”Il Front National non è più di destra, per questo può vincere”
Parla Marco Tarchi,
politiologo esperto di populismi, alla vigilia delle elezioni francesi:
«Il bacino elettorale dei populisti sono i “perdenti della
globalizzazione”: operai, disoccupati, piccoli commercianti. In Francia,
ma anche in Italia e in Spagna...»
Domenica si vota in Francia, per le elezioni regionali, a poche
settimane dai fatti del tragico Tredici Novembre. Nei sondaggi svettano
le due Le Pen, Marine e la nipote Marion. Linkiesta ne parla con il politologo Marco Tarchi, studioso di populismo, appena rientrato dalla Francia per alcune ricerche sul campo.
Professore, il parricidio politico di Jean Marie dunque non porta via consensi al FN, che potrebbe vincere in quattro regioni?
A quanto pare, no. La lite familiare – che in realtà ha un sottofondo
politico/ideologico consistente – ha sottratto al Front national un
certo numero di quadri intermedi e militanti, proseguendo ed ampliando
una diaspora che si era aperta al momento della successione alla
presidenza della figlia al padre nel 2011. Molti, fra i vecchi dirigenti
(ora quasi tutti fuoriusciti e confluiti in un piccolo partito
testimoniale, il Parti de la France, che ha scarse ambizioni elettorali
ed è più che altro un contenitore amicale), temevano infatti già allora
che Marine, dotata di ottime doti comunicative ma del tutto indifferenti
alle questioni di cultura politica, avrebbe progressivamente
abbandonato alcuni dei fondamenti ideologici del partito, spostandolo
decisamente dal retroterra di destra radicale con connotati populisti ad
un populismo puro e dichiarato. Così è avvenuto, dispiacendo ciò che
resta (ed è poco) dell’opinione pubblica cattolico-tradizionalista o
nostalgica di Vichy e dell’Algérie Française ma attraendo le fasce
dell’elettorato che ormai sono ovunque, in Europa, il bacino di consensi
delle formazioni populiste: operai, disoccupati, piccoli commercianti,
artigiani e altri gruppi sociali che vengono dipinti come i ‘perdenti
della globalizzazione’. Costoro sono molto più numerosi e sono
fortemente attratti dal discorso di un partito che, unico, si oppone da
sempre ai flussi migratori di massa dai paesi extraeuropei e contesta le
politiche dell’Unione europea, accusando quest’ultima di essere
strutturalmente succube della volontà dei circoli finanziari e
tecnocratici.
Quanto possono influire sul voto gli attacchi terroristici del 13 novembre?
Stando ai sondaggi, non molto (il FN era già molto in alto nelle
rilevazioni demoscopiche), ma abbastanza per consentire, forse, al
partito di Marine Le Pen di aggiudicarsi il governo di un paio di
regioni e di fare da ago della bilancia in un altro paio, costringendo
fra l’altro i sarkozysti – che non mi sembra il caso di continuare a
chiamare gollisti, perché da un pezzo si sono distaccati, nei fatti, da
molte delle idee dell’uomo cui continuano formalmente ad ispirarsi – e i
socialisti ad innaturali (ma probabili) alleanze, desistenze incrociate
o addirittura fusioni di lista fra il primo e il secondo turno nelle
regioni in cui si troveranno dietro le liste frontiste. Ciò non potrà
che portare acqua al mulino della propaganda del Front national, che da
anni denuncia la connivenza nell’Umps (cioè Ump, nome precedente degli
attuali Républicains, e Ps) di un ceto politico autoreferenziale, pronto
a tutto pur di mantenere il potere e i connessi vantaggi. Questa
critica tipicamente populista a ‘quelli che stanno in alto’ in nome di
‘quelli che stanno in basso’ sta trovando riscontri importanti nella
pubblica opinione. Tornando all’effetto degli attentati, era inevitabile
che favorissero una forza politica che da sempre si è distinta per i
suoi accenti allarmistici sui temi dell’insicurezza e del pericolo
costituito dalla crescita dell’estremismo islamico all’interno delle
comunità di immigrati.
La Francia sta diventando di destra, condividendo gli ideali
del FN, o è colpa di Hollande, apprezzato dai francesi per come ha
gestito la fase post-attentati ma non per il suo governo?
