la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
Visto che solo nelle ultime quattro
giornate abbiamo avuto oltre 72.000 pagine lette sul nostro blog è
bene approfittarne per fare un piccolo passo indietro e raccontare
l’origine della crisi greca che va ben oltre i luoghi comuni come
abbiamo visto in …
Come sempre utilizziamo una fonte “autorevole” ovvero il vice presidente della BCE Constancio…
” Tra gli stessi vertici c’è chi come Vítor Constâncio, vice-presidente della Banca centrale europea, ha recentemente dichiarato nel corso di un convegno ad Atene:
«Penso che, per avere una storia più accurata riguardo le cause della
crisi, dobbiamo guardare non solo alle politiche fiscali: gli squilibri
si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato,
finanziata dal settore bancario dei Paesi debitori e creditori. Al
contrario dei livelli del debito pubblico, il livello del debito privato
è aumentato nei primi sette anni dell’euro del 27%. L’aumento è stato
particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna
(75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati sottoposti a
grandissimo stress durante la recente crisi. La crescita repentina del
debito pubblico, d’altra parte, è iniziata solo dopo la crisi
finanziaria. Nel corso di quattro anni, i livelli del debito pubblico
sono aumentati di cinque volte in Irlanda e di tre in Spagna» Sole24Ore…
La sintesi grafica ve la propongo qui, alcuni di Voi l’hanno già vista a Bologna…
… ma soprattutto qui, questo è un grafico FONDAMENTALE!
Per salvare le banche tedesche e francesi, gli Stati europei sono dovuti intervenire socializzando le perdite.
L’Italia che era rimasta ai margini di
questa orgia è quella che ha sostenuto più di tutte le banche tedesche e
francesi concedendo prestiti ai fondi ESM per salvare non la Grecia ma
la Germania e la Francia, ricevendo in cambio nulla, o meglio un attacco
speculativo in piena regola.
Questa storia si è ripetuta in Irlanda, in Spagna e Portogallo, con l’aggiunta delle banche inglesi e americane.
Infatti se tornate al primo grafico, potete osservare che il governo
inglese dopo quello americano è quello che ha socializzato maggiormente
le perdite con i contribuenti.
Mentre media e televisioni in Italia terrorizzavano il popolo italiano, Icebergfinanza scriveva….
“Questo è quello che abbiamo scritto nell’agosto del 2011 (…) un
punto di vista sulla crisi del debito europeo e la crisi greca, è che
si tratti di un tentativo elaborato dal governo tedesco per conto delle
sue banche per ottenere indietro i loro soldi senza richiamare
l’attenzione su ciò che stanno facendo.
Il governo tedesco dà i soldi al
fondo di salvataggio dell’Unione europea in modo che possa dare i soldi
al governo irlandese in modo che il governo irlandese può dare indietro
denaro alle banche irlandesi così le banche irlandesi possono rimborsare
i loro prestiti alle banche tedesche.Datemi una leva e vi distruggerò il mondo“
Per sei mesi nel 2009 ho scritto che
l’unica soluzione era nazionalizzare il sistema finanziario globale,
tecnicamente fallito! In molti dicevano che non era possibile, politici,
economisti ed analisti, ma mentivano spudoratamente!
I costi della crisi Il processo di aggiustamento svedese viene spesso preso di riferimento come modello di successo per la gestione di crisi finanziarie e bancarie in quanto evitò casi di bank-run e il sistema bancario continuò a funzionare senza alcun fenomeno di credit crunch. L’aspetto fondamentale che viene spesso citato a supporto del “modello svedese” fu il costo sostenuto dai contribuenti. Inizialmente il costo per salvare il sistema bancario fu pari al 3,6% del PIL o 65 milioni di corone, l’equivalente attuale di 18.3 milioni di dollari, determinando un notevole aumento del deficit di bilancio e del debito pubblico. Il deficit di bilancio nel 1993 raggiunse il 12% del PIL; tale deficit fu principalmente dovuto ai generosi stabilizzatori automatici svedesi. Ciononostante oggi si calcola che il 9
costo finale dell’operazione per i contribuenti sia stato sostanzialmente
nullo, se non addirittura leggermente positivo (Jonung, 2009).1 È questo un
risultato che non ha quasi precedenti in altri casi di gestioni di crisi finanziarie.
Questa riduzione dei costi effettivi sostenuti fu dovuta alla liquidazione da parte
delle AMC degli asset che avevano ereditato dalle banche in crisi. Tali asset
furono venduti alcuni anni dopo quando il sistema si era stabilizzato e il valore
di questi asset era tornato su un livello normale. Il Governo e i contribuenti
guadagnarono sulla differenza del valore degli asset. In questo modo fu
ampiamente perseguito l’obiettivo di minimizzare i costi sostenuti dai
contribuenti, alla base dell’intervento del Governo.
Abbiamo più volte scritto che l’unica
soluzione ormai rimasta ora, è quella della ristrutturazione del debito e
la storia insegna che l’altra via naturale è il default di massa.
Quello che è chiaro è che l’economia
greca è in trappola in questa unione monetaria e non ha alcuna
possibilità di restarvi. Loro i Vostri politici, passeranno i prossimi
mesi a raccontarvi di come dobbiamo tirare fuori altri soldi per salvare
la Grecia, come hanno fatto in tutti questi anni nascondendovi la
verità.
Dopo aver votato per la fesseria del
fiscal compact e il pareggio di bilancio in piena depressione ora hanno
sottoscritto l’ultimo tassello della crisi che verrà …
I depositi e i risparmi NON VANNO
TOCCATI, si deve mettere le mani solo nelle tasche di azionisti ed
obbligazionisti i quali hanno sottoscritto capitale di rischio.
Chiaro il concetto?
Televisioni e quotidiani,
sistematicamente diffondo solo un lato della medaglia, quella che a loro
più interessa o meglio interessa i loro padroni, i loro editori.
A noi non resta che la consapevolezza e cercare di diffonderla il più possibile.
Fallite le trattative per la pace, il paese sprofonda nel silenzio della comunità internazionale
Di Lama Fakih. IRIN News. (24/06/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.
La dimostrazione più tragicomica del
fallimento delle trattative per un accordo di pace in Yemen, a Ginevra,
tra i rappresentanti del governo, dei capi tribali e dei ribelli sciiti
Houthi, è stato il lancio di una scarpa contro un esponente di spicco di
questi ultimi, durante una conferenza stampa. Un gesto che la dice
lunga sulla complessità del conflitto in Yemen, ulteriormente complicato
dai bombardamenti della coalizione sunnita, a guida saudita, iniziati
il 26 marzo. Ennesima riprova, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che
per porre fine a una guerra l’unica opzione da scartare è, appunto, un
intervento armato.
A nulla sono valsi gli appelli di Human
Rights Watch, secondo cui “lo Yemen è stato definitivamente messo in
ginocchio dalla guerra”. Né l’allarme sulla crisi alimentare e idrica,
lanciato dal ministero dell’Ambiente yemenita e dalla FAO. I raid della
coalizione sunnita continuano a colpire obiettivi civili, mentre la
comunità internazionale continua a preferire il ruolo di spettatrice.
