrazione di forza. C’è da aspettarsi, perciò, che
questa campagna di attentati prosegua, fino a che gli investigatori
locali non riusciranno a identificare e a smantellare le cellule dei
fondamentalisti.
Questi dovranno anche trovare il modo di
“sigillare” i rispettivi confini rispetto al passaggio dei miliziani
dell’Isis, in quanto gli attentatori in Arabia Saudita e Sana’a (almeno
per quanto riguarda venerdì scorso) erano stranieri e quello di Qatif
presumibilmente era entrato illegalmente nel paese passando dallo Yemen.
Di conseguenza, diventa fondamentale per Riad riuscire a ristabilire il
controllo capillare delle frontiere. Per quanto riguarda il Daesh, per
contrastare le mire espansionistiche d’influenza nell’area. Sul versante
degli Houti, al fine di evitare che elementi dei ribelli sciiti possano
infiltrarsi e colpire obiettivi sensibili sauditi, in particolare in un
momento delicato come questo in cui da una parte si sta discutendo in
Oman su una possibile tregua ma dall’altra proseguono gli attacchi da
entrambe le parti.
Martin Armstrong : "Trovo estremamente
preoccupante che sono stato l’unico a riportare la notizia della
riunione segreta a Londra"
Incontro segreto a Londra per “eliminare i contanti”
L’anno scorso, Kenneth Rogoff è anche
stato chiamato a discutere “l’abolizione della moneta fisica” per
fermare “l’evasione fiscale e attività illegali”
L’economista Martin Armstrong afferma
che ci sarà un “incontro segreto per eliminare i contanti” , si svolgerà
a Londra prima della fine del mese, con la partecipazione di
rappresentanti della BCE e della Federal Reserve. Armstrong,
che è noto per aver predetto il crash del Lunedì Nero del 1987,così
come il crollo finanziario russo del 1998, ha espresso il suo shock
,riguardo al fatto, che nessun giornale ha riportato nulla su questa
conferenza.
“Trovo estremamente preoccupante che sono stato l’unico a
riportare la notizia della riunione segreta a Londra. Kenneth Rogoff
dell’ Harvard University, e Willem Buiter, il capo economista di
Citigroup, incontreranno le banche centrali per ottenere l’eliminazione
di tutti i contanti,in modo tale che,non si potrà comprare o vendere
nulla senza l’approvazione del governo “, scrive Armstrong.
“Quando ho “googolato” la questione per vedere chi altro l’ha portata
all’attenzione dei media, con mia grande sorpresa, ho scoperto che ero
l’unico.Ho trovato solo altri post, che citavano me come unica fonte; ho
anche trovato la diffusione,di alcune notizie, relative alla Banca
centrale della Nigeria, ma devo ancora trovare delle relazioni sulla
riunione che si terrà a Londra.”
Armstrong ha riportato per primo l’attenzione sul presunto incontro
all’inizio di questo mese , ha rivelato che i rappresentanti della
Federal Reserve , e della BCE così come i rappresentanti delle banche
centrali svizzere e danesi sarebbero tutti invitati a una “grande
conferenza a Londra”, in cui Kenneth Rogoff dell’ Harvard University, e
Willem Buiter, il capo economista di Citigroup, la presiedono.
“E ‘meglio dormire con un occhio aperto, sulla nascita di una
società senza contanti, che sta arrivando molto più velocemente del
previsto. Perché l’incontro è segreto? C’è puzza di bruciato”,
conclude Armstrong. Discussioni e tendenze verso l’eliminazione del
contante si ripetono continuamente nelle ultime settimane. Willem
Buiter, Armstrong sostiene che parlerà alla riunione segreta, ha
recentemente sostenuto l’abolizione totale dei contanti al fine di
“risolvere il problema delle banche centrali del mondo” con tassi di
interesse negativi. “
L’anno scorso, Kenneth Rogoff è anche stato chiamato a discutere
“l’abolizione della moneta fisica” per fermare “l’evasione fiscale e
attività illegali”, così come impedire alle persone di ritirare i soldi
quando i tassi di interesse sono prossimi allo zero.
