la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
Beppe Boni
ROMA
OGGI segue lo scacchiere del Medio Oriente come vicepresidente
dell’Istituto Affari internazionali, nel passato recente lo ha fatto
come come capo di Stato maggiore della Difesa e poi consulente del
ministro degli Esteri.
Generale Vincenzo Camporini, qual è lo scenario libico?
«Tutti contro tutti. L’Isis ha scavalcato la fazione musulmana egemone
nell’area di Tripoli, ma i fronti sono molto labili e le situazioni
cambiano rapidamente. Per l’Italia l’allarme è forte».
Il nostro Paese che deve fare?
«Dobbiamo ragionare tenendo presente gli interessi nazionali ed essere
pragmatici. La posizione italiana verso le varie fazioni libiche deve
favorire il nostro Paese».
Il problema sono gli alleati.
«Esatto. Non siamo sempre in linea con la posizione di Francia, Gran
Bretagna e Usa. Dobbiamo essere molto più attivi nei contatti con il
governo di Tripoli, che non gode dei favori internazionali, anziché con
Tobruk. I nostri interessi sono concentrati nella zona occidentale».
Come vede una opzione di forze internazionali di terra?
«Non credo sia possibile. Se l’obiettivo è quello di occupare il
territorio e pacificarlo servono centinaia di migliaia di uomini. La
comunità internazionale non è disposta a tanto. Se invece si decide di
creare una di testa di ponte allora è possibile. Ma non vedo un
obiettivo politico perseguibile con militari sul terreno».
Tobruk chiede all’Occidente di partecipare a bombardamenti contro l’Isis.
«Le forze aeree sono efficaci se ben guidate. Un coordinamento del
governo di Tobruk è troppo labile per garantire la precisione
necessaria. E si tratterebbe di schierarsi da una parte in modo
acritico. I nostri interessi, ripeto, spesso non coincidono con quelli
di altre potenze».
L’Italia rischia l’importazione del terrorismo dalla Libia?
«Certo, ma per lo scenario confuso del Medio Oriente. Non è la Libia
l’elemento chiave. Il mondo arabo è dilaniato dalla lotta fra sciiti,
sunniti e altre fazioni».
Abbiamo reparti pronti a una operazione internazionale?
«Certo. L’Italia dispone di reparti di eccellenza, ma il quadro deve
essere chiaro. Quando nel 1991 siamo intervenuti per liberare il Kuwait
furono messi sul campo 600 mila uomini. Oggi non si arriverebbe a
50mila»
Perché?
«L’Occidente si è disarmato. Gran Bretagna, Francia, Usa, Italia hanno
ridotto drasticamente gli effettivi. E nelle guerre contano gli uomini,
non solo la tecnologia».
C’è pericolo di un effetto domino dalla Libia ai Paesi vicini?
«Sì, e soprattutto la Tunisia ha bisogno di essere protetta»
Migranti, come agire?
«La nostra cultura prevede l’accoglienza, ma serve un sistema di
filtraggio più efficace per capire chi fugge dalle guerre e chi arriva
con altre motivazioni. Bisognerebbe però rivedere la normativa
internazionale. E per fermare le partenze serve un governo forte in
Libia. Come quello che abbiamo distrutto».
La Troika schiavizza la Grecia. Il grido di Manolis Glezos
La pensione minima versata mensilmente ai greci è stata ridotta di
quasi 100 euro al mese, dagli attuali 486 euro a 392,70, e il
provvedimento è retroattivo in quanto sarà considerato in vigore dal
primo gennaio di quest'anno. A riferirlo è l'edizione online del
quotidiano To Vima che pubblica il testo di una circolare diffusa dal
viceministro della Previdenza sociale Pavlos Haikalis. La circolare
attiva una disposizione di legge che era stata approvata dal Parlamento
nel 2010 ma non era mai stata applicata. E' questa una delle molte
modifiche al sistema pensionistico che la Grecia dovrà attuare per
ottempererare al cosiddetto “terzo piano di salvataggio” approvato dal
Parlamento greco venerdi scorso.
Ma questi piani di salvataggio non sono altro
che delle truffe nei confronti della popolazione greca. Infatti poco o
nulla dei finanziamenti restano a disposizione della Grecia per
eventuali misure di attenuazione dell’austerity imposta dall’Unione
Europea, Bce, Fmi, Esm. Dei 240 miliardi stanziati nei due primi
salvataggi, solo 11,7 – ha calcolato il think tank Macropolis – sono
rimasti davvero a disposizione del governo per alleviare la crisi del
paese. Il 5% del totale. Il resto se né andato per onorare debiti e
interessi (122 miliardi ) , per gli istituti di credito, per la
ristrutturazione dell’esposizione con i privati di tre anni fa ( 34 ) e
per finanziare il deficit di bilancio (15 ). “Lo stesso succederà agli
86 in arrivo nei prossimi tre anni: 53 serviranno per ripagare la
Troika, 25 per le ban che, 4, 5 per consolidare i depositi bancari e 7
per gli arretrati con i privati. Per completare l’opera, Atene dovrà
contribuire in proprio alle sue necessità finanziarie garantendo un
surplus primario di bilancio di 6 miliardi grazie a nuovi tagli al
welfare e vendendo beni pubblici per 2,5 miliardi” scrive oggi Ettore
Livini nella sua corrispondenza dalla Grecia per La Repubblica.
Ed è infatti un grido di riscossa e dignità quello
lanciato dall'ex europarlamentare greco di Syriza Manolis Glezos, 92
anni, mitica figura della Resistenza greca contro l'invasione
nazifascista. Glezos ha esortato la direzione di Syriza a "rinsavire" ed
a convocare un ampio vertice sostenendo che il terzo piano di
salvataggio del Paese concordato dal governo di Atene con i creditori
internazionali "lega i greci mani e piedi e li rende schiavi per interi
decenni".
A conferma della denuncia di Glezos è arrivato
anche un reportage del quotidiano progressista britannico The
Indipendent, le cui conclusioni sulle sorti della Grecia dopo la
capitolazione del governo Tsipras sono, purtroppo, lucide e lapidarie:
“L’intensità del programma di ristrutturazione concordato per la Grecia
dovrebbe dissipare anche l’ombra dell’idea che questo sia un tentativo
ben intenzionato, ma maldestro, di affrontare una crisi del debito”
scrive Nick Dearden “Si tratta di un tentativo cinico di creare nel
Mediterraneo un paradiso per le grandi corporation, a cui si deve
resistere a tutti i costi”.
Il mondo industrializzato rischia di essere proiettato in una fase di stagnazione secolare. L’analisi del fenomeno
Nella Research Conference del FMI del novembre 2013, Larry Summers, ex segretario del Tesoro dell’Amministrazione Obama, ha rilanciato quanto sostenuto nell’articolo U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis and the Zero Lower Bound,
ovvero l’eventualità che il mondo industrializzato sia ormai entrato in
una stagnazione secolare e che la Grande Recessione altro non sia che
la manifestazione estrema della riduzione del tasso percentuale di
crescita reale del PIL, in atto sin dagli anni Settanta del secolo
scorso.
Da allora, un interessante dibattito si è sviluppato su blog, riviste economiche e quotidiani tra i sostenitori, come Paul Krugman (premio Nobel per l’Economia), e gli avversari, come Ben Bernanke
(ex governatore della FED USA), della tesi di Summers. È bene chiarire
che non si tratta di un’astratta disputa economica, quanto piuttosto di
riconoscere l’esistenza di un’eventualità da cui far discendere concrete
politiche economiche per mitigarne, se non impedirne, gli effetti. Dopo
sette anni dall’esplosione della Grande Recessione, conseguenza della
crisi dei mutui subprime, la crescita economica tarda a manifestarsi,
nonostante anni di politiche monetarie espansive che hanno ridotto
praticamente a zero i tassi d’interesse e mandato in territorio negativo
i rendimenti dei titoli pubblici di molti paesi e i tassi sui depositi
bancari.
Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008
Per di più, laddove una qualche crescita economica si è manifestata,
come negli USA e nel Regno Unito, questa si è accompagnata a una
crescita innaturale dei listini azionari (le borse sono ai massimi
storici, le obbligazioni offrono rendimenti bassissimi, etc.) che fanno
temere l’azione di nuove bolle speculative: l’indice
Standard & Poors 500 è di oltre 5 punti sopra la media storica (20,5
rispetto a 15,5) del rapporto Price/Earnings (P/E), cioè del rapporto
tra quotazione azionaria e valore dei profitti per azione di un’azienda
quotata. Potrebbero allora essere le bolle speculative a guidare la
crescita economica, come accaduto durante le amministrazioni Reagan,
Clinton e Bush junior, e non la produttività dei fattori e la domanda
aggregata.
Che cos’è la Stagnazione Secolare? La Stagnazione Secolare, cioè un cronico eccesso di risparmio
rispetto agli investimenti, fu evocata da Alvin Hansen nel discorso
presidenziale all’American Economic Association nel 1938. Essa è
caratterizzata da alcuni fattori: stagnazione demografica, modesta
crescita della produttività, tassi d’interesse molto bassi e vicini a
zero.
La tesi della stagnazione demografica è molto suggestiva ed è
sufficiente ricordare che nel periodo 1960-1985 la forza lavoro USA
cresceva a un tasso annuo del 2,1%, sostenendo così l’economia
attraverso la domanda, mentre le previsioni 2015-2025 indicano una
crescita della popolazione compresa tra 18 e 64 anni, pari dunque allo
0,2% annuo.
Se a questo si associa il brusco calo dell’innovazione e delle sue
ricadute sulla produttività, come sostenuto da Edmund Phelps (altro
Premio Nobel per l’economia), allora non si creeranno posti di lavoro e
quindi una domanda sufficiente. I tassi d’interesse a zero, indicano poi
che il tasso d’interesse naturale di piena occupazione è negativo. In
una situazione del genere, le normali regole di funzionamento
dell’economia sono sospese. Krugman, riprendendo Keynes, definisce
questa situazione come una “trappola delle liquidità” e
avverte che ogni pratica virtuosa di contenimento dei disavanzi
pubblici, se attuata attraverso politiche di austerità, non potrà che
peggiorare la situazione generale.
Hong Kong
Secondo Ben Bernanke, invece, la stagnazione attuale delle economie
occidentali è dovuta a un eccesso di risparmio mondiale determinato
dalla crescita delle economie asiatiche, Cina e India
in primo luogo, ma anche di Paesi produttori di materie prime ed
energia, che hanno fatto segnare perduranti ed elevati surplus
commerciali. Questa crescita economica, spinta dalla globalizzazione, ha
determinato un aumento del reddito di popolazioni caratterizzate da una
più elevata propensione al risparmio e, quindi, si è tradotta in un
vero e proprio eccesso di risparmio mondiale, che ha compromesso la
dinamica della crescita economica e spinto al ribasso i tassi
d’interesse. Poiché la maggior parte di questi Paesi sono in via di
sviluppo e comunque niente affatto economie mature, allora la
stagnazione secolare è un falso problema.
Una più attenta analisi delle principali economie mondiali, non
sembra però sostenere la spiegazione dei bassi tassi d’interesse
avanzata da Ben Bernanke. Infatti, i dati indicano un trend decrescente
del risparmio mondiale e una riduzione ancora maggiore del risparmio
globale e delle famiglie nelle economie più sviluppate del mondo. Anche
per ciò che riguarda i saldi delle partite correnti, dal 2007 si osserva
un progressivo miglioramento del disavanzo commerciale degli USA e un
peggioramento del saldo commerciale di Giappone e soprattutto della Cina.
Se Larry Summers ha ragione, come da queste parti si ritiene, allora le politiche di austerità imposte dalla Troika non solo sono inefficaci, ma risultano fatali alle economie dell’eurozona,
proprio perché incapaci di rilanciare gli investimenti oggi fortemente
insufficienti anche con tassi d’interesse pari a zero. In questa
situazione, viceversa, andrebbero perseguite politiche fiscali in
deficit per sostenere la domanda aggregata. Con questi tassi, il costo
dell’indebitamento pubblico sarebbe molto basso e ogni investimento
genererebbe automaticamente i ricavi capaci di ripagare il debito a esso
associato, grazie anche al solo moltiplicatore fiscale.
Come sostiene Larry Summers, questo non è un punto di vista teorico,
ma quanto affermato dallo stesso FMI che nel World Economic Outlook
dell’ottobre 2014 suggerisce che “gli investimenti pubblici nei Paesi
con tassi d’interesse prossimi allo zero è molto probabile che riducano
significativamente il rapporto debito pubblico/PIL”.
Il mese di agosto non è mai stato di riposo per la finanza.
Nel solleone del 2007 cominciarono a snodarsi i tentacoli di quella
crisi finanziaria che avrebbe poi portato alla Grande recessione.
Nell'agosto del 2011 le Borse crollarono, dall'America all'Europa
all'Asia, sotto il timore dell'aggravarsi della crisi da debiti sovrani
nel Vecchio continente. E l'agosto del 2015?
Oggi le ansie hanno a che fare con i Paesi emergenti. Dato
che ormai, nella torta dell'economia mondiale, la loro fetta ha superato
quella dei Paesi emersi, è normale preoccuparsi: il rallentamento dei
primi non è una buona notizia neanche per i secondi. Ma cosa c'è dietro
questo rallentamento?
La prima cosa da osservare è che, a differenza del 2011,
quando le ansie per la crisi in Europa erano intense e fondate, i
problemi degli emergenti sono oggi più variegati e, osiamo dire, meno
pesanti. Cominciamo da quella che è ormai la più grande economia del
mondo: la Cina ha riconquistato dal 2014 quell'alloro che aveva perso
dopo il Seicento. Ebbene, la Cina sta rallentando, il che vuol dire che,
invece di crescere al 10% l'anno sta crescendo al 7% e potrebbe
scendere (orrore!) anche al 5 per cento. L'economia cinese conosce una
fase di transizione, quando quote di investimento (sul Pil) del 50% -
spese che odorano di rischi di sovracapacità produttiva – stanno
scendendo per lasciare il posto a quote maggiori di consumi privati e di
trasferimenti pubblici. La transizione sta anche – e più visibilmente –
nella finanza: l'impennata della Borsa cinese in un mercato finanziario
ancora immaturo è stata seguita da una forte correzione (che lascia
però alla Borsa di Shanghai il primato del progresso sull'anno: + 52%,
pur dopo la correzione a oggi).
Anche in campo valutario la transizione è agitata: la
svalutazione dello yuan, che ha fatto gridare alla “guerra delle
valute”, è stata inattesa e concentrata nel tempo. Ma, a guardare le
cose con distacco, rappresenta solo una comprensibile reazione a un
massiccio apprezzamento della moneta cinese. Dall'inizio (metà 2007)
della crisi a oggi lo yuan aveva registrato un apprezzamento reale del
45% circa: a oggi la correzione porta questo apprezzamento al 40 per
cento. La Cina si era, insomma, meritoriamente assunta il compito di
correggere gli squilibri mondiali negli scambi, e l'avanzo corrente era
così sceso dal 10% del 2007 al 2% del 2014.
Di per sé, i timori e i tremori dei mercati sulla Cina non
sono tanto giustificati dagli squilibri finanziari o reali
dell'economia, quanto dall'impressione che i dirigenti cinesi, poco
esperti nell'arte e nella scienza dei mercati finanziari, non siano in
grado di gestire valuta e moneta. Questo giudizio, tuttavia, dimentica
che le leve di controllo sono salde, e che i gradi di libertà – sia per
la politica monetaria che per quella di bilancio – sono molto più ampi
rispetto a quelli di molti Paesi occidentali.