La guerra in Yemen, inizialmente tra il
governo di Sana’a e gli Houthi, è solo uno dei risvolti di un conflitto
che attualmente interessa, più o meno direttamente, un’area che va
dall’Europa al Medio Oriente. Scontro che affonda le proprie radici
nella dialettica tra oppressori e oppressi, ma che si ammanta di
pretestuose prese di posizione ideologiche o religiose. All’integralismo
religioso armato dietro cui si celano i cartelli del jihad in Medio
Oriente e in Africa, fanno eco, nell’Occidente “evoluto” movimenti e
formazioni che esprimono mentalità xenofobe (in generale, si potrebbero
definire “eterofobe”, ovvero di paura e quindi rifiuto del “diverso da
sé”), neofasciste e “involute”. Questo il risultato di una
globalizzazione fondata sulla logica del profitto, della sopraffazione e
dello sfruttamento, di cui la Grecia è vittima tanto quanto l’Iraq, la
Siria, la Libia o lo Yemen (mutatis mutandis). Alla base si trova
sempre una presa di posizione per il diktat anziché per il dialogo e
l’analisi obiettiva, per cui il debito “odioso” è solo una versione
falsamente edulcorata della violenza, più esplicita, dell’invasione
armata.
In Yemen, milioni di civili sono a corto
di cibo e, secondo le stime delle Nazioni Unite, la guerra ha provocato
finora più di 1400 morti e 3400 civili. Per loro, come per i milioni di
profughi che attraversano il Mediterraneo, la comunità internazionale
non ha risposte, né proposte pertinenti, se non l’indifferenza. I
bombardamenti della coalizione a guida saudita, intanto, continuano a
colpire obiettivi civili (scuole, ospedali, la città vecchia di Sana’a),
mentre l’UNICEF denuncia che milioni di bambini non vengono neanche più
vaccinati, per scarsità di farmaci ma anche perché manca la corrente
necessaria a far funzionare gli ospedali. I principali centri urbani
sono ridotti a città fantasma e i civili che riescono a fuggire (molti
non possono, a causa dell’inagibilità delle strade e della scarsezza di
carburante), approdano in Gibuti, Somalia e Oman. Persino l’ingresso
degli aiuti umanitari nel paese è estremamente difficile, essendo gli
aeroporti fuori uso e il confine con l’Arabia Saudita, ovviamente,
chiuso.
A minaccia globale, a rigor di logica,
dovrebbe corrispondere una reazione altrettanto globale. Poiché la
violenza, finora, non ha prodotto altro che l’avvicendarsi di
oppressori, di diverso colore politico ma sempre signori della guerra,
sarebbe forse il caso di iniziare a pensare a una smilitarizzazione
generalizzata. Dei paesi, ma soprattutto delle coscienze. Chi altri offende, sé non sicura, scriveva Leonardo da Vinci.
Lama Fakih è Consulente Esperto di Amnesty International.
La troika sta facendo tutto quanto in suo potere per manipolare il referendum greco. Martin Armstrong
In un'intervista televisiva, Yanis Varoufakis ha detto molto chiaramente, "Questo
è un momento molto buio per l'Europa. Hanno chiuso le nostre banche per
il solo scopo di ricattarci e ottenere una vittoria del "si", una
soluzione non sostenibile che sarebbe un male per l'Europa ".
Devo ammettere, scrive Martin Armstrong sul suo blog,
che la maggior parte dei politici non sono nemmeno vicino alla verità,
ma Varoufakis sembra essere il solo ministro delle Finanze che capisce
che le richieste della troika non sono plausibili per nessuna nazione.
Il ricatto e la guerra economica mossa contro la
Grecia è volta solo ad assicurarsi che la Gran Bretagna non lasci l'UE,
scrive Armstrong. La SOLO cosa che ha salvato la Gran Bretagna è stato
lo sforzo di Maggie Thatcher di tenere la Gran Bretagna fuori dall'euro
perché sapeva fin troppo bene dove avrebbe portato il paese. Anche la
Polonia è una società anti-euro. Un britannico che non vota per uscire
dalla UE e le maniglie della Troika ignora gli eventi mondiali e il
gioco di potere politico in corso.
I leader dell'Unione europea non si recherà ad Atene fino a dopo il referendum. Hollande vuole una risoluzione rapida perchè teme che la prospettiva di una 'Frexit' stia guadagnando slancio. Obama vuole una risoluzione perchè teme che la Grecia sarà costretta nelle braccia della Russia, un colpo mortale per la NATO.
Eppure in tutto questo, non c'è speranza, perché chi ha il potere è
all'oscuro. La Troika si rifiuta di risolvere la crisi dell'euro,
perché vede solo il proprio tornaconto ed è convinta di poter imporre la
sua volontà su tutto il popolo. La troika sta facendo tutto quanto in
suo potere per manipolare il referendum greco e far
sembrare che il popolo greco vuole Bruxelles. La troika ha
deliberatamente chiuso le banche per punire il popolo greco, e per
mostrare loro ciò che significherebbe uscire dall'euro. Questo sembra
essere il loro unico mezzo per deviare la crisi verso un'orchestrata
vittoria del " SI " che equivarrebbe ad un suicidio economico. La troika
cercherà di manipolare il referendum come ha fatto con le elezioni
scozzesi.. Come disse Stalin, "Coloro che votano non decidono nulla. Quelli che contano i voti decidono tutto. "
inviata in redazione - Cari deputati e senatori che
avete detto sì alla riforma, e soprattutto caro Matteo Renzi,
innanzitutto mi complimento vivamente con coloro che tra di voi hanno
ideato questa diabolica strategia: prima avete utilizzato il piano delle
100mila assunzioni come cavallo di Troia per far approvare il vostro
abominevole DDL "BuonaScuola", e poi, con un cambio dell'ultim'ora del
testo del maxiemendamento, siete riusciti a trasformare tali assunzioni
in un licenziamento di massa, nemmeno lontanamente paragonabile a quello
della legge Gelmini!
Spezzerete e manderete sul lastrico decine di migliaia di famiglie
per fare cassa sulla scuola! Lo avete fatto con l'inganno e nel più
assoluto silenzio dei media, cosicché molti docenti precari ancora non
sanno quale disgrazia si sta per abbattere sulle loro teste...
Ma andiamo con ordine. Nelle prime due versioni del maxiemendamento
si faceva riferimento al fatto che tra i neoassunti, quelli che non
avrebbero trovato posto nella propria provincia, sarebbero stati
obbligati a sceglierne un'altra; nella seconda versione in particolare
si chiedeva ai candidati di indicare nella domanda di assunzione
(soltanto) cinque province in ordine di preferenza. Nella versione
approvata al senato invece, si evince che avranno il diritto ad essere
assunti nella propria provincia soltanto i docenti che occuperanno i
posti vacanti derivanti dai pensionamenti di quest'anno, tutti gli altri
invece, che rientrano nel piano straordinario, saranno inseriti in una
graduatoria nazionale e potranno essere assunti in qualunque provincia
di tutte le regioni italiane! Molti di noi quindi saranno costretti a
trasferirsi a centinaia o anche a migliaia di chilometri di distanza,
senza alcuna apparente possibilità di tornare a casa, visto che dopo la
prossima mobilità straordinaria non ne sono previste altre!