Se accettiamo convenzionalmente la distinzione sinistra/destra e si
colloca il Front national sul secondo versante (operazione oggi più che
mai discutibile, perché Marine Le Pen ha accentuato l’autodefinizione
‘ni droite ni gauche’ del partito di cui è a capo), si può dire che da
un pezzo la Francia è spostata verso destra. Già negli anni Ottanta, se
si fossero sommati i voti del FN a quelli delle liste golliste,
giscardiane e dei cosidetti ‘divers droite’, non ci sarebbe stata
partita con socialisti, comunisti, trotzkysti e via dicendo. Il rapporto
sarebbe stato – ed era, anche se i voti non erano cumulabili, per le
differenze reciproche e per la demonizzazione del Front da parte degli
altri partiti – 60 a 40, come minimo. Non credo che quel rapporto sia
sostanzialmente cambiato. Anzi: i guadagni del FN oggi sono più
ascrivibili alla netta virata a sinistra del suo programma e del suo
discorso pubblico sui temi economico-sociali (ma anche di politica
estera ed internazionali) che a una diretta concorrenza ai Républicains
sui temi tipicamente conservatori. Certo, l’insuccesso della presidenza
Hollande ha giovato al Front, ma anche i suoi avversari: al di là dello
scatto d’orgoglio del post-13 novembre, la sua azione e/o inazione di
questi tre abbondanti anni ha scontentato gran parte dei francesi,
facendogli toccare quote di impopolarità record per un presidente.
Che cosa significherebbe la vittoria del FN a queste regionali? E vede in Marion Le Pen il futuro di quel partito in Francia?
Sarebbe un fatto molto importante, perché indurrebbe i suoi attuali
sostenitori, ma anche altri potenziali simpatizzanti sin qui timorosi di
abbandonare le vecchie scelte nell’urna, a non considerare più persa in
partenza la competizione uninominale a doppio turno al momento delle
elezioni legislative. Sin qui il Front national, pur riscuotendo a
livello nazionale una percentuale di voti attorno al 15%, non è quasi
mai riuscito ad inviare in Parlamento propri deputati (attualmente ne ha
solo due, fra cui Marion), perché la formula voluta dal generale de
Gaulle lo schiacciava tra due poli, di sinistra e di destra, in grado di
sopravanzare i suoi candidati. Se le elezioni regionali lo
consacrassero primo partito di Francia e lo portassero attorno al 30%,
questa barriera psicologica si frantumerebbe e la stessa Marine Le Pen
acquisterebbe una maggiore caratura di presidenziabile (anche se
continuo a credere che sarà ben difficile, per lei, farcela nel 2017).
Quanto a Marion Maréchal-Le Pen, i dati anagrafici – ha 21 anni meno
della zia – e le qualità personali, sia di comunicazione che di
preparazione – paiono giocare a suo favore. È considerata più a destra
di Marine e non disdegna di vezzeggiare l’elettorato
cattolico-conservatore, ma fin qui ha evitato di farsi strumentalizzare
da chi vorrebbe contrapporla frontalmente all’attuale leader del
partito. Se diventerà presidente della regione Provenza-Alpi-Costa
Azzurra, ampliata dal recente ridisegno amministrativo voluto da
Hollande, la sua visibilità crescerà ancora. Già ora ha aperture di
credito da altri esponenti della destra tradizionale (di recente
Philippe de Villiers, che alcuni vorrebbero mettere sulla strada di
Marine nelle prossime presidenziali, per rosicchiarle un importante
2-3%, ha dichiarato che, se fosse un elettore della sua circoscrizione,
voterebbe volentieri per lei) su cui la zia non può contare. Bisogna
vedere se saprà tenere a freno le sue ambizioni per il tempo necessario a
renderle credibili.
In Spagna, invece, a breve ci saranno le elezioni politiche.
La stella di Podemos sembra essersi appannata. Troppo populismo logora
chi ce l’ha?