Fonte: miccolismauro
Papa Francesco: la fede vera fa miracoli non affari
Papa Francesco nella Cappella di Casa Santa Marta
29/05/2015 09:58
La fede autentica, aperta agli altri e
al perdono, fa miracoli. Dio ci aiuti a non cadere in una religiosità
egoista e affarista: è quanto ha detto il Papa nella Messa del mattino a
Santa Marta. Il servizio di Sergio Centofanti:
Gesù condanna l'egoismo spirituale Il Vangelo del giorno propone “tre modi
di vivere” nelle immagini del fico che non dà frutti, negli affaristi
del tempio e nell’uomo di fede. “Il fico – afferma il Papa - rappresenta
la sterilità, cioè una vita sterile, incapace di dare qualsiasi cosa.
Una vita che non fruttifica, incapace di fare il bene”: “Vive per sé; tranquillo, egoista,
non vuole problemi. E Gesù maledisse l’albero di fico, perché è sterile,
perché non ha fatto del suo per dare frutto. Rappresenta la persona che
non fa niente per aiutare, che vive sempre per se stessa, affinché non
le manchi niente. Alla fine questi diventano nevrotici, tutti! Gesù
condanna la sterilità spirituale, l’egoismo spirituale. ‘Io vivo per me,
che a me non manchi niente e che gli altri si arrangino!’”. Non fare della religione un affare L’altro modo di vivere – sottolinea il
Papa – “è quello degli sfruttatori, degli affaristi nel tempio.
Sfruttano anche il luogo sacro di Dio per fare degli affari: cambiano le
monete, vendono gli animali per il sacrificio, anche fra loro hanno
come un sindacato per difendersi. Questo era non solo tollerato, ma
anche permesso dai sacerdoti del tempio”. Sono “quelli che fanno della
religione un affare”. Nella Bibbia – ricorda il Papa – c’è la storia dei
figli di un sacerdote che “spingevano la gente a dare offerte e
guadagnavano tanto, anche dai poveri”. E “Gesù non risparmia le parole”:
“La mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi, invece, ne avete
fatto un covo di ladri!”: “La gente che andava in
pellegrinaggio lì a chiedere la benedizione del Signore, a fare un
sacrificio: lì, quella gente era sfruttata! I sacerdoti lì non
insegnavano a pregare, non davano loro la catechesi… Era un covo di
ladri. Pagate, entrate… Facevano i riti, vuoti, senza pietà. Non so se
ci farà bene pensare se da noi accade qualcosa del genere in qualche
posto. Non so? E' utilizzare le cose di Dio per il proprio profitto”. La fede che aiuta gli altri fa miracoli Il terzo modo di vivere è “la vita di
fede”, come indica Gesù: “’Abbiate fede in Dio. Se uno dicesse a questo
monte ‘levati e gettati nel mare’, senza dubitare in cuor suo, ma
credendo che quanto dice avviene, ciò avverrà. Tutto quello che
chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi
accadrà’. Accadrà proprio quello che noi con fede chiediamo”: “E’ lo stile di vita della fede.
‘Padre, cosa devo fare per questo?’; ‘Ma chiedilo al Signore, che ti
aiuti a fare cose buone, ma con fede. Solo una condizione: quando voi vi
metterete a pregare chiedendo questo, se avete qualcosa contro
qualcuno, perdonate. E’ l’unica condizione, perché anche il Padre vostro
che è nei cieli perdoni voi, le vostre colpe’. Questo è il terzo stile
di vita. La fede, la fede per aiutare gli altri, per avvicinarsi a Dio.
Questa fede che fa miracoli”. Questa la preghiera conclusiva di
Papa Francesco: “Chiediamo oggi al Signore … che ci insegni questo stile
di vita di fede e che ci aiuti a non cadere mai, a noi, ad ognuno di
noi, alla Chiesa, nella sterilità e nell’affarismo”.