Siamo tutti d'accordo sul fatto che, se il posto di lavoro non esiste
nel luogo in cui viviamo, occorre essere disposti a trasferirsi
altrove; ma perché il governo si è arrogato il diritto di far trasferire
persone che hanno sempre lavorato nella propria città, con contratti
annuali, per giunta? Le graduatorie sono sempre state PROVINCIALI e
sarebbero state riaperte tra due anni; perciò si tratta di un vero e
proprio abuso. Chi ha avuto la possibilità di spostarsi, lo ha già fatto
anni fa: in questo modo ha potuto prendere il ruolo, per poi chiedere
la mobilità che gli permetteva di tornare a casa. Chi invece non ha
avuto tale possibilità, è rimasto precario nella propria provincia, con
tutti i disagi e i sacrifici connessi a tale condizione. E adesso, dopo
tanti anni, quando ormai il sogno dell'assunzione stava per diventare
realtà, la nostra vita viene completamente sconvolta da una legge che
nessun insegnante ha voluto, e che invece viene fatta passare come un
regalo piovuto dal cielo per 100mila persone!
Per questo motivo ho parlato di licenziamento di massa. Molti di noi
non hanno potuto trasferirsi, e non potranno farlo tuttora, per motivi
oggettivi. Siamo persone di età compresa tra i 30 e i 55 anni (circa);
questo significa che la maggior parte di noi si è già creato una
famiglia e una vita che non può lasciare: abbiamo un mutuo da pagare,
dei figli da mantenere, dei genitori anziani da accudire. Molti di noi,
già adesso, con i nostri miseri stipendi di docenti precari, facciamo
fatica a far quadrare i conti e ad arrivare in fondo al mese. Come
faremo a trasferirci, dovendo così pagare oltre ad un mutuo, anche un
affitto? Con quali soldi potremo pagare le bollette, la baby-sitter per i
nostri figli oppure la badante per i nostri genitori? Come faremo, in
tempo di crisi, a vendere le nostre case e a sperare che il coniuge
possa trovare un altro lavoro nella nuova città? Chi ha un secondo
lavoro autonomo (molto pochi in verità) rifiuterà l'assunzione, tutti
gli altri saranno costretti a una separazione forzata, con conseguenti
ricadute molto gravi, sia dal punto di vista affettivo che economico.
Stavo per dimenticare una cosa importantissima: nel testo
dell'emendamento è specificato esplicitamente che chi rifiuterà
l'assunzione verrà estromesso dalle graduatorie e che i posti rimasti
scoperti a causa di tale rifiuto da parte degli aspiranti, NON VERRANNO
RIMPIAZZATI. Ecco come farete a riempire le casse dello stato
sacrificando i precari, cari amici del PD!
A tutto ciò si aggiunge anche un'altra enorme criticità: in questo
piano di assunzioni viene data la precedenza agli idonei delle
graduatorie di merito del concorso 2012 rispetto agli abilitati delle
graduatorie ad esaurimento. Teniamo conto del fatto che queste persone
non hanno vinto alcun concorso (infatti appunto sono idonei, e non
vincitori) e che una buona percentuale di loro non ha mai messo piede in
un'aula scolastica. Quasi tutti i precari presenti nelle graduatorie ad
esaurimento invece sono abilitati SSIS, quindi hanno superato una
selezione con valore concorsuale in ingresso, si sono specializzati
frequentando un corso post-universitario di durata biennale con
laboratori ed esami, hanno superato uno o più esami di abilitazione
finali, in seguito hanno lavorato per anni nelle scuole del Paese.
Quindi per quale assurdo motivo gli idonei dovrebbero avere il diritto
di precedenza, in barba a qualsiasi criterio meritocratico? Infine,
molti di noi non hanno partecipato al concorso, che era bandito a
livello regionale, soprattutto perché non avevano la possibilità di
trasferirsi in un'altra città; e adesso a coloro che vi hanno
partecipato viene concesso il diritto di scegliere per primi la
provincia? Oltre al danno anche la beffa!
Consideriamo adesso le terribili conseguenze della riforma dopo il
trasferimento. I neoimmessi si troveranno nell'albo di un'altra
provincia, ad aspettare le chiamate dei Dirigenti Scolastici; ma non
avendo mai lavorato nelle scuole di quella provincia, per quale ragione
un Dirigente dovrebbe reclutarli nel suo Istituto? E' ovvio che
preferirà assumere docenti che conosce già e che hanno dimostrato
precedentemente di essere competenti e volenterosi. Quindi i neoimmessi
potrebbero essere assegnati d'ufficio nelle scuole "peggiori", cioè
quelle in cui nessuno degli altri insegnanti è voluto andare. Inoltre,
le regole della "BuonaScuola" prevedono che i nuovi assunti nel piano
straordinario siano immessi nel cosiddetto organico funzionale, per
essere adibiti al potenziamento dell'offerta formativa; non avranno
quindi una cattedra come tutti i loro colleghi, ma saranno considerati
"docenti di serie B", al completo servizio dell’utenza e del Dirigente.
Qualcuno a questo punto potrebbe rispondermi che purtroppo il "lavoro
sporco" qualcuno lo deve pur fare, senza rendersi conto però che i
precari storici hanno già fatto una lunga gavetta e che adesso doveva
essere arrivato il momento della stabilità. Ma l'aspetto più grave e
vergognoso di questo sistema è il seguente: non sarà più possibile
chiedere la mobilità in un'altra provincia, non sarà più possibile
chiedere il trasferimento in un altro istituto, non sarà più possibile
passare dall'organico funzionale all'organico di diritto (cioè diventare
un "docente di serie A"). Ognuno dovrà rimanere a tempo indeterminato
nella posizione in cui è stato messo d'impero, senza nessun criterio
meritocratico nè possibilità di miglioramento della propria condizione
lavorativa, come si farebbe nel peggiore dei regimi autoritari. E questo
si evince senza nemmeno doversi soffermare sulla questione dell'"unico
uomo al potere" nella figura del Dirigente Scolastico, e della
"scuola-azienda" (argomenti già ampiamente discussi da tutto il mondo
della scuola negli ultimi mesi).
In queste condizioni, i nuovi assunti dovranno anche sostenere l'anno
di prova. Parrebbe che con i nuovi criteri, in primis il comitato di
valutazione che affiancherà il Dirigente, la selezione dei candidati
diventerà molto più rigida di quanto non sia stata fino ad ora. E questo
potrebbe essere anche un bene, se non fosse che i precari storici sono
stati già ampiamente selezionati in precedenza, se non fosse che i
criteri di valutazione saranno assolutamente soggettivi, e se non fosse
che il mancato superamento dell'anno di prova provocherà il
licenziamento in tronco. E così altre famiglie finiranno in mezzo alla
strada.
Ma non crediate che i precari rimasti fuori dal piano di assunzioni
se la passeranno meglio, anzi, l'esatto contrario. E' opinione comune di
qualche sindacato che il potenziamento sia stato inventato ad hoc per
far approvare la riforma, ma che verrà eliminato via via nei prossimi
anni poichè i neoassunti potranno essere utilizzati negli incarichi e
nelle supplenze destinate ai precari, nonchè nei posti che si
libereranno con i prossimi pensionamenti. Inoltre, grazie alle deleghe
in bianco presenti nel DDL, il governo potrebbe intervenire, tra le
altre cose, sugli stipendi (diminuendoli) e sull'orario di lavoro degli
insegnenti (aumentandolo). Di conseguenza i precari rimasti nelle
graduatorie potranno perdere del tutto le loro opportunità di lavorare
(ed ecco che magicamente appariranno altri licenziamenti!).