Un altro timore sta in una nuova edizione del taper tantrum:
quel “capriccio da assottigliamento” (difficile trovare una traduzione
meno goffa) descrisse, due anni fa, la decisione della Fed di
assottigliare gli acquisti mensili di bond che, in un quadro di
espansione quantitativa della moneta, aveva condotto fino ad allora per
sostenere l'economia. Questa decisione condusse a improvvidi aumenti dei
rendimenti in giro per il mondo e a un ritiro (o minore afflusso) di
capitali dai Paesi emergenti. Ora la Fed sta preparando un altro passo
restrittivo (tecnicamente: meno espansivo) della politica monetaria, e
il tasso-guida dei Federal Funds potrebbe passare da zero a 0,25%
(orrore!) già a fine anno. I mercati, assuefatti da anni al basso prezzo
del danaro, preparano un altro 'tantrum', come mocciosi a cui si toglie
il balocco preferito. L'ex Governatore della Bank of England, Mervyn
King, disse un giorno che «l'obiettivo delle Banche centrali dovrebbe
essere quello di rendere la politica monetaria il più noiosa possibile».
Purtroppo, attualmente la politica monetaria è tutt'altro che noiosa.
Poi c'è la questione delle materie prime, a cominciare dal
petrolio. Lo sgretolamento del prezzo dell'oro nero sta raggiungendo il
punto in cui gli svantaggi superano i vantaggi. Il petrolio meno caro
porta a benefici diffusi (per famiglie e imprese consumatrici) e a
malefici concentrati (per Paesi produttori e società petrolifere). E chi
sta peggio protesta di più di chi sta meglio. In aggiunta, non vale più
il fatto che, date le differenze nelle propensioni alla spesa di Paesi
consumatori e produttori, una diminuzione del prezzo del petrolio è
benefica per l'economia mondiale. Oggi questo si prospetta come un gioco
a somma zero.
Fortunatamente, non tutte le notizie sono negative per gli
emergenti. In India l'economia accelera. Il “Warren Buffett” indiano,
Rakesh Jhunjhunwala, ha detto che «la crescita viene dal caos, non
dall'ordine» e che, anche se le preoccupazioni di un rallentamento sono
reali, «bisogna aver fiducia che queste vicende passeranno». Unitamente
al fatto che la crescita americana si conferma e che l'Europa arranca
meno di prima, è poco probabile che i malumori dell'economia
finanziaria, in questo agosto turbolento, vadano a tracimare, come
successe nel 2007 e nel 2011, nell'economia reale.
Un venerdì nero per chiudere una settimana nera, quasi nefasta, per i
mercati finanziari globali. La sindrome cinese si è fatta sentire
ancora una volta. La Borsa di Shanghai ha chiuso l’ultima seduta con un
calo del 4% - dopo la pubblicazione del dato Pmi manifatturiero ai
minimi da 77 mesi - portando il ribasso settimanale al 13% e al 50% il
calo dai massimi di fine giugno nonostante le iniezioni di liquidità
della banca centrale e i provvedimenti che dovrebbero arginare l'ondata
ribassista ma non stanno sortendo gli effetti sperati. Come ha rilevato
un broker «la Borsa cinese è come una sala da gioco e il governo è
intervenuto chiudendo la metà dei tavoli». Il timore è che nonostante
dai picchi di giugno le Borse di Shanghai e Schenzen abbiano dimezzato
la capitalizzazione da 9.600 a 4.800 miliardi di dollari, l’ondata
ribassista non sia finita .
Le vendite hanno colpito ancheTokyo (-2,98% ieri e -5,5% da lunedì)
e a valanga i listini occidentali. Solo nella seduta di ieri il valore
delle 600 società a maggiore capitalizzazione in Europa (misurate
dall’indice Stoxx 600) è sceso di 330 miliardi di euro. In termini di
capitalizzazione le principali 28 Borse europee hanno perso 459 miliardi
di dollari nell’ultima settimana. Pesanti svalutazioni anche sui
listini asiatici (che ora valgono 755 miliardi in meno rispetto a una
settimana fa) e americani (-894 miliardi includendo le Borse latine).
Anche Wall Street, la Borsa meno volatile del pianeta, ha bruciato oltre
6 punti percentuali nelle ultime cinque sedute. Con il ribasso di ieri
l’indice S&P 500 si è portato sui livelli di otto mesi fa, scendendo
sotto la soglia dei 2mila punti.
Le vendite hanno colpito in modo pressoché indistinto l’azionario
globale, con perdite di valore giornaliere per 938 miliardi e
settimanali per 2.200 miliardi di dollari.
Solo nell’ultima seduta Piazza Affari ha perso il 2,8% portando il
bilancio settimanale a -6,5%. Peggio ha fatto Francoforte che ha perso
il 3% nell’ultima seduta e l’8% da lunedì. Il bilancio settimanale è
pessimo anche per le altre piazze del Vecchio continente: Parigi -6,5%,
Madrid -6% e Londra -7,5%.
A preoccupare è il fatto che alle vendite azionarie fanno da
contraltare gli acquisti di asset rifugio, come oro, franco svizzero e
Bund tedesco, con uno spostamento di capitali verso lidì più sicuri,
come nelle fasi di avversione al rischio. Il tasso del Bund a 10 anni è
sceso allo 0,58% spingendo in alto di 5 punti base lo spread con il BTp
(a 128), il cui rendimento è salito all’1,86%. Proseguono gli acquisti
sull’oro. Ieri è salito di oltre 5 dollari portandosi a ridosso di
1.160 dollari l’oncia rispetto ai 1.085 dollari della scorsa settimana.
Mentre l’euro è volato oltre quota 1,13 dollari sulle ormai tramontate
aspettative degli investitori che la Federal Reserve possa rialzare i
tassi di interesse a settembre. Ancora più remote dopo il dato
sull’attività manifatturiera statunitense: ad agosto l’indice Pmi di
Markit è sceso a 52,9 dal 53,8 di luglio toccando i minimi dall’ottobre
del 2013. Proprio il probabile rinvio della tanto attesa fase di
normalizzazione della politica monetaria negli Stati Uniti, complice le
incertezze che arrivano dalla Cina, è un ulteriore elemento che sta
mandando in tilt gli operatori. Decisiva la partita a scacchi tra
dollaro e yuan: Jack Lew, segretario americano al Tesoro, ieri ha detto
che gli Usa monitoreranno attentamente la politica valutaria di Pechino
dopo la recente svalutazione dello yuan giunta a sorpresa.
L’amministrazione Obama preme affinché la Cina continui a lavorare per
rendere la sua economia più legata alla domanda interna e meno alle
esportazioni. Non solo Cina e yuan. A questo punto è imprevedibile
ipotizzare anche l’andamento del petrolio e se riuscirà a risollevarsi,
evitando ulteriori problemi sulle valute dei Paesi emergenti esportatori
di materie prime, che viaggiano sui minimi sul dollaro. Anche ieri
l’oro nero ha dato segnali di tensione, franando ancora: il Wti è
calato sotto i 40 dollari al barile per la prima volta dal 2009
accentuando i rischi di deflazione globale.