Ferrovie Stato, incarico a McKinsey & C. per
processo privatizzazione
28 maggio 2015
ROMA - Ferrovie dello
Stato Italiane ha formalizzato l'incarico a McKinsey & Company, come
capofila, in associazione temporanea d'impresa con Ernst & Young Financial
Business Advisors e The Brattle Group Limited Italian Branch come advisor
industriali per il processo di privatizzazione.
Il Consiglio di amministrazione di Ferrovie dello Stato Italiane, riunitosi
oggi sotto la presidenza di Marcello Messori, ha approvato all’unanimità
l’operazione di riorganizzazione di Grandi Stazioni.
L’operazione sarà realizzata con la scissione non proporzionale dei rami di
attività di GS il cui patrimonio sarà conferito a due società per azioni di
nuova costituzione. Il CdA ha deliberato, ai fini della predisposizione del
progetto di scissione, di non rinunciare alla relazione degli esperti, la cui
nomina sarà richiesta con apposita istanza al Tribunale.
Il CdA ha quindi invitato l’Amministratore
Delegato, Michele
Mario Elia, a compiere tutte le attività propedeutiche, compresa la
predisposizione delle bozze di Accordo di scissione e dei connessi accordi tra
i soci e del bando di gara, che saranno sottoposti all’approvazione del CdA di
FS Italiane.
Guidi: "Stiamo risalendo la china anche se la salita è ripida"
"Credo che questo Governo abbia già fatto e stia facendo
tutto quello che è in suo potere”. E’ così che il ministro dello
Sviluppo Economico, Federica Guidi ha parlato alla Conferenza annuale
di...
(Teleborsa) - "Credo che questo Governo abbia già fatto e stia
facendo tutto quello che è in suo potere”. E’ così che il ministro dello
Sviluppo Economico, Federica Guidi ha parlato alla Conferenza annuale di Confindustria all'Expo di Milano.
Il Ministro, nel suo intervento ha ripercorso le tappe di undici mesi
di Governo, mettendo in evidenza le riforme e il lavoro fatto con i
decreti di "attuazione che superano il 70% sui decreti emanati da
precedenti governi e il 64% di attuazione sui decreti emanati da questo
Governo. I nostri numeri parlano da soli", ha detto la Guidi che ha
sottolineato come "l’industria sia il motore della crescita: la spina
dorsale della nostra economia".
Il Ministro ha detto di guardare
alle economie emergenti. "Noi vogliamo che l’Italia sia là che riesca ad
offrire il meglio di sé. Da questo luogo, vorrei raccontare le stime e
quello che abbiamo fatto negli ultimi 11 mesi. Noi abbiamo cercato di
trovare soluzioni a dispetti di chi continuava a ripetere: non si può
fare!. E' vero che l’Italia sta godendo di una congiuntura favorevole ma
nulla di tutto questo sarebbe stato sufficiente se non ci fossimo
impegnati ad arare un terreno fertile. Quando la congiuntura favorevole è
arrivata, il Governo era lì. Per rilanciare lo sviluppo bisogna mettere
le imprese in condizioni di lavorare".
Poi rivolgendosi alla
platea degli industriali la Guidi ha detto: “ il Governo vi ha dato
risposte che voi vi aspettavate”. Stiamo risalendo la china, ha detto la
Guidi, anche se la salita è ripida". La Guidi ha ricordato poi l
decreto sblocca Italia , ma anche la riforma scolastica ancora al vaglio del Parlamento e il Job act "la più grande innovazione dalla Legge Biagi" e gli 80 euro in busta paga che il Ministro ha definito come "una grande rivoluzione".
Non
poteva mancare un riferimento alla bolletta elettrica. Il Ministro
Guidi ha dichiarato che è stato ridotto l'impatto dei costi della
bolletta sulle PMI di almeno il 10%. "Abbiamo cercato di fare lavoro
molto complesso", ha detto la Guidi che ha sottolineato come il Governo
abbia "aderito con convinzione ai mercati europei" per cercare di
uniformarsi ai costi degli altri Paesi UE. Il Ministro ha poi ricordato
come il Governo abbia dato il via libera gasdotto TAP:"un passo atteso
che ci consente di perseguire la strategia di diversificazione di
fornitura energetica stimolando la concorrenza che deve essere un metodo
non un obiettivo per dare senso concreto al decreto sblocca Italia."
