La sinistra Riformista è destinata a perdere, perchè diventata serva del Capitalismo e ha perso il suo ruolo di redistribuizione, invocare una riacquisizione di capacità politica per redistribuire è un obiettivo che ci è estraneo perchè mantiene intatto il Sistema di potere Capitalistico.
Se non si critica alla radice la cultura dominante che tende a mercificare tutto, anche i sentimenti, a confondere i generi per rendere sempre più solo ed isolato l'individuo, eliminando il sostegno dell'istituzione famiglia, vera camera di compensazione del delirio dell'individualismo, punto di riferimento e ancoraggio certo e fondamentale per non morire nell'annegamento del caos sociale creato appositamente, presentando continuamente e in tutte le maniere forme di nichilismo in cui riusciamo ad uscirne fuori solo momentaneamente quando per caso o necessità ci troviamo ad assurgere al ruolo di consumatore, continueremo ad essere i nuovi schiavi moderni.
Proprio dalla famiglia e dal baluardo che esso rappresenta che bisogna ripartire per ricostruire comunità, prima affettive e poi sociali, economiche culturali, ricominciando a vedere nelle comunità il fulcro della riscossa e della riappropriazione della vita, la nostra vita.
Comunità che sono tante che vanno da quelle territoriali e che si intrecciano con quelle lavorative in un connubio così forte da rilanciare valori di solidarietà, di comunanza, di rispetto, di fiducia. Senza remore, senza tentennamenti in quanto sia istintivamente sia razionalmente si interiorizza il fatto che solo in questo modo si riesce a contrapporre e a creare Alternative valide a quelle che propone il Capitalismo Totalizante, Assoluto.
No, Noi non possiamo accontentarci di una politica di riappropriazione redistribuitiva che è serva di questo Sistema sociale e non avvia quella rottura necessaria e portante per la nascita dell'Uomo Nuovo.
Martelun
12/06/2015
Nei
giorni del lancio della Coalizione Sociale di Landini: come ha fatto a
perdersi la gloriosa eredità della sinistra riformista - e cosa fare
adesso
(Alan Crowhurst/ Getty Images)
Il
7 giugno, a Roma, Maurizio Landini - segretario della Fiom, il
sindacato dei metalmeccanici della Cgil - ha presentato un nuovo
movimento politico, Coalizione Sociale. Landini ha rifiutato di farsi
incasellare nella tradizionale divisione destra/sinistra: «Noi non siamo
a sinistra del Pd e non siamo a sinistra di nessuno», ha detto,
preferendo sottolineare che la sua battaglia è per ripristinare «la
cultura dei diritti».
Allarghiamo l’orizzonte: le ultime amministrative spagnole hanno
visto il clamoroso successo di Podemos, che si autodefinisce un
movimento “populista di sinistra”; il Movimento Cinque Stelle in Italia,
terza forza in molte regioni italiane dopo le ultime amministrative, si
dichiara “oltre” lo schema partitico tradizionale. In altre parole, i
nuovi movimenti oggi marcano una discontinuità rispetto al passato “di
sinistra” più tradizionale, anche quando le politiche che propongono
spesso le richiamano.
È la conseguenza ultima di una debolezza di pensiero dimostrata
dal centrosinistra europeo negli ultimi anni. Dopo decenni di egemonia,
il pensiero progressista sembra aver preso altre strade e scelto altre
parole d’ordine. Come si è arrivati a questo punto? E da dove può
ripartire il centrosinistra? Un testo dello studioso statunitense Cas
Mudde traccia, in modo molto chiaro, il percorso della crisi di
identità, di elaborazione politica - e di voti.
La crisi economica in corso ha già creato, in politica, molti
sconfitti e qualche vincitore – per la maggior parte dalla vita breve –
ma in mezzo a tutto il cambiamento c’è qualcosa che rimane costante:
la debolezza della sinistra.
Nonostante le tassative messe in guardia della destra neoliberale a
proposito di un’ondata della “sinistra radicale”, i veri partiti della
sinistra radicale hanno ricevuto poco beneficio dalla distruzione
socio-economica che ha devastato larga parte del continente europeo.
I veri partiti della sinistra radicale hanno ricevuto poco beneficio dalla distruzione socio-economica
La greca Syriza è l’unica vera storia di successo, ed è una vicenda
che si situa nel contesto più estremo, come mostra dolorosamente la
parallela crescita del partito neonazista Alba Dorata.
Altri partiti di sinistra, come il Partito Socialista olandese (PS) o
il Fronte di Sinistra (FdG) francese, sono di “estrema sinistra” solo
nella mente dei commentatori neoliberalisti come
le firme dell’Economist.
Allo stesso tempo, i partiti socialdemocratici non si sono mossi
significativamente (di nuovo) a sinistra e non hanno neppure guadagnato
un supporto significativo nelle recenti elezioni.