CHI TOCCA RENZI (E NAPOLITANO) SALTA? – SERGIO DE
CAPRIO, IL “CAPITANO ULTIMO” CHE ARRESTÒ TOTÒ RIINA, PERDE LA GUIDA
OPERATIVA DEL NOE DEI CARABINIERI – IL COMANDO GENERALE PARLA DI
SEMPLICE “RIORGANIZZAZIONE” MA LUI SE LA PRENDE CON “I SERVI SCIOCCHI” –
HA INDAGATO SULLA CPL CONCORDIA, INTERCETTANDO IL CAPO DEL GOVERNO
Spesso in coppia con il pm Woodcock, De Caprio s’è fatto
tantissimi nemici, dalla Lega di Bossi a D’Alema, passando per Roberto
Maroni. Le inchieste sulle fantomatiche tangenti indiane di Finmeccanica
e sulla P4 di Papa e Bisignani hanno fatto molto rumore, ma sono finite
sostanzialmente in nulla…
Astutamente
nascosta nelle pieghe più calde dell' estate una lettera del Comando
generale dei carabinieri datata 4 agosto spazza via il colonnello Sergio
De Caprio, nome in codice Ultimo, dalla guida operativa dei suoi
duecento uomini del Noe, addestrati a perseguire reati ambientali, ma
anche straordinari segugi capaci di scovare tangenti, abusi, traffici di
denari e di influenza. Uomini che stanno nel cuore delle più clamorose
inchieste di questi ultimi anni sull' eterna sciagura italiana, la
corruzione.
La
lettera che liquida Ultimo è perentoria. La firma il generale Tullio
Del Sette, il numero uno dell' Arma. Stabilisce che da metà agosto il
colonnello De Caprio non svolgerà più funzioni di polizia giudiziaria,
manterrà il grado di vicecomandante del Noe, ma senza compiti operativi.
Motivo? Non specificato, normale avvicendamento. Anzi: "Cambiamento
strategico nell' organizzazione dei reparti". Cioè? Frazionare quello
che fino ad ora era unificato: il comando delle operazioni.
CURIOSA L' URGENZA.
Curioso il metodo. Curioso il momento, vista la quantità di scandali e
corruzioni che il persino presidente della Repubblica Sergio Mattarella
ha definito "il germe distruttivo della società civile".
capitano ultimo
Scontata
la reazione di De Caprio che in data 18 agosto, prende commiato dai
suoi re parti con una lettera avvelenata contro i "servi sciocchi" che
abusando "delle attribuzioni conferite" prevaricano "e calpestano le
persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere". Lettera
destinata non a chiudere il caso, ma a spalancarlo in pubblico.
Eventualità
non nuova nella storia dell' ex capitano Ultimo, quasi mai in sintonia
con le alte gerarchie dell' Arma che non lo hanno mai amato. Colpa del
suo spirito indipendente, della sua velocità all' iniziativa
individuale. Di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi
metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell'
obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a
trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto.
TULLIO DEL SETTE
Fin
dai tempi remoti dell' arresto di Totò Riina - gennaio 1993 - che gli
valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un
ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un
processo per "la mancata perquisizione del covo" da cui uscì assolto
insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori. Per non
dire di quando provarono a metterlo al caldo tra i banchi della Scuola
ufficiali, a privarlo della scorta - anno 2009 - rias segnatagli dopo la
rivolta dei suoi uomini che si erano raddoppiati iturni per
proteggerlo.
RIPESCATO
dal ministero dell' Ambiente, messo a capo del Noe, Sergio De Caprio ha
trasformato i Nuclei operativi ecologici a sua immagine, macinando
indagini, rivelazioni.
Oltre a molti e sorprendenti arresti, da quelli di Finmeccanica ai più recenti per gli appalti de L' Aquila.
FRANCESCO BELSITO
L'
elenco è lungo come un film. Si comincia dai conti di Francesco
Belsito, quello degli investimenti della Lega Nord in Tanzania e dei
diamanti, il tesoriere del Carroccio che a forza di dissipare milioni di
euro come spiccioli, ha liquidato l' intero cerchio magico di Umberto
Bossi. Poi Finmeccanica.
Con
il clamoroso arresto di Giuseppe Orsi, l' amministratore delegato del
gruppo e di Bruno Spagnolini di Agusta, indagati per una tangente di 51
milioni di euro pagata a politici indiani per una commessa di 12
elicotteri. E ancora. L' arresto di Luigi Bisignani indagato per i suoi
traffici di informazioni segrete e appalti per la P4, coinvolti gli
gnomi della finanza e della politica, spioni, e quel capolavoro di
Alfonso Papa, deputato pdl, che aveva un debole per i Rolex rubati.
BACIO ALLA CAMERA TRA NICOLA COSENTINO E ALFONSO PAPA
POI LE ORE
di confessioni di Ettore Gotti Tedeschi il potente banchiere dello Ior,
interrogato sulle operazioni più riservate della banca vaticana dietro
le quali i magistrati ipotizzavano il reato di riciclaggio. Le indagini
sul tesoro di Massimo Ciancimino seguito fino in Romania; quelle su una
banda di narcotrafficanti a Pescara, e persino quelle recentissime su
Roberto Maroni, il presidente di Regione Lombardia, accusato di abuso di
ufficio per aver fatto assumere due sue collaboratrici grazie a un
concorso appositamente truccato.
Per
finire con le inchieste sulla Cpl Concordia, la ricca cooperativa rossa
che incassava appalti in mezza Italia, distribuiva consulenze, teneva
in conto spese il sindaco pd di Ischia, Giosi Ferrandino, e per
sovrappiù comprava vino e libri da un amico speciale, l' ex presidente
del Consiglio Massimo D' Alema. Inchieste in cui compaiono anche due
sensibilissime intercettazioni, tutte pubblicate in esclusiva dal Fatto
lo scorso 10 luglio.
henry john woodcock
La
prima - 11 gennaio 2014 - è quella tra Renzi e il generale della Gdf
Adinolfi, nella quali l' allora soltanto leader del Pd svelava l'
intenzione di fare le scarpe a Enrico Letta per spodestarlo da Palazzo
Chigi. La seconda -5 febbraio 2014 -è quella relativa a un pranzo tra lo
stesso Adinolfi, Nardella (allora vicesindaco di Firenze), Maurizio
Casasco (presidente dei medici sportivi) e Vincenzo Fortunato (il
superburocrate già capo di gabinetto del ministero dell' economia) in
cui si faceva riferimento a ricatti attorno al presidente Napolitano per
i presunti "altarini" del figlio Giulio.
Giuseppe Orsi
Tutto
vanificato ora per il "cambiamento strategico nell' organizzazione dei
reparti". Motivazione d' alta sintassi burocratica che a stento coprirà
gli applausi della variopinta folla degli indagati (di destra, di
centro, di sinistra) e la loro gratitudine per questa inaspettata via d'
uscita che riapre le loro carriere, mentre chiude quella di Sergio De
Caprio.
Generale Adinolfi
Eventualità
non del tutto scontata, visto il malumore che in queste ore serpeggia
dentro l' Arma, e vista la reazione (furente e non del tutto silenziosa)
dell' interessato che trapela dalla lettera inviata ai suoi uomini, una
dichiarazione di guerra, travestita da addio.
Il 4 agosto il colonnello Sergio De Caprio, meglio noto con il nome di capitano Ultimo,
è stato sollevato dal comando del Noe. Solo un mese prima Il Fatto
Quotidiano aveva pubblicato l’intercettazione tra il numero 2 della Gdf
Adinolfi e il premier Renzi nell’ambito dell’inchiesta di Napoli sulla
Cpl Concordia, condotta proprio dal Noe.
Sconcertanti
le modalità del siluramento di Ultimo, fatto fuori con una lettera del
Comando generale dei carabinieri datata 4 agosto viene sollevato dalla
guida operativa dei suoi duecento uomini del Noe,
addestrati a perseguire reati ambientali, ma anche straordinari segugi
capaci di scovare tangenti, abusi, traffici di denari e di influenza. La
firma sulla lettera è del generale Tullio Del Sette,
il numero uno dell’Arma. Stabilisce che da metà agosto il colonnello De
Caprio non svolgerà più funzioni di polizia giudiziaria, manterrà il
grado di vicecomandante del Noe, ma senza compiti operativi. Motivo? Non
specificato, normale avvicendamento. Anzi: “Cambiamento strategico
nell’organizzazione dei reparti”. Cioè? Frazionare quello che fino ad
ora era unificato: il comando delle operazioni.