(Agenzie). A margine del 42° vertice dell’Organizzazione
per la Cooperazione Islamica in corso in Kuwait, il vice ministro degli
Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha dichiarato che l’Iran
rifiuta l’idea di una no-fly zone in Siria, dicendo che sarebbe “un errore” e che non ripristinerebbe la stabilità e la sicurezza nella regione.
L’idea della no-fly zone è stata proposta dalla Turchia come
conditio sine qua non per aderire alla coalizione anti-Daesh a guida
statunitense, oltre alla creazione di una zona cuscinetto lungo il
confine siro-turco e l’addestramento dei gruppi ribelli col fine di
rovesciare il regime Assad. Tuttavia, gli stessi Stati Uniti hanno
affermato alla fine dello scorso anno che una no-fly zone non sarebbe efficace a causa della presenza di più di un milione di rifugiati siriani alla frontiera.
Energia, prof.Bardi (Univ. di Firenze): “Senza investire nel rinnovabile la ripresa è solo apparente”
Gio, 2015-05-28 15:00 — La Redazione
“La crisi economica che stiamo vivendo è frutto soprattutto dell'esaurimento delle risorse naturali.
Se no n investiamo nell'energia rinnovabile la ripresa dell'economia
del nostro Paese è solo apparente – E' quanto sostiene il prof. Ugo
Bardi, docente del dipartimento di Scienza della Terra all'Università di
Firenze e membro del Club di Roma, think tank internazionale dedicato
alla gestione delle risorse naturali di tutto il pianeta, che domani,
venerdì 29 maggio, allo Chalet Fontana terrà un incontro dal titolo “La
Terra Svuotata”. Secondo Bardi è “difficile pensare di invertire la
tendenza di una crisi che rischia di accelerare a causa della carenza di
risorse minerali che non sono e non saranno più a buon mercato. La
situazione attuale – continua Bardi - rende sempre più difficile
l'approvvigionamento della nostra industria che non riesce a mantenere
un livello concorrenziale rispetto agli altri paesi dell'Unione Europea.
Difficile pensare di invertire la tendenza se non si attuano
investimenti strutturali capaci di dare prospettive e rimettere in sesto
la nostra economia. Intendo dire che il futuro dipenderà dalla nostra
capacità di utilizzare le risorse rinnovabili che abbiamo a disposizione
in modo sempre più efficiente. A questo proposito – continua Bardi – in
Toscana stiamo vivendo u na situazione molto favorevole rispetto ad
altre regioni, grazie soprattutto alla disponibilità di risorse di tipo
geotermico ma è evidente che non stiamo facendo abbastanza e che è
necessario fare molto di più. Preso atto che il Governo Centrale sembra
non essere particolarmente interessato, ma anzi, ha posto forti ostacoli
ad uno sviluppo in questa direzione, sarà compito dunque della Regione
intervenire da una parte investendo e dall'altra attuare politiche di
sensibilizzazione su questo tema. In Italia, negli ultimi cinque anni –
conclude Bardi – sono andati persi il 35% dei nostri consumi petroliferi
e questo significa che non sarà scavando pozzi in campi dove le risorse
sono esaurite, che potremmo rilanciare l'economia dl nostro Paese.
L'Italia importa oltre il 4% del PIL per i combustibili fossili, quasi
il 10% in termini di risorse minerali. Questo è sostanzialmente di più
di quanto non sia per economie più efficienti e che reggono molto meglio
la crisi, come quella della Germania e della Svizzera. La produzione
nazionale di petrolio è circa il 7% dei consumi. Anche ammesso che fosse
possibile raddoppiarla questo non ci aiuterebbe a ottenere
l'indipendenza energetica e sarebbe estremamente costoso (oltre che
inquinante)”.