Anche i docenti di ruolo verranno privati di molti diritti, tra i
quali la libertà di insegnamento, e la qualità della didattica ne
risentirà moltissimo, ma ci vorrebbe troppo tempo per approfondire
queste questoni. Vorrei solo far sapere che tutti gli insegnanti, di
ruolo e soprattutto precari, sono fermamente contrari alla riforma
perché le loro condizioni di lavoro e di vita potrebbero peggiorare
drasticamente. Chi ne avrà la possibilità, cambierà mestiere, chi non ce
l'avrà, crollerà insieme alla scuola pubblica.
Ho scritto questa lettera per poter dire al PD: ma siete proprio
sicuri di aver fatto la cosa giusta? Siete proprio sicuri che gli
insegnanti, e soprattutto i precari, se ne staranno con le mani in mano a
subire questi soprusi? Io direi di no, anzi è molto semplice prevedere
quello che succederà. Gli insegnanti più "forti" continueranno con le
loro proteste, sia in piazza, sia a scuola da settembre, generando il
caos; invece gli insegnanti più "deboli", e soprattutto coloro che
saranno costretti a tirare la cinghia e a lavorare in istituti
fatiscenti e pericolanti, lontani dalle proprie case e famiglie,
perderanno del tutto la motivazione, si deprimeranno e si metteranno
spesso in malattia.
Così tutti, ma proprio tutti, dai Dirigenti scolastici alle famiglie,
e anche i componenti del governo, finalmente capiranno che questa non è
affatto la Buona Scuola. Una scuola non si rende "Buona" dando più
potere al Dirigente, nè costringendo i dipendenti a lavorare in luoghi
che non hanno scelto, nè utilizzando ricatti e punizioni di tutti i
tipi. Una scuola "Buona" si potrà avere soltanto quando gli insegnanti
potranno svolgere il proprio lavoro serenamente, percependo uno
stipendio adeguato; quando potranno lavorare in scuole ben attrezzate,
in un ambiente gradevole e collaborativo; quando non dovranno
continuamente temere gli attacchi di un Super-Preside e di un governo
autoritario.
A due giorni dal referendum in Grecia Euronews ha incontrato il Professore
Paul de Grauwe che insenga alla London School of Economics e all’Università di Lovanio
Audrey Tilve, Euronews:
“Se, alla fine, la Grecia dovesse lasciare la zona euro, sarebbe una calamità dal punto di vista strettamente finanziario?”
Paul De Grauwe, London School of Economics:
“Sarebbe certamente un disastro per la Grecia. Ma la sua domanda è se
sarebbe una calamità per la zona euro. A breve termine, penso che sia
gestibile. Ora abbiamo una serie di strumenti che eliminano una
potenziale contaminazione. Il problema si pone a lungo termine. Se la
Grecia lascia l’Unione, vorrà dire che l’Unione monetaria non è
permanente, quindi significa che in futuro, quando ci saranno nuovi
shock economici, una recessione per esempio, la domanda sorge
spontanea: dove è la parte più debole, quale paese potrebbe uscire? e
questo destabilizzerà la zona euro.”
Audrey Tilve, euronews:
“Vorrei farle commentare dei numeri che lei conosce bene, quelli dei
paesi più esposti al debito greco. La Germania, con 56 miliardi di euro,
la Francia, 42 miliardi, l’Italia, ecc 37 miliardi. Questi paesi
potranno recuperare questi soldi?”
Paul De Grauwe, London School of Economics:
“Di sicuro non completamente. In realtà, dobbiamo sottolineare il fatto
che ci sono state già delle perdite, quindi le somme che abbiamo visto,
sono importi nominali. Abbiamo fatto delle ristrutturazioni implicite.
E’ stata estesa la scadenza del debito ed è stato notevolmente ridotto
il tasso di interesse. Se si calcola il valore attuale di quello che la
Grecia dovrebbe ripagare in futuro, si arriva a un importo che è
notevolmente inferiore a quegli importi nominali che abbiamo visto lì.
Così le perdite sono state già sostenute ma i governi non osano dire ai
contribuenti.
Audrey Tilve, euronews:
“Vuol dire che c‘è già stata la cancellazione del debito?
Paul De Grauwe:
“Il debito greco è già stato cancellato, secondo i miei calcoli, del il 50% circa”.
Audrey Tilve, euronews:
“A che cosa servirà tutto questo se non si trova una soluzione al
problema di fondo della Grecia oggi: l’incapacità o almeno la grande
difficoltà della Grecia nel raccogliere le tasse, il malfunzionamento
di un’amministrazione in cui vi è corruzione e clientelismo. Perché non
c‘è stato alcun progresso su questi punti negli ultimi 5 anni, dal
momento in cui gli europei hanno dato fondi alla Grecia?”
Paul De Grauwe, London School of Economics:
“Ma ci sono stati progressi in alcuni settori comunque. Si è fortemente
ridotto il numero dei funzionari pubblici, si è riformato il sistema
pensionistico”
Audrey Tilve, euronews:
“Non c‘è un catasto, gli armatori non sono tassati …”
Paul De Grauwe, London School of Economics:
“Ci sono tante altre cose da fare, ma il problema più evidente è che
con l’austerità che è stata imposta in Grecia, l’economia è caduta nel
baratro.
Audrey Tilve, euronews:
“Che cosa bisognerebbe fare perché la Grecia non sia piu’ dipendente dagli aiuti e tornasse ad un’economia sostenibile?
Paul De Grauwe, London School of Economics:
Bisogna fermare i programmi di austerità che non hanno funzionato, che
hanno avuto l’effetto di ridurre la capacità della Grecia di pagare il
suo debito, e di fare aumentare la disoccupazione ecc.
Audrey Tilve, euronews:
“Sarebbe sufficiente`? C‘è un settore industriale in Grecia? E’ un paese che importa molto”
Paul De Grauwe, London School of Economics:
“Ma la Grecia ha avuto tassi di crescita in passato, certo una parte di
questa crescita era insostenibile, ma in precedenza la Grecia ha
conosciuto periodi di crescita, quindi dire che la Grecia non può
crescere, non ha senso.
Docente
di Storia Economica alla Statale di Milano, il professor Sapelli di
recente è più volte intervenuto sulla crisi dell’Unione Europea e della
crisi di leadership che il Continente vive, stretto tra personalità
dalla visione miope e dalla cultura storica evanescente. Ieri
Romano Prodi – sulla stessa lunghezza d’onda – ha evocato ‘Sarajevo’ e
scenari nefasti come quelli precedenti alla Prima Guerra Mondiale
Mlano – Quanto la cancelliera tedesca Angela Merkel e “i suoi vassalli” stanno facendo in relazione alla Grecia “è suicida per l’Occidente”. Al contrario, servirebbe una presa d’atto generale, “una conferenza internazionale con Cina e Russia, per risolvere la questione greca, che è una questione geostrategica“.
Giulio
Sapelli non usa mezze parole o parafrasi per esporre il suo pensiero
sulla crisi greca, che considera un aspetto della più generale crisi di
leadership politica dell’intera classe dirigente europea, messa
all’angolo dalla rigidità tedesca espressa dalla ex comunista Merkel.