Uomini
che stanno nel cuore delle più clamorose inchieste di questi ultimi
anni sull’eterna sciagura italiana, la corruzione ad esempio quella sul
tesoriere della Lega Francesco Belsito,
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Scontata
la reazione di De Caprio che in data 18 agosto, prende commiato dai
suoi reparti con una lettera avvelenata contro i “servi sciocchi” che
abusando “delle attribuzioni conferite” prevaricano “e calpestano le
persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere”. Lettera
destinata non a chiudere il caso, ma a spalancarlo in pubblico. Ultimo
ha trasformato i Nuclei operativi ecologici a sua immagine, macinando
indagini, rivelazioni e facendo cadere nella sua rete nomi altisonanti:
l’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, Giuseppe Orsi, l’amministratore delegato di Finmeccanica, Luigi Bisignani discusso finanziere, Alfonso Papa, deputato Pdl. Le sue ultime indagini riguardavano il tesoro di Massimo Ciancimino seguito fino in Romania; quelle su una banda di narcotrafficanti a Pescara, Roberto Maroni,
il presidente di Regione Lombardia, accusato di abuso di ufficio per
aver fatto assumere due sue collaboratrici grazie a un concorso
appositamente truccato e , infine, quella sulla Cpl Concordia, ricca
cooperativa rossa che incassava appalti in mezza Italia, distribuiva
consulenze e teneva in conto spese il sindaco pd di Ischia, Giosi Ferrandino, e comprava vino e libri da un amico speciale, l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema. appartengono a queste indagini due intercettazioni importantissime; quella tra Renzi e il generale della Gdf Adinolfi, nella quali l’allora soltanto leader del Pd svelava l’intenzione di fare le scarpe a Enrico Letta per spodestarlo da Palazzo Chigi e quella relativa a un pranzo tra lo stesso Adinolfi, Nardella (allora vicesindaco di Firenze), Maurizio Casasco (presidente dei medici sportivi) e Vincenzo Fortunato
(il superburocrate già capo di gabinetto del ministero dell’economia)
in cui si faceva riferimento a ricatti attorno al presidente Napolitano per i presunti “altarini” del figlio Giulio. “Tutto
vanificato”- scrive Il Fatto Quotidiano-” ora per il “cambiamento
strategico nell’organizzazione dei reparti”. Motivazione d’alta sintassi
burocratica che a stento coprirà gli applausi della variopinta folla
degli indagati (di destra, di centro, di sinistra) e la loro gratitudine
per questa inaspettata via d’uscita che riapre le loro carriere, mentre
chiude quella di Sergio De Caprio.
Tauran al Meeting di Rimini: guerre non sono di religione, ma politiche
Il cardinale Jean-Louis Tauran - RV
21/08/2015
Il Meeting di Rimini si è aperto ieri
all’insegna del dialogo interreligioso. Un cattolico, un ebreo e un
musulmano hanno testimoniato che le religioni “sono per edificare l’uomo
e non per la sua distruzione”. Se ne è parlato nell’incontro di
apertura dal titolo: “Le religioni sono parte della soluzione, non il
problema", con il cardinale Tauran, il gran rabbino di Francia Korsia e
il rettore della moschea di Lione, Gaci. In
un videomessaggio al Meeting, il segretario generale dell’Onu, Ban
Ki-moon, ha sottolineato come “il mondo di oggi sia segnato da conflitti
e disuguaglianze, con persone, tuttavia, impegnate a rafforzare la
speranza”. Ban Ki-moon ha annunciato per settembre, con la presenza del
Papa a New York, una nuova Agenda per lo sviluppo sostenibile. Al
microfono di Luca Collodi, il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo
R. – Oggi non c’è un conflitto che sia di natura religiosa. Tutti i
conflitti che dobbiamo gestire, purtroppo, si devono a ragioni
politiche. Ma quando si guarda il mondo di oggi, non lo si può capire
senza la religione. Questo è il grande paradosso. Un secolo fa ci hanno
detto “Dio è morto”, ma vediamo che non è morto, perché è molto
presente. Quindi questo paradosso ci spinge a dialogare, perché Dio fa
parte della vita dell’uomo di oggi. L’uomo è un “animale” religioso.
D. – Perché le religioni, però, sono spesso presenti all’interno dei conflitti?
R. – Prima di tutto non sono le religioni ad essere presenti, ma sono
i seguaci delle religioni, che sono uomini e donne segnati dal peccato
originale. Sappiamo, quindi - lo dice la Costituzione conciliare Gaudium
et spes – che la violenza ci sarà fino alla fine del mondo. Dobbiamo,
dunque, essere capaci di gestire questa violenza. Il male si vince con
il bene.
D. – Molti governi “laici” per evitare conflitti abbassano le
identità, anche religiose: questo secondo lei è un percorso giusto?
R. – No, perché nel dialogo interreligioso la prima cosa su cui
soffermarsi - come di fatti ha ricordato il rettore della moschea di
Lione - è l’identità: sapere chi sono, in cosa credo, quali sono i
valori fondamentali che guidano la mia vita. Non c’è dialogo
interreligioso, dunque, che riposi sull’ambiguità. Noi dobbiamo avere
un’idea del contenuto della nostra fede.
D. – Religioni e democrazia: spesso non è un dialogo facile…
R. – … giustamente l’uomo è libero e molte volte il male si
sovrappone al bene. Noi dobbiamo sempre fare in modo che la forza della
legge prevalga sulla legge della forza.
D. – L’integralismo islamico che idea ha della religione?
R. – L’integralismo islamico prima di tutto non è il vero islam. E’
una perversione. Si tratta di gruppi traviati, purtroppo, che godono
dell’appoggio di alcuni settori, che non sono a favore della democrazia.
D. – La mancanza di pace oggi dipende anche da un’alleanza tra religione e potere?
R. – In certi casi sì. Le religioni, però, i credenti, sono una forza
di bene e lo vediamo … E’ sempre importante che i mezzi di
comunicazione insistano di più su questi aspetti positivi: per esempio,
una famiglia musulmana a Baghdad, che ospita da due anni una famiglia
cristiana. Questo è un fatto molto bello. O i padri dominicani che due
anni fa hanno fondato a Baghdad l’Accademia delle Scienze Sociali, dove
hanno più di mille studenti, quasi tutti musulmani. Queste sono belle
cose che portano luce nelle tenebre, di cui dobbiamo parlare.
Cardini/12. Immigrazione: la lezione del filosofo Alain de Benoist oltre ruspe e mugugni
Pubblicato il 21 agosto 2015 da Mario De Fazio
Categorie :
Cultura Politica
La
cronaca delle ultime ore offre due spunti interessanti che rimbalzano
dalla Grecia, divenuta laboratorio di modelli e tendenze sempre più
diffuse nella guerra che il capitale finanziario conduce da tempo contro
i popoli e, di riflesso, delle lacune che il fronte sovranista – pur
nelle diverse declinazioni nazionali – prova a contrapporre come
resistenza alla logica dell’illimitata necessità dei meccanismi
economici imperanti.
Il governo Tsipras, coerente con
il tradimento del responso referendario, offre il primo obolo alla
Germania sull’altare delle privatizzazioni, uno dei dogmi indiscutibili
dei merca(n)ti: quattordici aeroporti regionali – tra cui
quelli di Salonicco, Corfù, Zante, Cefalonia, Rodi, Mykonos e Santorini –
ceduti al gruppo privato tedesco Fraport: un affare da 1,23 miliardi di
euro che costituisce il primo passo del pacchetto di riforme – beati
eufemismi della tecnica – che dovrebbe portare Atene a (s)vendere parte
del proprio patrimonio pubblico. Un gigantesco esproprio al contrario,
tutt’altro che popolare, all’interno del Fondo per le privatizzazioni da
50 miliardi di euro che Tsipras, in cambio di una mega-paghetta di
altri debiti con cui sopravvivere, si è impegnato a rendere operativo
entro la fine dell’anno. Nel novembre scorso la Fraport era stata
dichiarata “investitore privilegiato”per la gestione degli aeroporti
regionali, in collaborazione con il colosso greco Copelouzos. Poi la
vittoria di Syriza aveva bloccato l’accordo che, appena messo a cuccia
Tsipras, è stato puntualmente ratificato. Tradotto: il cappio del debito, inesorabile, ricomincia a mostrare i segni sul collo dei greci.