Louisiana –The other side (intendendo l’altro
lato degli Stati Uniti) di Roberto Minervini è il più bel film italiano
presente al festival di Cannes di quest’anno, nella sezione Un certain
regard. Non ha vinto premi anche se era il film che più meritava di
vincerne.
Minervini è italiano, ha poco più di quarant’anni e vive e lavora
negli Stati Uniti, per l’esattezza nel Texas, a cui ha dedicato i tre
film forse più veri tra i mille girati in quello stato non troppo
democratico. Viene da Monte Urano, in provincia di Fermo, ha fatto
l’impiegato di banca, ha sposato una filippino-americana e, in seguito
al disastro del World trade center (lavorava nella zona), ha avuto
rimborsi che gli hanno permesso di frequentare la scuola di cinema di
New York. Poi si è trasferito in Texas per il lavoro della moglie e lì
ha realizzato tre film ammirevoli, che sono “documentari”, come insiste a
dire il sottotitolo di quest’ultimo. Propongono esempi di vera vita
americana nel bene e nel male, quella che Hollywood non narra più da
tempo, la grande “fabbrica di salsicce” di cui parlava Erich von
Stroheim che ci perse le penne, oggi frigidamente ipertecnologica e
iperbancaria, e fornitrice di salsicce geneticamente modificate perfette
per zombie e robot, per postumani.
Più di mezzo secolo fa un altro grande “documentarista”, il padre di tutti, Robert J. Flaherty, realizzò un Louisiana story
che metteva a confronto natura e petrolieri nell’illusione di un
accordo, di uno sviluppo sostenibile e non distruttivo. I risultati li
si vede in questo film, che osa raccontare, mettendosi automaticamente e
senza nessuno sforzo da parte loro, i loser, i perdenti assoluti nella struggle for life
della tremenda civiltà statunitense. Che sono tanti e sempre di più,
nel paese i cui servi e tifosi continuano a decantarci come la terra di
tutte le opportunità. La scelta di Minervini è stata immediata, quella
di mettersi dalla loro parte e raccontarli per come sono, i loser,
gli sconfitti, trovandoli peraltro molto coscienti degli inganni del
sistema. Sopravvivono come possono, arrangiandosi tra la natura e il po’
di lavoro che gli viene offerto, e sopravvivono – Minervini ce lo
mostra con una chiarezza priva di pietismi – anche facendosi e
ubriacandosi, ricorrendo alla droga e all’alcol come modi per
dimenticare e per dimenticarsi. Per sopportare la cattiveria del mondo.
Minervini ama e rispetta i suoi personaggi, e il suo eroe è un Tom Joad
di oggi, di non minore coscienza sociale ma ancor più privo di
speranza, che ha al suo fianco una compagna di pene e di amore (come nel
vecchio e dimenticato Uomo del sud di Jean Renoir) e un
gruppo, ha amici parenti vicini e ha compagni di lavoro. La sua lucidità
è grande, ma nonostante questo non è un disperato, e sa godere del poco
che ha. C’è una scena del film che può far piangere per la tenerezza di
cui è intrisa, quella in cui l’uomo e la donna fanno l’amore,
fanno sesso sotto i nostri occhi di spettatori, ed è la più bella, la
più dolce scena di sesso al cinema che io riesco a ricordare. È una
scena d’amore dentro un film d’amore. La vita della piccola comunità e
della famiglia che ne fa parte è narrata senza compiacenze ma anche
senza un’ombra di quella malsana curiosità a cui indulgono le migliaia
di documentaristi di oggi, voyeur che lavorano per altri voyeur:
perché è bello, no?, andare in trattoria con gli amici dopo aver visto
la miseria e il dolore degli altri, è una forma d’ipocrisia nota da
sempre. Questo in Louisiana non ci è permesso, neanche nelle sue scene più crude.
La seconda parte del film (un terzo, forse meno) dimentica questi
personaggi e racconta uno strano modo di reagire da parte di un gruppo
che invece è attivo, non di mera sopravvivenza: reduci e altri che si
addestrano alla guerriglia tra boschi e paludi in vista di chissà quale
invasione della Louisiana (forse da Washington, forse da un Obama che ha
tradito troppe speranze).