Questa assenza di un controprogetto di sinistra di successo per la
crisi economica in corso e per il futuro europeo ha portato a un
frenetico esame di coscienza all’interno dei circoli di sinistra,
soprattutto in
think tank come
Policy Network, ma finora le analisi e le prospettive non sembrano promettenti.
Credo che le questioni in ballo riguardino un livello molto più
profondo di quanto la maggior parte dei commentatori abbiano
riconosciuto, e includano anche la politica redistributiva sia dal lato
della domanda che da quello dell’offerta - o la politica
socialdemocratica della vecchia scuola, se preferite.
Trent’anni di egemonia neoliberale hanno creato parecchie generazioni di europei poco raggiunte dall’ideologia socialdemocratica
e con poca esperienza di politiche redistributive significative. Ciò è
riflesso nel cambiamento dei valori sia dell’elettorato tradizionale
(cioè la
working e la
lower middle class) che della
leadership politica dei partiti di sinistra.
Meno dello stesso
Facciamo un veloce passo indietro, alle politiche di sinistra negli ultimi tre decenni. In risposta ad una
working class bianca
in diminuzione, gran parte dei partiti socialdemocratici in Europa sono
andati alla ricerca di un nuovo elettorato, il cosiddetto “nuovo
centro” (
neue Mitte), che venne corteggiato tramite
una retorica della “Terza Via” in cui la pragmatica aveva la priorità sull’ideologia.
Rinunciando non solo al discorso pubblico, ma anche ai valori
fondamentali della socialdemocrazia - creare cioè una società
socio-economicamente più egualitaria attraverso l’intervento
redistributivo dello stato - la Terza Via cominciò come una versione
laica dell’economia sociale di mercato cristiano-democratica e finì come
una versione più leggera del neoliberismo.
Mentre la destra restava sempre più incantata dalla deregulation e dalle privatizzazioni, la risposta del (centro)sinistra fu la richiesta di un po’ meno della stessa cosa
Mentre la destra restava sempre più incantata dalla
deregulation e
dalle privatizzazioni, la risposta del (centro)sinistra fu
essenzialmente la richiesta di un po’ meno della stessa cosa e non molto
più di questo. Privo di un’alternativa ideologica, il centrosinistra
non aveva né la retorica né i valori per sfidare i fondamenti del
progetto neoliberista. Quest’ultima operazione fu lasciata alla sinistra
radicale, ovvero principalmente i partiti comunisti, che divennero di
fatto un danno collaterale della caduta del Muro di Berlino. Il
neoliberismo, dunque, regnò sovrano e la socialdemocrazia divenne una
religione senza profeti.
Uguaglianza etnica
Ma i socialdemocratici non guardarono solo al nuovo centro per
trovare nuovi elettori; essi cercarono anche oltre l’elettore “nativo”,
allargandosi in direzione del crescente gruppo degli immigrati e dei
loro discendenti (autoctoni). Avendo rinunciato alla retorica di classe,
questi “nuovi cittadini” furono corteggiati attraverso
un discorso multiculturale soft, in cui l’uguaglianza etnica rimpiazzava la solidarietà di classe.
Questa strategia ebbe molto successo nel breve termine: quando, nella
maggior parte dei paesi europei con un significative minoranze nella
popolazione, i partiti socialdemocratici divennero i preferiti dagli
elettori di quelle minoranze. Sfortunatamente, ciò avvenne a caro
prezzo: il voto della
working class bianca, che in molti paesi protestò tramite l’
uscita (il non voto) o la
voce (il voto per la destra radicale).
Vista la bassa partecipazione al voto di (gran parte delle)
minoranze, il nuovo elettorato “etnico” compensò a stento la perdita
dell’elettorato “nativo” - escludendo qualche elezione locale nelle
grandi città, dove i partiti socialdemocratici (ri)stabilirono la loro
presa sulla politica locale, ma in un modo decentrato e a volte
“etnicizzato”.
Sinistra radicale?
In alcuni Paesi, l’ex sinistra radicale provò a riempire il vuoto
socialdemocratico, anche se spesso senza troppa convinzione. Ne sono
buoni esempi il Partito Socialista olandese o
Die Linke in Germania, anche se quest’ultima ha coltivato in aggiunta una specifica identità “dell’Est” per catturare il voto dell’
Ostalgie [la nostalgia per la Ddr,
NdT].
Il problema, in questa socialdemocratizzazione della sinistra
radicale, fu soprattutto istituzionale. La maggior parte dei partiti di
quell’area radicale venivano da una lunga storia di opposizione alla
socialdemocrazia e dunque non potevano arrivare fino ad abbracciare
apertamente il verbo della socialdemocrazia, nonostante offrissero più o
meno un programma socialdemocratico.
Di conseguenza, il partito continuava ad usare un discorso di
sinistra radicale e uno stile radicalmente oppositivo, che lo
marginalizzava sia all’interno delle masse che tra l’
élite.