Un copione, quello delle privatizzazioni, che si ripete da tempo anche
in Italia, dove la svendita del patrimonio pubblico è divenuta norma.
Alexis Tsipras
Sempre dalla Grecia, dopo le immagini
degli scontri intorno alle zone degli sbarchi di immigrati, arriva
qualche dato sull’afflusso di aspiranti profughi. A dare i numeri è
l’Onu: dal primo gennaio sono arrivati in Grecia, via mare, 158.456
immigrati. E nel solo mese di luglio gli sbarchi (50.242) sono stati superiori al totale di tutto il 2014 (43.500).
Numeri elevati, soprattutto se messi in relazione alla disastrosa
situazione economica ellenica, con la disoccupazione che è attestata
intorno al 25%.
Cosa c’entrano le privatizzazioni con
l’immigrazione? E’ nel porsi questa domanda – e nella capacità di
tentare di dare una risposta – la chiave per poter leggere in filigrana
l’interessante dibattito che sta animando le colonne digitali di Barbadillo negli ultimi giorni, a partire dalla provocazione di Franco Cardini. Come spesso, la lucidità filosofica di un viandante dello spirito come Alain De Benoist viene in aiuto: “L’immigrazione
è un fenomeno padronale. Chi critica il capitalismo approvando
l’immigrazione, di cui la classe operaia è la prima vittima, farebbe
meglio a tacere. Chi critica l’immigrazione restando muto sul
capitalismo, dovrebbe fare altrettanto”. I due fenomeni si tengono, rispondono alla stessa logica e uno è indispensabile all’altro.
Compito di chi aspira a essere avanguardia, culturale o politica, è quello di tracciare la direzione: se si rigetta un fenomeno come l’immigrazione indiscriminata che sradica le identità in quanto funzionale all’homo economicus,
forgiato da decenni di retorica liberista in economia e
post-sessantottina nei costumi, non basta solo assecondare le esigenze
elettorali mettendo in moto la ruspa. E nemmeno, a maggior ragione,
trincerandosi dietro i cahiers de doléances, lamentosi e in
qualche caso persino ridicoli, di una classe dirigente che in qualche
caso ha fatto vergognare chi militava a destra. Al di là di uomini e partiti, serve una linea.
Una direzione che conduca alla maturazione culturale e politica per
evitare di restare schiacciati tra la retorica buonista e forme in certi
casi rozze e prive di un’analisi dei fenomeni migratori che tenga
insieme identità, sovranità e giustizia sociale. Compito gravoso ma dal
quale nessuno può ritenersi esente.
Smontare la bugia propinata per anni
secondo la quale gli immigrati fanno “i lavori che gli italiani non
vogliono più fare” si può, a patto di tenere insieme la difesa
identitaria con le istanze di giustizia sociale: significa, ad esempio,
spiegare che gli italiani non vogliono più raccogliere pomodori a tre
euro l’ora perché nessuno – né italiano né straniero – dovrebbe essere sfruttato e magari morire asfissiato in un capannone.
E la presenza degli immigrati, che già Marx qualificava come “esercito
industriale di riserva del capitalismo”, non fa altro che abbattere i
diritti sociali dei lavoratori italiani, in una gara folle al
ribasso in cui a guadagnarci non sono gli italiani e nemmeno gli
immigrati, entrambi sfruttati a diversi gradi d’intensità, ma chi affama
i popoli. E ingrassare i tanti “caporali” senza scrupoli e
chi, dietro un finto buonismo d’accatto, macina appalti e predica omelie
per l’accoglienza mostrando una distanza siderale dall’esigenze degli
italiani. Significa anche ricordare che i disperati in arrivo
dall’incontrollata Libia possono “invaderci” perché Usa e Francia, per i
propri interessi, hanno deciso di eliminare Gheddafi, aprendo la strada
al caos libico nell’ignavia, generalizzata, di un’Unione europea che
ragiona solo su parametri economici. Stessa guerra, seppur su altri
fronti e con altri mezzi, portata avanti tramite le privatizzazioni, che
conducono a due risultati: allontanare sempre più, in direzione
transnazionale, la gestione di settori strategici delle economie
nazionali e indebolire le tutele sociali dei lavoratori dietro lo
spettro dei “necessari ridimensionamenti”. Accade in Grecia, come in
Italia.
Gli sforzi di singoli e comunità per
uscire dal pantano degli ultimi anni non possono essere liquidati con
mugugni fuori tempo massimo né esaltati acriticamente. Dovrebbero, per
chi crede ancora che la politica non sia solo testimonianza, essere
guardati con “simpatia”, nel senso etimologico del termine. Con la
consapevolezza, però, che il quadro internazionale ed europeo e “la fine
della storia” successiva al 1989 impongono nuove esigenze tattiche e
scelte diverse, radicali. A costo di epater les bourgeois,
si potrebbe usare un fortunato e provocatorio titolo di un libro di
Stenio Solinas per spiegare la necessità, oggi più che mai, di uno
scatto in avanti “per farla finita con la destra”: quella liberista,
clericale, bigotta, egoista, fallaciana, filo-atlantica. Più
che contenitori vecchi o nuovi, potrebbe essere utile buttare a mare
certe zavorre che impediscono la navigazione aperta nel mare delle
contraddizioni che la realtà sottopone ogni giorno. Se la barra è
dritta, i tanti vascelli che navigano controcorrente potranno veleggiare
insieme. Ma a patto che la rotta sia chiara.
«Io
sono diverso da voi, ma non voglio destabilizzarvi. Voglio
rassicurarvi», dice l'imam incassando alla fine del suo intervento un
applauso fragoroso.
Siamo all'incontro di apertura del Meeting di Rimini. Ci sono
un cardinale (Jean-Louis Tauran), un rabbino (Haïm Korsia) e, appunto,
anche un esponente della comunità musulmana francese, Azzedine Gaci,
rettore della Moschea Othmane di Villeurbane.
Il titolo
dell'incontro non lascia spazio a dubbi: «Le religioni sono parte della
soluzione, non il problema». La tesi è che con la violenza religiosa
(quindi dell'Islam radicale) i veri musulmani non c'entrano niente. La
presidente della fondazione Meeting, Emilia Guarnieri, parla di un
«grande incontro di apertura». Le tesi dialoganti di Gaci piacciono
anche alla platea.
Peccato che sulla scelta dell'esponente
islamico sia nata la prima polemica del meeting. Che sarebbe solo
religiosa se non fossimo in tempi di Isis. Ad innescarla è stata la
Bussola quotidiano , media online cattolico, non nuovo a polemiche con
il Meeting di Comunione e liberazione. Gaci, campione del dialogo tra
cristiani e Islam (ha partecipato anche a un incontro con il Papa),
secondo la Bussola è anche esponente della Union des Organisations
Islamiques de France (Uoif). Filiazione dei Fratelli Musulmani, a sua
volta braccio politico mondiale dell'Islam. Moderati nei toni, meno
nelle mire. Organizzazione dichiarata illegale in quanto terroristica in
vari stati arabi, compreso l'Egitto (dove erano fortissimi), in tutta
la penisola araba in Tagikistan e Uzbekistan. Paesi islamici, quindi, ma
preoccupati dalle tattiche politiche dei Fratelli.