Forse sì, soprattutto se è un populismo incompiuto o ambiguo. Sebbene
Pablo Iglesias, assurto a figura mediatica di riferimento di Podemos,
abbia dichiarato ripetutamente che oggi il vero spartiacque politico non
è tra sinistra e destra ma tra chi sta in basso e chi sta in alto, il
suo partito non si è sbarazzato di quell’immagine di sbilanciamento a
sinistra che gli deriva dal retroterra di quasi tutti i suoi esponenti
(perlopiù comunisti o transfughi da Izquierda Unida) e dal richiamo al
movimento degli Indignados. E, per questo, non si è inserito in quello
che il politologo francese Dominique Reynié (fra l’altro candidato a una
presidenza di regione per Les Républicains e fervido avversario del
Front national) ha descritto come il filone vincente del populismo
europeo, definendolo ‘populismo patrimoniale’. Quel modello esige di
accoppiare la difesa del livello di vita economico-sociale della
popolazione alla difesa del suo modo di vita, ovvero delle sue
tradizioni e dei suoi connotati etno-culturali. Non potendo né volendo
scendere su questo terreno, perché la formazione dei suoi dirigenti gli
rende impossibile scendere sul terreno della polemica anti-immigrati e
del richiamo identitario, Podemos si è tagliato fuori da una platea
importante di potenziali sostenitori, che è poi quella in cui attinge
consensi il suo contraltare ‘di destra’, ovvero Ciudadanos.
A proposito di populismo. Secondo lei sarà questa la chiave
di lettura dello scontro politico italiano dei prossimi mesi, fino alle
elezioni politiche (quando ci saranno), cioè un duello permanente fra lo
stile populista di Renzi e il populismo tout-court di Beppe Grillo?
Finché la classe politica italiana farà di tutti per continuare a
meritarsi gli strali di ampi strati della pubblica opinione, non vedo
alternative, anche se la Lega è un notevole terzo incomodo in questa
gara a chi sfrutta meglio le risorse, oggi molto apprezzate, del
populismo. Il centrodestra, per il momento, non mi pare si possa
reinserire nel gioco, aggrappato com’è alla stella quanto mai calante di
Berlusconi e nell’incapacità di produrre proposte e programmi che non
siano una rimasticatura di ritornelli del passato, ormai logori. Senza
una nuova classe dirigente, una nuova immagine e contenuti più chiari e
convincenti, l’aggregato alquanto eterogeneo che i sondaggisti
suppongono possa coagularsi in un listone ad uso dell’Italicum avrebbe
poche chances di successo. Per non parlare di Sinistra italiana e
simili, che pagano l’incapacità di opporsi efficacemente a Renzi da due
anni a questa parte e rischiano di trasformarsi nell’ennesimo
partitino-simulacro a vocazione poco più che testimoniale. Infine, non
va trascurata la trasmutazione del Movimento Cinque Stelle, che sta
liberandosi dell’identificazione con il ‘grillismo’ ma deve ancora
trovare una rotta di azione politica univoca. Ci riuscirà? E che strada
prenderà? Emanciparsi dal discorso politico di Grillo può piacere ad un
elettorato progressista ormai deluso dal Pd e dai suoi sfidanti di
sinistra, ma comporta il rischio di deludere l’elettorato che nel
discorso puramente e pienamente populista del fondatore e portavoce del
movimento si rispecchiava volentieri. Staremo a vedere come questo non
facile processo evolverà.
E Salvini? Che fine rischia di fare? Era partito bene, ma
adesso sembra che abbia smarrito la rotta. Può ancora avere chance di
sfidare Renzi alle Politiche?
Non sarei così scettico. I sondaggi, specie dopo gli eventi parigini,
accreditano la Lega di intenzioni di voto attorno al 16%, che la pongono
in posizione di forza nei confronti degli interlocutori di
centrodestra. Certo, a Salvini si pongono ora di fronte varie sfide. C’è
da vedere se la sua evidente svolta ‘nazionale’ porterà a un vero new look,
con l’abbandono dell’articolo dello statuto che ancora pone come
obiettivo l’indipendenza della Padania, e se questa eventuale
innovazione riuscirà a non scontentare troppi vecchi sostenitori e ad
aprire una breccia oltre la Linea Gotica. E c’è il problema di come non
risultare penalizzati dall’abbraccio elettorale con quel centrodestra
che prima ho descritto, la cui immagine certamente non risulta attraente
per gran parte degli attuali sostenitori del Carroccio. Insistere su
una linea propria, specifica, senza troppo concedere ai partnerspiù o
meno occasionali sarebbe, a mio avviso, opportuno per Salvini e i suoi.
twitter @davidallegranti