Anche questo è vero e impressionante, il distacco da un centro che
non sa rispettarli (il centro del capitalismo, infine, o il suo centro
maggiore) e la paura di chissà quali aggressioni, in una confusione
ideologica che può far sorridere solo gli ipocriti opinionisti dei
nostri quotidiani. Gruppi, insomma, per i quali potremmo azzardare la
definizione di castro-fascisti. Louisiana fa pensare nella prima parte a
Furore, nella seconda a Nashville. Ma è diverso da
entrambi perché è diverso il mondo di oggi, gli Stati Uniti di oggi, non
siamo negli anni trenta e neanche alla metà dei settanta. Siamo,
appunto, nel mondo di oggi e tra i suoi perdenti, nel cuore stesso del
sistema di potere, economico e ideologico, di cui anche noi siamo
succubi.
Di queste cose dovremmo discutere, prima ancora che di mamme di orchi
di cinema, di vecchiaia e di gioventù invero cadaveriche, nella nostra
cieca ottusità di consumatori consenzienti di idee e di patatine, di
droghe, da futuri loser, da destinati a perdere e che forse hanno già perso senza neppure accorgersene.
PRIMA DELL'ESPULSIONE DI ISRAELE GLI USA ORDINANO IL RAID CONTRO LA FIFA
Gli Stati Uniti hanno ordinato alla polizia svizzera di arrestare,
imprigionare ed estradare negli Stati Uniti sei funzionari della FIFA
per presunta corruzione. Il raid, ovviamente con pre-allarme per avere i
reporter del New York Times sulla scena, avviene poco prima della
votazione nella FIFA per espellere Israele dall’associazione.
L’associazione calcistica mondiale FIFA si riunisce a Ginevra, in
Svizzera, per il 65° Congresso Mondiale. Una delle votazioni all’ordine
del giorno (.pdf) era su “Sospensione od espulsione di un membro“, anche
con un “aggiornamento sulla questione israelo-palestinese”.
L’Associazione calcistica palestinese aveva chiesto la votazione per
sospendere Israele dalla FIFA:
“Il gruppo palestinese si oppone alle squadre israeliane che giocano
in Cisgiordania. Inoltre, affermano che Israele limita i movimenti dei
giocatori palestinesi tra Cisgiordania e Gaza, nonché per le partite
internazionali. Continua il suo bullismo, e credo che si senta in
diritto di continuare ad esserlo nel quartiere“, ha detto il presidente
dell’Associazione calcistica palestinese Jibril Rajoub. “Se gli
israeliani usano la questione della sicurezza, posso dire che il loro
problema della sicurezza è il mio. Sono pronto a decidere sui parametri
della sicurezza, ma non deve essere usata… come strumento per perpetrare
queste politiche da apartheid razzista“. Ha dichiarato che la
situazione in Cisgiordania è di gran lunga peggiore dell’apartheid in
Sudafrica, a causa degli estremisti e della destra israeliani che
vogliono “cancellare la Palestina”. Negli anni ’60 la FIFA sospese il
Sud Africa per decenni per non aver rispettato le politiche di non
discriminazione dell’associazione. La nazione fu anche espulsa dalla
FIFA un mese dopo la rivolta di Soweto del 1976. “Non chiedo la
sospensione dell’associazione israeliana, chiedo di porre fine alle
sofferenze dei calciatori palestinesi”, ha detto Rajub. “Chiedo di por
fine a rimostranze e all’umiliazione che subiamo“.