Docente di Storia Economica all’Università Statale di Milano, saggista e
consulente aziendale con la Sapelli & Partners, Sapelli considera
quanto sta avvenendo molto grave.
“In altri tempi – continua il suo ragionamento – come quando nel 1932 la Grecia fece default, si tenevano delle conferenze internazionali, dove tutte le potenze si riunivano e tentavano di risolvere i problemi del debito greco, che è una cosa secolare“. Debiti che venivano scadenzati in modo diverso e con maggiore dilazione.
La Grecia ha una lunga storia di crisi finanziarie,
che risalgono alla sua storia degli ultimi 150 anni. “Non appena il
Paese conquistò l’indipendenza dall’Impero Ottomano, i default si
susseguirono” – ricorda Sapelli intervistato dall’Adnkronos. “Si arrivò
al punto di affidare il sistema bancario greco alle banche inglesi, ma erano soluzioni frutto di conferenze internazionali”. Questo per un motivo semplice: “La Grecia è lì, sullo Stretto dei Dardanelli, davanti alla Turchia”, ricorda, e il conflitto greco-turco
“è secolare, ma in epoca contemporanea inizia nel 1974, con l’invasione
turca di Cipro, come ho spiegato nel mio libro ‘Southern Europe:
Politics, Society and Economics Since 1945′, recentemente ripubblicato”.
“Pochi ricordano – rileva Sapelli – che il presidente della Repubblica di Cipro, la parte greca, e quello della parte turca si sono abbracciati, perché stanno preparando un trattato per dare alla Russia una base a Cipro“.
In
realtà, al momento in ballo c’è la concessione di un accesso ai porti
ciprioti come base di rifornimento e non come base vera e propria per le
navi della Flotta Russa del Mediterraneo e del Mar Nero.
Tuttavia, secondo lo storico “in altri tempi la questione sarebbe stata affrontata con un approccio geopolitico, non dal punto di vista dei conti della serva“, come obbliga a fare la Germania della signora Merkel, che esercita un’egemonia non statuita da alcuno dei trattati su cui si regge l’impalcatura ‘costituzionale’ dell’UE.
Se la Grecia – ricorda Sapelli – “facesse veramente default, non è vero che non succederebbe niente. Dimenticano tutti che i debiti oggi sono tutti collateralizzati: si appoggiano sui derivati.
E quando ero presidente dei comitati audit cercavo di impedire queste
nefandezze”. Pertanto “l’onda d’urto sarebbe immensa, arriverebbe fino
in Cina. Non è il Pil che conta, ma la collateralizzazione del debito e
il debito greco è molto collateralizzato. Far fare default alla Grecia è pericolosissimo“.
Più o meno quanto affermato ieri a ‘la Repubblica’ da Romano Prodi, che – seppur con toni più morbidi – ha riconosciuto che la
“Grecia potrebbe essere la nostra Sarajevo”, evocando scenari nefasti
che riportano al panorama politico internazionale precedente alla Prima
Guerra Mondiale.
Gli Usa – continua il ragionamento di Sapelli – stanno cercando di mediare, ma vivono in “una
contraddizione: serve un accordo con i russi. Premono sulla Merkel, sui
baltici e sui polacchi perché siano più morbidi, ma hanno in corso una
guerra fredda con Vladimir Putin, per la quale il leader russo dà loro tutti i motivi del mondo, intendiamoci”. In Medio Oriente “combattono l’Isis, ma poi cercano l’accordo con l’Iran, con il risultato che i sauditi appoggiano l’Isis ancora di più”.
Insomma, la crisi greca, per Sapelli, “è una prova del grande disordine internazionale ed europeo. Io la vedo molto male”.
Provando
a tradurre in un linguaggio meno politicamente corretto, potremmo dire
certamente che Obama, Merkel, i leader ucraini e quelli europei
(soprattutto del Nord Europa) sono degli imbecilli matricolati, degli impenitenti ignoranti (di certo in storia) e del tutto inadeguati a governare fenomeni così complesso come quelli che l’attuale contingenza storica pone.
Tra gli inadeguati Sapelli mette anche il premier greco Alexis Tsipras, che ha fatto “un errore tattico” a indire un referendum, perché se vince il ‘no’, “passa per un messaggio anti euro e le Borse si innervosiscono“. Se invece vince il sì, “i tedeschi lo costringerebbero a dimettersi e metterebbero un loro fantoccio come Antonis Samaras. Va ricordato che costrinsero Georgios Papandreou alle dimissioni: fanno fare a Tsipras la fine che hanno fatto fare a Silvio Berlusconi, parliamoci chiaro“.
Insomma, “siamo di fronte a persone senza idee, ma purtroppo senza scrupoli“, dice Sapelli, e in Europa assistiamo a “un crollo terribile della leadership. Quindi, purtroppo vedo nero“, finisce per dire con chiarezza lo storico dell’economia.
È stato un giovedì nero per la borsa di Shanghai, il più importante
mercato finanziario cinese, e la finanza globale si risveglia con un
altro fronte d’instabilità oltre al caos greco. Alla chiusura delle
contrattazioni, lo Shanghai composite index ha perso il 3,5 per cento
dopo aver toccato perdite superiori al 6 per cento durante la seduta,
scendendo per la prima volta da oltre due mesi sotto la soglia psicologica dei quattromila punti.
Considerando anche la piazza di Shenzhen, la seconda borsa cinese,
più di 1.400 aziende il 1 luglio hanno registrato il segno meno. Dal 12
giugno a oggi, l’indice su cui si scambiano i maggiori titoli del
gigante asiatico ha perso il 24 per cento del suo valore, una cifra pari
a 2.400 miliardi di dollari, l’equivalente all’intera borsa di Parigi.
Il tonfo avviene dopo una corsa senza precedenti da quando la Cina ha aperto le sue borse
alle contrattazioni, una crescita ininterrotta durata 935 giorni che ha
condotto l’indice di Shanghai a rialzi fino al 150 per cento, pari a
6.500 miliardi di dollari, nel solo anno precedente al 12 giugno.
Sospinti dall’euforia, nel maggio scorso sono stati aperti 12 milioni di nuovi conto-titoli, una cifra più alta dell’intera popolazione greca. Oggi sono 90 milioni i cinesi che giocano in borsa, tre milioni in più degli iscritti al Partito comunista cinese, che nel 2014 erano 87,8 milioni. L’Asian Financial Review ha notato
che, al termine di questo rialzo, un titolo mediano sulle piazze cinesi
era valutato 85 volte i guadagni attesi dall’azienda, contro una media
del 21,2 registrata a Wall street lo scorso 30 giugno.
Con prospettive di crescita economica non esaltanti per l’economia cinese nel suo complesso, non erano in pochi a suggerire che il mercato finanziario aveva di fatto divorziato dalla realtà.
Nei giorni scorsi, la Banca mondiale aveva avvisato il governo cinese
sulla necessità di riformare il settore finanziario, definendolo
distorto. “Forti correzioni nel valore dei titoli sono uno dei fattori
di rischio per le prospettive di crescita perché queste correzioni, o
comunque la volatilità finanziaria, possono avere effetti negativi sui
consumi”, ha spiegato uno degli economisti dell’istituzione di Washington, Karlis Smith.