La scelta del
Meeting, a giudizio della Bussola , è completamente sbagliata. In un
articolo postato ieri si riporta la testimonianza dei musulmani francesi
che criticano l'Uoif. Uno è l'intellettuale musulmano Soufiane Zitouni.
Ex insegnante del liceo islamico francese che si trova a Lille ed è
vicino all'Uoif. Ha lasciato la scuola dopo la strage nella redazione di
Charlie Hebdo . Poi Ferid Abdelkrim, altro fuoriuscito dall'Uoif, che
ha rivelato l'omertà e i vincoli che legano chiunque detenga cariche
all'interno dell'organizzazione francese. Prima fra tutte, un giuramento
di fedeltà alla Fratellanza Musulmana. Sarà per questo che Gaci ha
sorvolato sulla sua appartenenza all'Unione nella sua biografia inviata
al Meeting, scrive il quotidiano online. Un interlocutore quantomeno
controverso.
Meeting, Farouq: “Occidente colpevole di tolleranza verso Islam politico”
Wael Farouq
Roma, 21 agosto 2015 – “La tolleranza dell’Occidente nei confronti
dell’Islam politico è colpevole, mentre il mondo occidentale potrebbe
aiutare l’Islam, dando forza ai musulmani europei”. Lo ha detto Wael
Farouq, in un’intervista al programma Soul di Tv2000 (in onda sabato 22
agosto 2015 alle 12.15 e alle 20.30) che in occasione
del Meeting di Rimini ha incontrato alcuni protagonisti della
manifestazione organizzata da Comunione e Liberazione. Farouq è docente
di Lingua Araba all’Università Cattolica di Milano e all’Università
Americana del Cairo; è vicepresidente del Meeting de Il Cairo, autore di
saggi linguistici e coautore, assieme a Papa Benedetto XVI, del libro ‘Dio salvi la ragione’.
“Il grande problema dell’integrazione dei musulmani in Europa – ha
sottolineato Farouq – è l’ideologizzazione dell’Islam, da parte di chi
ha fatto una proposta politica della fede; ma ci sono venti milioni di
musulmani in Europa, e non sono tutti così. Anche in Egitto, ogni anno
decine di migliaia di musulmani fanno a gara per mettere i loro figli in
una scuola cristiana, per avere la più alta qualità, e così decine di
migliaia di bambini crescono in una classe in cui c’è il crocefisso”.
“Dobbiamo dividere nettamente – ha aggiunto Farouq – tra musulmano e
islamista. Il primo è un uomo di fede che ha fatto una scelta per la sua
anima. Il secondo ha un’ideologia e vuole imporla agli altri e alla
società. Non dobbiamo più parlare di Islam ed Europa, ma di musulmani
europei. In questo campo l’integrazione è ancora una sfida. Per troppi
politici integrazione significa invisibilità, significa ‘non far
problemi’. Ma questa invisibilità è il problema. Un’invisibilità diventa
visibile quando si butta una bomba”.
Regione Lazio, contributi elettorali irregolari: ora parola alla Procura
Pubblicato il 21 agosto 2015 da Giacomo Salvini Regione Lazio: non bastassero gli ultimi 34 rinvii a giudizio decretati dal gip di Roma nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale, sempre dalla magistratura arriva una nuova grana per il Consiglio Regionale. E in particolare per il governatore Luca Zingaretti e per il Partito Democratico, forza maggioritaria in Regione. Stavolta, infatti, ad occuparsi dell’assemblea regionale sono stati i magistrati contabili della Corte dei Conti del Lazio che per un anno e mezzo hanno spulciato tutti i “consuntivi delle spese e dei finanziamenti delle formazioni politiche presenti alla campagna elettorale del 24 e 25 febbraio 2015”.
Ricapitolando. Il 24 e 25 febbraio 2013 si tengono sia le elezioni politiche nazionali che le Regionali in Lombardia, Lazio e Molise. Il risultato finale è di 2 a 1 per il centrosinistra: Roberto Maroni (Lega Nord) vince in Lombardia mentre in Lazio e Molise vengono eletti governatori – rispettivamente – Nicola Zingaretti e Paolo Frattura, entrambi appoggiati dal Partito Democratico. In particolare, in Lazio, il Pd risulta essere il partito di gran lunga più votato con 834mila voti pari al 29% (13 seggi).
Il 19 agosto – dopo un lavoro certosino durato un anno e mezzo – i magistrati del collegio di controllo sulle spese elettorali della Corte dei Conti hanno pubblicato il report sui “consuntivi” relativi alle tre regioni in questione. Ed è proprio in Lazio che si registrano le maggiori criticità, in particolare nei confronti del Partito Democratico e della “Lista Civica Nicola Zingaretti”. Documentazione lacunosa
In primis, scrivono i magistrati Brancato, D’Antico e Rigoni, mancano dei documenti nella rendicontazione dei finanziamenti. E questo vale sia per il Pd che per la “Lista Civica Nicola Zingaretti”.
Il partito di Matteo Renzi avrebbe ricevuto un finanziamento pari a 326.704 euro di cui: 22.530 da persone fisiche, 93.700 euro da persone giuridiche e 210.474 dal partito nazionale. Però, scrivono i magistrati, una parte dei documenti relativi a questi finanziamenti non è pervenuta alla Corte dei Conti. Ad oggi, dopo l’ultimo aggiornamento trasmesso dal legale del Partito ai magistrati risalente al 23 dicembre 2014, mancano ancora all’appello ben 12 società per un totale di 18.700 euro. In realtà, questi soldi sono stati già restituiti dallo stesso Partito Democratico ai rispettivi finanziatori ma i magistrati vogliono capirne di più e così hanno inoltrato tutti i documenti alla Procura della Repubblica di Roma per ulteriori accertamenti.
Situazione simile, ma ancora più grave, per la “Lista Civica Nicola Zingaretti”. In questo caso all’appello mancherebbero addirittura 19 società per un importo pari a 146.000 euro, pari alla metà del totale dei finanziamenti privati erogati alla Lista (274.000 euro in tutto). Di questi, 18.500 sono stati restituiti ai rispettivi finanziatori. Anche in questo caso, i magistrati hanno annunciato di aver trasmesso tutta la relativa documentazione alla Procura della Repubblica.
Errata rendicontazione
Oltre all’insufficiente trasparenza nella rendicontazione dei finanziamenti, il report della Corte dei Conti inoltre segnala come il Partito Democratico abbia potuto usufruire di un cofinanziamento “regolarmente erogato ma calcolato in misura maggiore rispetto a quello dovuto”.
In sintesi. Secondo la legge numero 96 del 2012, per ogni euro versato da un privato il partito ne riceve 0,50 dallo Stato. Ora, secondo la Corte dei Conti, i 127.810 euro di cofinanziamento erogati al Partito Democratico sarebbero il frutto di un calcolo troppo elevato perché stimato sul totale dei finanziamenti destinati al Partito, inclusi quelli successivamente restituiti (18.700 euro). Rimborsi elettorali, un affare per tutti
Infine, sul piatto rimane l’annosa questione dei rimborsi elettorali. Per onor di cronaca, quest’ultima non ha nulla a che fare con possibili inchieste della Procura della Repubblica ma, dalla lettura del report, vengono fuori dati allarmanti.
Nella relazione della Corte dei Conti infatti sono anche riportati tutti i rimborsi statali di cui i partiti rappresentati in Consiglio potranno disporre fino al 2016. E, dopo una lettura attenta, si scopre che la sproporzione tra spese elettorali e finanziamenti pubblici è gigantesca.
Prendiamo ancora il Pd. Il partito di maggioranza in Consiglio avrebbe speso 282.211 euro in campagna elettorale, ma alla fine del 2016 gli saranno restituiti (tutti soldi pubblici) un milione e 221mila euro (1.221.742). Cioè il 333% in più rispetto a quanto speso in campagna elettorale.