Inoltre, molti di questi partiti sono (ancora) guidati in modo opaco o
apertamente antidemocratico, il che ne ostacola l’attraenza e
l’efficacia in un sistema democratico liberale, basato sul compromesso e
sul pluralismo.
Bozzolo sdentato
E dunque, come si ritrova la sinistra, nel contesto della crisi europea? Per lo più senza artigli.
I partiti della sinistra radicale sono rimasti circoscritti ad una minoranza piuttosto stabile dell’elettorato, con l’eccezione della Grecia, dove larga parte della popolazione è così disperata da cercare
qualsiasi alternativa
ai partiti tradizionali dominati dalla Troika, e dove la
socialdemocrazia era secondaria rispetto al clientelismo populista.
Vista la loro inerzia intrinseca, ci sono poche ragioni per
aspettarsi un cambiamento significativo nel prossimo futuro. I partiti
socialdemocratici restano per lo più catturati nella rassicurante
bambagia della Terza Via, offrendo una debole variante delle politiche
di investimento keynesiane di fronte alla retorica e alle politiche di
austerità ancora dominanti.
Se la questione è limitata alle alternative “ideologiche”, alcuni sostengono che un
populismo di sinistra
possa contrastare il populismo di destra in presunta ascesa, per
riguadagnare così una parte dell’elettorato tradizionalmente
socialdemocratico. Vogliono che i partiti socialdemocratici divengano la
voce degli
Indignados e dei movimenti come
Occupy,
del 99 per cento contro l’1%. In un certo senso, questa è la conseguenza
radicale ma logica del pensiero della Terza Via, in cui il “nuovo
centro” è il 99%.
Ma
il populismo non è la risposta. Non solo riduce
la politica a una divisione essenzialmente morale, che esclude il
compromesso e il pluralismo; esso semplifica anche le vere divisioni
all’interno della società, che sono per la maggior parte all’interno del
99 per cento e non tra il 99 e l’1 per cento.
Riaffermare la socialdemocrazia
D’accordo con
Henning Meyer,
credo che la vera risposta stia nella nuova affermazione dei valori
socialdemocratici e nel presentare una risposta socialdemocratica alle
principali sfide di oggi e di domani: l’economia globale neoliberista,
le società multietniche e l’integrazione europea.
Tuttavia, a differenza di Meyer, non sono molto ottimista riguardo
alla possibilità, per gli attuali partiti socialdemocratici, di
intraprendere un simile progetto di ringiovanimento della
socialdemocrazia. Per prima cosa, quasi tre decenni di politica della
Terza Via non hanno avuto conseguenze solo elettorali, ma anche
istituzionali. Gran parte dell’apparato degli attuali partiti
socialdemocratici ha conosciuto solo una “ideologia” della Terza Via e
vi aderisce sinceramente. In secondo luogo,
i partiti socialdemocratici sono diventati partiti di governo,
che cercano primariamente cariche pubbliche. Un diverso orientamento
verso la socialdemocrazia è una strategia a medio termine che, nel breve
periodo, ha probabilmente delle conseguenze, in termini di perdita di
voti e di opposizione politica. E questo perché reinventare la
socialdemocrazia pone sfide non solo a livello di
élite, cioè
nell’apparato dei partiti socialdemocratici, ma ancora di più a livello
di massa, dove la (vera) socialdemocrazia è non solo sconosciuta a molte
generazioni di elettori ma anche contraddittoria rispetto alla loro
visione del mondo individualista o etnicizzata.
Gramsci e la destra conservatrice americana
Il cambiamento politico deve cioè essere preceduto da un cambiamento culturale
Di conseguenza, la reinvenzione della socialdemocrazia richiede un
approccio gramsciano: il cambiamento politico deve cioè essere preceduto
da un cambiamento culturale. È necessario ricostruire una coscienza di
“classe” (significativamente modernizzata) in cui le differenze
culturali siano secondarie. Bisogna convincere una popolazione sempre
più scettica (in particolare tra i giovani) dei vantaggi economici e
morali di politiche veramente redistributive.
Il cambiamento culturale richiede una strategia a medio termine per
cui sono poco adatti i partiti politici che fanno parte dell’
establishment.
Quel cambiamento dovrà arrivare prima di tutto da organizzazioni
intellettuali come i think tank, che poi raggiungeranno organizzazioni
politiche e movimenti sociali, che al termine del percorso avranno la
direzione di (nuovi o vecchi) partiti politici.
Se qualcuno è in cerca di un’ispirazione, suggerisco di studiare la
storia recente del grande successo della destra conservatrice americana:
il suo dominio attuale del Partito Repubblicano cominciò decenni fa,
con gli sforzi congiunti di un gruppo in espansione di intellettuali
conservatori e di think tank.
http://www.linkiesta.it/futuro-socialdemocrazia-europa?utm_medium=email&utm_source=Moxiemail%3A9237+Nessuna+cartella&utm_campaign=Moxiemail%3A22293+Linkiesta+-+Recap+++Guerra+e+guerriglia