La votazione richiede una maggioranza del 75% dei 209 membri della
FIFA. C’era la probabilità che sarebbe passata. Ma ora, casualmente, il
governo degli Stati Uniti ha ordinato alla polizia svizzera di fare
irruzione nell’hotel dove i principali funzionari della FIFA risiedono
ad arrestarne alcuni con l’accusa di corruzione risalenti ai primi anni
’90. Gli Stati Uniti ne vogliono l’estradizione per processarli in un
tribunale statunitense. Inoltre, casualmente, giornalisti e fotografi
del New York Times erano nell’hall dell’hotel svizzero, alle 6 del
mattino, per riprendere l’incidente in diretta:
“Essendo a capo della FIFA, organo del governo globale del calcio, si
erano riuniti per l’incontro annuale; più di una dozzina di agenti
delle forze dell’ordine svizzere in borghese è arrivata senza preavviso
presso l’hotel Baur au Lac, elegante struttura a cinque stelle con vista
su Alpi e Lago di Zurigo. Sono andati alla reception per avere le
chiavi e sono saliti alle camere… Le accuse riguardano la diffusa
corruzione nella FIFA negli ultimi due decenni, rigaurdanti accordi
sulla Coppa del Mondo oltre a marketing e trasmissioni, secondo tre
agenti della polizia collegati al caso. Le accuse includono frode
telematica, racket e riciclaggio di denaro, e secondo i funzionari hanno
preso di mira i membri del potente comitato esecutivo della FIFA, che
esercita un potere enorme e svolge attività in gran parte segrete”.
Se
alcune delle persone incriminate sono cittadini degli Stati Uniti, ci
si chiede con quali contorsioni il dipartimento di Giustizia degli Stati
Uniti rivendichi la giurisdizione su funzionari FIFA di altra
nazionalità:
“La legge degli Stati Uniti dà ampia autorità al dipartimento di
Giustizia d’indagare cittadini stranieri residenti all’estero,
un’autorità che i pubblici ministeri hanno utilizzato più volte nei casi
di terrorismo internazionale. Tali casi possono dipendere dall’esigua
connessione negli Stati Uniti, come l’uso di provider internet o di
banche statunitensi”.
È corruzione quando la FIFA decide di far svolgere il Campionato del
Mondo in questo o quel Paese? Vi sono tangenti quando si vendono diritti
mediatici? Ci sarebbe gioco d’azzardo nei casino?
“Rick: Come può farmi chiudere? Su che basi capitano? Renault: Sono
scioccato, sorpreso di scoprire il gioco d’azzardo che avete qui! (Un
croupier passa a Renault un mucchio di soldi) Croupier: Le vostre
vincite, signor Capitano. Renault: Oh, vi ringrazio molto”.
Aggiungete
che gli USA hanno ordinato l’incursione agli svizzeri che si sentono
anche costretti ad aprire un procedimento penale sul voto della FIFA per
la Coppa del Mondo 2018 e 2022. Gli Stati Uniti persero contro Russia e
Qatar nella gara per i mondiali, e i falchi statunitensi insistono per
una rivincita. E non è che pagare tangenti per farsi scegliere per i
mondiali sia cosa ignota negli Stati Uniti, ma essendo stati respinti
vogliono il cambio di regime al vertice dell’organizzazione. Negli Stati
Uniti è legale corrompere politici finanziandone le campagne elettorali
praticamente illimitatamente. Non un banchiere statunitense è stato
incriminato per la massiccia frode di Wall Street che ha bloccato
l’economia mondiale. Il mondo lo sa e non gradisce che gli Stati Uniti
diano lezioni di moralità. La FIFA, certamente corrotta, è anche l’anima
del calcio mondiale e l’organizzatrice dei più amati campionati del
mondo. Se gli Stati Uniti ritengono di usare qualcosa di simile alle
accuse di terrorismo contro la FIFA, si capirà nel mondo che c’è
qualcosa di molto sbagliato. Tanto più che il motivo di tutto ciò è
abbastanza evidente. Un giornalista israeliano già gongola:
“Anshel Pfeffer. Povero Jibril Rajoub. Non sembra che la sua trovata avrà molta attenzione in questo momento alla FIFA”.
Fatemi indovinare: Era l’obiettivo principale di questo raid?
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
Fonte in lingua italiana: aurorasito.wordpress.com
Fonte in lingua originale: moonofalabama.org