Lo stesso vale, naturalmente, per tutti gli altri partiti. Il Popolo delle Libertà, per esempio, ha rendicontato spese per un totale di 157.329 euro ma a fine 2016 ne avrà incassati circa il quintuplo, pari a 842.754 euro. Oppure il Centro Democratico di Tabacci (un solo seggio in Consiglio) che in campagna elettorale ha speso 4.941 euro per un ritorno statale di ben 65.518 (+1226%).
Da segnalare il Movimento 5 Stelle che – pur essendo stabilmente il terzo partito in Consiglio con 7 seggi (16%, pari a 467mila voti) – ha rinunciato ai rimborsi pubblici.
Fumata nera per il sito unico dei rifiuti radioattivi
Fumata nera per il sito unico dei rifiuti radioattivi
Deposito di scorie nucleari
Slitta il tanto atteso nulla osta del Governo alla Carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Attesa per il 20 agosto, la decisione è stata rinviata a data da destinarsi.
“Sono in corso ulteriori approfondimenti da parte dei due ministeri
competenti, ministero dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, per
rilasciare il nulla osta alla pubblicazione della lista”, riferiscono
alcune fonti all’adnkronos.
Unico indizio, per tentare di indovinare la sede prescelta, è quello
della incompatibilità del sito con le aree a rischio sismico. Questo
elemento riduce non di poco la sfera della scelta e dovrebbe far tirare
un sospiro di sollievo ad alcune regioni come quelle a ridosso della
dorsale appenninica. Escluse anche le aree a rischio esondazione e, più
in generale, quelle interessate da consistenti fenomeni di dissesto
idro-geologico.
Secondo il timing previsto, il disco verde doveva arrivare in questi
giorni. Pubblicati a giugno 2014 dall’Ispra i criteri per la
localizzazione del deposito nazionale, dopo sette mesi (gennaio 2015) la
Sogin ha trasmesso all’Ispra la proposta di Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito. A marzo, l‘Ispra
ha trasmesso la propria relazione ai ministeri dell’Ambiente e dello
Sviluppo Economico che, entro 30 giorni (cioè entro la metà di aprile),
avrebbero dovuto dare alla Sogin il nulla osta alla pubblicazione della
Carta. I due dicasteri hanno invece richiesto a Sogin e Ispra alcuni
approfondimenti tecnici da consegnare in 60 giorni.
Tra il 15 giugno e il 20 luglio, prima Sogin e poi Ispra, hanno
risposto rilanciando la palla ai ministeri che avevano 30 giorni di
tempo per autorizzare la pubblicazione della Carta revisionata: quindi
entro il 20 agosto.
Intanto impazza il toto-deposito e c’è da scommettere che la
decisione finale, come al solito nel nostro Paese, scontenterà un po’
tutti. A prevalere sarà ancora una volta la sindrome di Nimby (not in my back yard)?
Francesco Licastro
Il Parlamento tedesco ha approvato il terzo piano di assistenza alla
Grecia, di cui la Germania è il principale finanziatore e quindi
contemporaneamente il primo creditore. Atene è salva, per ora. La
Vecchia Europa no. Quella Nuova, poi, rinuncia ancora una volta a
nascere. Perché senza un vero condono - seppur parziale - dell’immenso
debito pubblico greco, fra tre anni l’Unione Europea si troverà di
fronte al medesimo bivio: prestare altri soldi alla Grecia o perdere un
Paese intero e frantumarsi. Il "sì" del Bundestag agli aiuti è
accompagnato infatti dal rifiuto a un taglio dell’onere debitorio che
impedirà alla Grecia di correre senza giogo per scrollarselo
autonomamente di dosso. Quale concessione massima, a Berlino, si parla
di un alleggerimento. Con il coinvolgimento categorico del Fondo
monetario. Ma quest’ultimo da mesi va dicendo che allungare
ulteriormente le scadenze o limare i tassi senza asportare una porzione
del fardello condannerà la Grecia alle inutili fatiche di Sisifo.
Anzitutto
una larghissima parte dei nuovi prestiti servirà per pagare i vecchi
debiti, delle banche e dello Stato, tornando nelle casse dei creditori,
Germania in primis. Così è stato per i 240 miliardi stanziati con i
primi due salvataggi, così sarà per i prossimi 86. Dopo sette anni di
recessione, con due miliardi di bollette non pagate soprattutto dalle
famiglie e il Paese allo stremo, per rilanciare l’economia reale -
turismo, commercio, industria e servizi - il governo di Alexis Tsipras o
quelli che seguiranno dovrebbero contare solo su risparmi (leggi tagli)
e privatizzazioni (leggi svendite, dagli aeroporti al Partenone).
Schiacciati comunque dall’eterno ritorno dell’identico macigno. Senza un taglio del valore nominale, poi, l’ulteriore estensione
delle scadenze e l’eventuale riduzione dei costi d’interesse - in questo
consiste l’alleggerimento sul quale ha aperto ieri il ministro delle
Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble - imporrebbe ad Atene tutele esterne e
austerità semi-perenne. La Vecchia Europa ha già concesso, infatti, due
alleggerimenti del debito, nel 2010 e nel 2012, tanto che l’interesse
medio che oggi la Grecia paga per gli aiuti ai suoi creditori è del
2,4%, lo 0,2% in più di quello tedesco o francese. La scadenza media,
inoltre, è già stata portata ben oltre i vent’anni. Per questo una
ristrutturazione limerebbe il costo solo di qualche briciola e
porterebbe sul lunghissimo termine a una riduzione del valore netto del
30%, non di più. Quanto basta ai creditori per incassare con certezza
gli interessi nell’arco di una generazione, troppo poco per risollevare
Atene. La Nuova Europa dovrebbe invece avere il coraggio di
pronunciare la parola condono. Quella resa impossibile, secondo i
tedeschi e molti altri Paesi nordici, dall’articolo 125 del Trattato di
Lisbona, diventato famoso negli ultimi mesi come "clausola di non
salvataggio". È la regola della Vecchia Europa che impedisce all’Unione
di sentirsi responsabile nonché di assumere impegni per i suoi stessi
Paesi membri. «Volere è potere», avrebbe però risposto Angela Merkel a
David Cameron quando a inizio estate il leader britannico ha chiesto di
riscrivere le regole dell’Unione in materia di immigrazione e pensioni.
Non si "vuole" invece salvare la Grecia e con la Grecia l’intera Unione?
Certo, c’è un prezzo da pagare in termini di mancati interessi per le
casse tedesche, francesi, italiane, e quindi per i cittadini di tutti i
Paesi creditori. Ma potrebbe essere il giusto sacrificio comune per la
Nuova Europa, che solo unita può contare ancora qualcosa a livello
globale. Altrimenti - come profetizza amaro Romano Prodi nell’intervista
di oggi ad "Avvenire" - rischia di morire d’inedia. Nel 1950 c’era un
solo Paese europeo fra i dieci più popolosi al mondo: la Germania. Oggi
non se ne conta alcuno e nel 2050 persino la Russia sparirà dalla
graduatoria, con gli Stati Uniti per la prima volta fuori dal podio.
Ragionando nel lungo termine, guardando cioè seriamente in faccia il
futuro, la Nuova Europa, quella davvero unita, potrebbe prendere il loro
posto.
La Germania, da sola, sarebbe condannata invece
all’insignificanza insieme ai suoi satelliti. Ieri il Parlamento tedesco
ha detto "sì" a salvataggio da Vecchia Europa, irrigidito dal timore
che al solo pronunciare la parola condono avrebbe alimentato i populismi
in altri Paesi debitori prossimi alle elezioni. Con un sussulto di
solidale spirito comune, la Nuova Europa dovrebbe mostrare la
lungimiranza politica di farla sua, quella parola che significa
solidarietà, prima delle elezioni tedesche. Per salvare la Grecia, per
cominciare a (ri)trovare finalmente se stessa.