Nelle scorse settimane, il governo di Pechino è più volte intervenuto
con l’obiettivo di tamponare le perdite, prima tagliando i tassi di
interesse attraverso la banca centrale e, successivamente, cercando di
rassicurare gli investitori attraverso un rilassamento dei regolamenti
sull’utilizzo di denaro prestato per acquistare titoli. I mercati, per
ora, non hanno reagito come sperato.
Della Valle: anche Matteo Renzi ha cominciato a girare a vuoto. Non è quello che ci serve
di MF-Dow Jones
«Premesso che Matteo Renzi è un
amico, la verità è che il premier deve assolutamente cambiare registro. È
infatti finito mani e piedi nella pozzanghera della vecchia politica e
non è quello che vogliamo». Lo ha affermato il patron di Tod's, Diego
Della Valle, intervenendo in occasione della 15ma edizione del Milano
Fashion Global Summit 2015, convegno organizzato dal gruppo Class
Editori, dal titolo «Mangia come ti vesti».
Della
Valle ha aggiunto: «Non voglio aprire polemiche ma, anzi, mi dispiace
purtroppo ammetterlo: credo che questa sia un'esperienza governativa che
è arrivata alla fine».
Secondo Della Valle «rivediamo i riti
della vecchia politica che non ci aspettavamo: si sono tutti ingabbiati
tra di loro, vivono con sotterfugi e piccoli ricatti. Io avevo avvertito
Matteo Renzi, a suo tempo, di stare attento che, se non si arriva molto
preparati alla premiership, si rischia di finire come stiamo adesso
vendendo in modo molto chiaro».
Il patron di Tod's ha chiamato in
causa il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dicendo: «Il
Presidente della Repubblica dovrebbe prendere atto che c'è un Governo,
che oggi è in assoluto affanno, che è stato messo lì dal precedente Capo
di Stato e non riesce a fare le cose che aveva promesso per mille
motivi».
Della Valle ha poi aggiunto: «È ripartita la liturgia
inconcludente della vecchia politica. Ecco perchè oggi ci vuole un
Governo di persone che sappiano fare quello che serve e che ci portino
al 2018 quando finalmente andremo a votare potendo scegliere» le persone
che vogliamo.
Altrimenti, ha spiegato l'imprenditore marchigiano
«ci prendiamo in giro tra di noi e facciamo il gioco di tutti i
politici, che vorrebbero far passare in camera caritatis il fatto che
gli italiani qualche giorno fa hanno votato molto poco, qualcuno è stato
votato pochissimo, e che quindi c'è la necessità, da parte del popolo,
di vedere qualcuno che possa risolvere i problemi».
A chi gli
chiedeva se questo qualcuno deve arrivare dal mondo dell'imprenditoria,
Della Valle ha risposto: «Deve arrivare dal Presidente della Repubblica
che deve prendere atto della situazione». Della Valle inoltre ha
evidenziato che «non si può andare a votare ora perchè ci sono troppe
emergenze, ma non si può andare avanti con un Governo che non può, per i
più vari motivi, fare le cose. C'è bisogno di gente competente con dei
curricula validi, per fare le cose che servono. Non mettiamo nei punti
chiave gli amici e gli amici degli amici senno è tutto come prima».
Ferruccio De Bortoli contro Matteo Renzi, terzo affondo: clone di Berlusconi, meschino, opportunista e anche grasso
Redazione, L'Huffington Post
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Aggiornato:
Ferruccio De Bortoli contro Matteo Renzi, terza puntata. L'ex
direttore del Corriere della Sera lancia un altro affondo contro il
presidente del Consiglio dalle pagine della rivista Linus, che torna in
edicola con una nuova veste e un nuovo direttore, Giovanni Robertini.
De Bortoli suona
un'ennesima sveglia al premier. "Parla di sé in terza persona. È
fantastico. Lui pensa che per governare basti raccontare una bella
storia al Paese". Il renzismo, secondo il giornalista, è "un prodotto di
sintesi del berlusconismo di sinistra. È la dimostrazione di come il
Pd, che ha sempre combattuto Berlusconi, sia stato conquistato da un suo
clone. Ultimamente però inizia a battere qualche colpo a vuoto, tanto
da sembrare in uno stato quasi confusionale". Ma il "paradosso finale",
prosegue De Bortoli, è che "siamo costretti a sperare che Renzi resista e
impari a governare".
Renzi diventa anche "meschino" quando si
parla di Roma e di Mafia capitale, in quanto reo di non aver difeso
Ignazio Marino, dopo aver scelto "un chirurgo genovese che non sa nulla
di politica, una sorta di Forrest Gump". Marino tuttavia "è stato il
candidato di Renzi alle primarie. Va perciò difeso. Non è buona norma -
scrive De Bortoli - scaricare i propri candidati nel momento in cui non
ti servono più. Lo trovo meschino". Questo perché "se ti limiti a
scaricare chi non ti conviene più non sei uno statista, sei
un'opportunista".
Meschino, opportunista e anche grasso.
"L'Italicum, un mostro - scrive De Bortoli - è stato disegnato come un
abito su misura per un premier con la tendenza alla pinguedine".
Infine,
parole dure contro il Pd - destinato "alla scissione, a meno che prima
non imploda il renzismo" - e dolci contro il Movimento 5 Stelle -
"pensavo fossero destinati a sparire e invece stanno conoscendo una
seconda giovinezza. Con in più che si intravede una classe dirigente".
Dopo il grande rifiuto dell'anno scorso, il premier sarà all'evento
di Cl con ben 5 ministri. Tra gli ospiti anche il suo fedelissimo Carrai
e una schiera di imprenditori e manager. Niente palco per i
parlamentari ciellini Lupi, Mauro e Formigoni...
Cinque ministri, il vicepresidente e un giudice emerito della Corte
costituzionale, una lunga lista di manager e imprenditori di successo,
economisti, giuristi, docenti universitari, giornalisti, oltre agli
uomini di punta della Chiesa di Papa Francesco. Ma soprattutto il premier Matteo Renzi,
lui che l’anno scorso – forte del 40,8% alle elezioni europee – aveva
deciso di snobbare quel palco preferendogli l’adunata dei “suoi” scout,
ma che quest’anno ha deciso di esserci proprio come i suoi predecessori Enrico Letta e Mario Monti.
Che sia l’edizione del riavvicinamento del Meeting per l’Amicizia tra i
popoli alla politica (sempre che se ne sia allontanato) è presto per
dirlo, di sicuro la presenza di certi esponenti del governo a partire
dal presidente del Consiglio è destinata ad accendere i riflettori sulla
36° edizione della manifestazione di Comunione e liberazione a Rimini. IL GOVERNO IN POMPA MAGNA
I vertici del Meeting si erano mossi per tempo. Avevano messo in
campo tutte le diplomazie e i contatti a loro disposizione pur di
strappare un sì al premier. Si è scomodata nei giorni precedenti alla
conferenza stampa di ieri sera a Roma pure la storica presidente della
Fondazione organizzatrice, Emilia Guarnieri, scesa
nella capitale in anticipo proprio per andare a bussare alla porta di
Palazzo Chigi. E alla fine Renzi ha detto di sì. Interverrà martedì 25
agosto alle 13 in Fiera a Rimini in un incontro dal titolo “L’Italia e le sfide del mondo”. Insomma, potrà dire quel che gli pare, dialogando con la stessa Guarnieri e con Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle opere e oggi al vertice della Fondazione per la Sussidiarietà.
Decisive per arrivare a questo risultato le relazioni avviate coi
vertici del governo da alcuni uomini vicini a Cl, a partire dal
sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi (Ncd), fiorentino come il premier e per il quale ha lavorato come collaboratore alla Camera Stefano Pichi Sermolli, l’attuale capo ufficio stampa del Meeting; un altro fiorentino di area ciellina è Raffaele Tiscar, vicesegretario generale alla presidenza del consiglio, così come è vicina al Movimento pure Chiara Lanni, moglie del sindaco di Firenze Dario Nardella. Ma soprattutto (e non è certo un caso) al Meeting sarà presente un altro amico di Cl come Marco Carrai,
il renzianissimo manager e imprenditore; interverrà in qualità di
presidente di Cambridge Management Consulting Labs Srl a un dibattito
sulla tecnologia.
Non sarà comunque solo il Meeting del premier. Oltre a lui sfileranno sul palco di Rimini anche i ministri Giuliano Poletti, Pier Carlo Padoan, Gianluca Galletti, Maurizio Martina e Graziano Delrio. Non Stefania Giannini, titolare del dicastero all’Istruzione, tema molto caro a Cl. GLI ALTRI POLITICI CHE CI SONO. E QUELLI CHE MANCANO
Ci sarà il governatore della Lombardia, Roberto Maroni della Lega Nord, e il sindaco di Torino Piero Fassino (Pd) in qualità di presidente dell’Anci. Non mancherà il consueto appuntamento dell’Intergruppo della Sussidiarietà con Raffaello Vignali (Ap-Ncd), Marco Donati (Pd), Guglielmo Vaccaro (Misto) e Antonio Palmieri (Fi). Quindi il vicepresidente del Parlamento europeo e tra i leader emergenti di Forza Italia, Antonio Tajani, e due ex presidenti della Camera dei deputati come Luciano Violante e Fausto Bertinotti, quest’ultimo chiamato a ragionare sul tema di questa edizione (“Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?” da una poesia di Mario Luzi). Figura tra i presenti anche un verdiniano doc come Ignazio Abrignani, vicepresidente della Commissione Attività produttive alla Camera.
Chi invece non parlerà al Meeting saranno i parlamentari ciellini Maurizio Lupi, Roberto Formigoni e Mario Mauro, tre esponenti un tempo avvezzi a intervenire dal palco del Meeting da qualche anno tenuti alla larga. MANAGER, IMPRENDITORI, ECONOMISTI E GIURISTI
La platea dei grandi manager e imprenditori è come sempre
particolarmente folta: si va dal presidente del gruppo Sea, la società
che gestisce gli aeroporti milanesi di Linate e Malpensa, Pietro Modiano, al vicepresidente di Abi, Miro Fiordi, fino all’ad di Finmeccanica Mauro Moretti e all’ad e dg di Enel Francesco Starace, da tempo ospiti fissi del Meeting. E ancora l’ad di Ferrero spa Frederic Thil, il presidente e ceo di Etihad Airways e vicepresidente di Alitalia Sai, James Hogan, Brunello Cucinelli, Nerio Alessandri di Technogym, Carlo Tamburi, l’ad di Ferrovie dello Stato Michele Mario Elia, il presidente di Autostrade per l’Italia Fabio Cerchiai, l’ad di Wind Maximo Ibarra e quello di Sky Italia Andrea Zappia, il patron di Micoperi (l’azienda che ha risollevato la Costa Concordia) Silvio Bartolotti e il presidente di Sorgenia Chicco Testa. Sul fronte sindacale, ci sarà la leader della Cisl, Annamaria Furlan,
su quello degli alti funzionari sarà la volta invece dell’ex consulente
per la spending review del governo e ora tornato all’Fmi, Carlo Cottarelli. Senza dimenticare la cooperazione: da quella bianca, con il presidente di Federsolidarietà Confcooperative, Giuseppe Guerini, a quella rossa, con il presidente nazionale di Legacoop, Mauro Lusetti. Chiudono il cerchio due giuristi di primo piano nel panorama nazionale, come il vicepresidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, e il presidente emerito Sabino Cassese.
Il professore musulmano che insegna
anche all’università Cattolica di Milano: «La paura degli occidentali è
giustificata, ma se ci si ferma qui si fa un favore all’islam politico che in
fondo è un’ideologia simile al fascismo e al nazismo». L’intervista
Weal Farouq
Egiziano,
musulmano, classe 1974, Wael Farouq è, fra i tanti altri impegni, professore di
lingua araba all’American University e docente di Scienze Islamiche alla
Facoltà Copto-Cattolica di Sakakini del Cairo. A Milano insegna “Scienze
linguistiche e lingue straniere” all’Università Cattolica.A lui, nel giorno dell’arresto della cellula
dell’Isis a Inzago in provincia di Milano, abbiamo chiesto come interpretare
l’escalation di stragi di matrice islamista che ha portato al terribile
triplice attentato del 26 giugno.Professore, i
cittadini occidentali si sentono sempre di più sotto assedio da parte di un
nemico quasi invisibile. Sbagliano?
No, non posso dire che sbaglino. È un atteggiamento giustificato. Non posso
dire che il popolo occidentale è impreparato e non capisce le dinamiche del
terrorismo. Il terrorismo oggi non è una struttura chiara, è un’ideologia.
L’Isis rappresenta un grande pericolo perché non è né un'organizzazione né una
persona, ma un'ideologia che agisce come un virus ed esiste già l'ambiente
adatto perché possa attivarsi e fare grande danno. Basta poco per produrre un
disastro. Basta uno che soffra di questa ideologia, che non sappia come
riempire di senso la sua vita, basta che questa persona vada su internet e si
procuri una bomba. È semplice. In questo senso tutti sono pericolosi, e per
questo è giustificato il senso del pericolo. Ma fermarsi a questa constatazione
è ancora più pericoloso.
In che senso?
Se ci fermiamo alla paura, l’effetto sarà quello di generare ancora più
terrorismo. Occorre capire da dove viene questo terrorismo. Occorre distinguere
fra musulmani e islamisti. L’Isis rappresenta un
grande pericolo perché non è né un'organizzazione né una persona, ma
un'ideologia che agisce come un virus ed esiste già l'ambiente adatto perché
possa attivarsi e fare grande danno
E come si fa?I musulmani sono le persone di fede islamica. Gli islamisti sono quelli che
trasformano la religione in ideologia e sono pronti a morire e uccidere per
renderla dominante. Una persona che prega, digiuna e rispetta la propria
tradizione religiosa è un musulmano, ma una persona che considera la propria
tradizione religiosa come un progetto politico per purificare le altre
tradizioni (che ritiene corrotte) è un islamista. L’islam politico non è una
scelta che si fa per se stessi, è una scelta che si cerca in tutti i modi di
imporre agli altri. Solo i musulmani possono fermare gli islamisti.Ma in concreto gli
occidentali che strumenti hanno per distinguere?
In questi ultimi anni è diventato chiaro anche agli occhi degli europei chi
sono le persone, le strutture e le organizzazioni che diffondono l’ideologia
islamista, chi sono i religiosi e chi sono gli ideologici. Teniamo presente che
quella islamista è un’ideologia nata e cresciuta nel secolo scorso. Il mondo
occidentale attraverso il potere economico e coloniale fino ad ora ha sempre
utilizzato questa ideologia per fini politici ed economici. I Fratelli
Musulmani hanno avuto un grande aiuto dalla Compagnia del canale di Suez. I
Fratelli Musulmani sono stati l’arma degli inglesi contro il partito laico,
liberale e secolarizzato che voleva l’indipendenza dell’Egitto. Questa è
storia, questi sono fatti. E la stessa cosa è avvenuta in India contro Gandhi e
così è nato il Pakistan. Clinton ha confessato che Al Qaeda è stata creata
dagli Stati Uniti. Isis stessa: ci sono tanti giornalisti e generali che dicono
che è una creazione americana. Ben inteso: non sto dicendo che quello che sta
facendo oggi Isis è responsabilità degli occidentali. Sarebbe un grave errore
pensarlo. La violenza che vediamo oggi è presente nel pensiero dell’islam
politico. Ed è stata utilizzata dal potere occidentale. Ma attenzione occorre
intendersi quando parliamo di Occidente. Il mondo occidentale
attraverso il potere economico e coloniale fino ad ora ha sempre utilizzato
questa ideologia per fini politici ed economici
Lei cosa intende?In Europa vivono milioni di musulmani che lavorano e sono integrati: pagano le
tasse e sono cittadini europei. Ma al tempo stesso in Occidente vivono anche
criminali islamisti. E i cosiddetti esperti commettono un crimine quando dicono
che c’è un islam moderato e un islam radicale. Questa distinzione non esiste.
Ci sono i musulmani e c’è l’islam politico, che non può essere per natura
moderato. Come non si può definire un nazismo o un fascismo moderato, lo stesso
vale per l’islam politico. Noi dobbiamo combattere l’islam politico così come
abbiamo combattuto i fascisti e i nazisti. Ma non si può combattere il nazismo
sostenendo il fascismo. Quello che non è più accettabile è il buonismo di chi
dice dobbiamo rispettare l’altro pensando che l’altro sia l’islam radicale.
L’altro sono i musulmani, non gli islamisti.Posizioni come la
sua che tipo di seguito hanno nelle opinioni pubbliche dei paesi di fede
musulmana?
L’islam politico è caduto in Tunisia con le elezioni e in Egitto con la
rivoluzione. La caduta dell’islam politico è la più grande eredità che ci hanno
lasciato le Primavere arabe e adesso quando un musulmano vuole insultare un
altro musulmano gli dice “sei un fratello!”. Come tantissime sono le
barzellette musulmane sull’islam politico. Noi dobbiamo combattere
l’islam politico così come abbiamo combattuto i fascisti e i nazisti. Ma non si
può combattere il nazismo sostenendo il fascismo. Quello che non è più
accettabile è il buonismo di chi dice dobbiamo rispettare l’altro pensando che
l’altro sia l’islam radicale. L’altro sono i musulmani, non gli islamisti. Manuel Valls in Francia parla ormai apertamente di guerra di civiltà, lei cosa ne pensa? I responsabili di questa guerra contro la civiltà non sono solo musulmani. Sono
anche i cristiani che vendono le armi all’Isis, e i cristiani che comprano il
petrolio dell’Isis. E ancora i cristiani che non fanno nulla. Ehud Barack
qualche giorno fa in un’intervista al Jerusalem Post ha detto che se vogliamo
veramente possiamo finire l’Isis in due giorni. Del resto stiamo parlando di
30/40 mila soldati senza aerei e senza carri, ma solo col kalashnikov. Chi può
credere che l’occidente non sia in grado di fermare l’Isis? Non è una guerra di
civiltà perché non solo i criminali sono sia occidentali sia islamisti, ma
anche le vittime sono sia occidentali sia musulmane. Le vittime musulmane del
terrorismo sono 10 volte di più di quelle occidentali. Questa è una guerra fra
il bene e il male. Se fosse un
occidentale oggi andrebbe in vacanza in Tunisia?
No, l’obiettivo del terrorismo in Tunisia è uccidere gli occidentali. Questo
ormai è evidente. È parte dell’ideologia fascismo-islamista. Lo ripeto: l’islam
politico non è la medicina è il sintomo della malattia.
E se fosse un
leader di un paese europeo, qual è il primo provvedimento che prenderebbe?
Sono sicuro che tutti i servizi segreti di tutti i Paesi occidentali sanno
dov’è il pericolo. Non ho capito perché non agiscano.
Come fa ad essere
così sicuro?
Senta, negli anni 80 quando è partito il movimento dell’islam politico, il
paradiso degli islamisti era l’Europa. Londra, l’Italia. Sono venuti qui perché
in Egitto, per esempio c’era la tortura. E giustamente sono stati accolti. Ma
l’intelligence li conosce. La domanda da farsi è perché hanno così tanta presa
qui in occidente. I musulmani europei sono
la chiave per battere gli islamisti. Questi musulmani sono un vantaggio, non
una minaccia, se capiamo che essi non rappresentano l'Islam in Europa, ma sono
europei musulmani Lei come lo spiega?
Il nodo non è la povertà o la mancanza di istruzione è l’assenza del
significato della vita di cui soffrono tanti ragazzi di fede musulmana e di
formazione culturale europea. I media italiani che legano la condizione di
miseria o di ignoranza al terrorismo, sono la cassa di risonanza dell’ideologia
dell’Isis. Perché veicolano tutti i messaggi dell’Isis. Io per esempio se fossi
un leader europeo non permetterei la messa in onda delle immagini dell’Isis.
L’obiettivo della propaganda islamista sono ragazzi appena maggiorenni o poco
più che ventenni. Il terrorista della spiaggia tunisina era un ragazzo che
andava in discoteca, che ballava la break dance. Eppure l’Europa avrebbe una
grande opportunità. Quale?
Qui da noi vivono 20 milioni di musulmani europei a tutti gli effetti occidentali.
Ma vivono in ghetti, sono invisibili. Questa è una falsa integrazione.
Un’Europa fedele ai suoi principi dovrebbe rendere visibili questi suoi
cittadini, nella società civile, nell’università, nei partiti politici, nel
governo. Integrazione significa visibilità. I musulmani europei sono la chiave
per battere gli islamisti. Questi musulmani sono un vantaggio, non una
minaccia, se capiamo che essi non rappresentano l'Islam in Europa, ma sono
europei musulmani. Pensiamo a un ragazzo nato qui, che parla italiano, ma non
la lingua dei genitori, che guarda film italiani, che mangia cibo italiano, che
legge libri italiani: come possiamo dire che non sia un occidentale? Di fede
musulmana, ma è un occidentale. Distinguere fra occidente e islam è un errore,
forse il più grave pregiudizio che si sta compiendo in Europa. L’islam europeo
è un dono che stiamo ricevendo e potrebbe essere un grande vantaggio per
l’umanità. È a loro che dobbiamo chiedere di dare l’esempio. La prima linea di
resistenza contro l'Isis sono gli europei musulmani. L'Islam europeo è l'unico
vaccino che può immunizzare l'Europa contro il virus dell'Isis. Oggi invece
dettano legge gli islamisti radicali. Questo perché l’Europa tratta questi 20
milioni come individui invisibili (ma non come persone con una loro fede, la
loro cultura) o solo come musulmani (ma non cittadini occidentali) e quindi
come nemici. È una morsa da cui dobbiamo uscire. Questo il problema dietro cui
si cela la soluzione.