Neocapitalismo, alienazione e guerra
di Eugenio Orso
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Il vecchio capitalismo industriale, dalla prima rivoluzione alla “riforma”
keynesiana e al dopoguerra, era sostanzialmente reattivo, nel senso che si attivava e
si trasformava solo davanti a minacce serie alla sua riproduzione, come ad esempio
la crisi di fine ottocento, le lotte proletarie (dentro e fuori dal capitalismo), la crisi
del ’29, la concorrenza del collettivismo sovietico. Se l’orizzonte fosse stato
sgombro da minacce e pericoli, il capitalismo produttivo della prima rivoluzione
industriale avrebbe continuato indefinitamente per la sua strada, a braccetto con
l’alta borghesia proprietaria. Il neocapitalismo a vocazione finanziaria, invece, è
pro attivo, nel senso che anticipa la minaccia, la debella e consolida la sua presa sul
mondo. Per questo i suoi agenti strategici hanno iniziato da tempo, con successo, la
lotta all'espansione del welfare e ai diritti dei lavoratori in occidente (guerra di
classe a senso unico), hanno fomentato ad arte le “bolle” sui mercati finanziari,
hanno circondato minacciosamente con le armi della Nato, i mercenari e i terroristi
la Russia, hanno provocato guerre devastanti nello scacchiere medio-orientale,
eccetera.
Lenin aveva individuato nell'imperialismo lo stadio finale del capitalismo, essendo
l’imperialismo qualitativamente diverso dal capitalismo e potendo esistere un
capitalismo privo di lineamenti imperialisti. Analisi corretta la sua (stiamo
evocando un grande), ma non definitiva, valida da qui all'eternità, perché
Eugenio Orso, 30 dicembre 2015
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l’imperialismo ai tempi del teorico (e pratico) rivoluzionario russo è diverso, nei
fondamenti, dall'attuale imperialismo. Così è quello che io definisco “imperialismo
finanziario privato”, non legando indissolubilmente, ad aeternum, le sue fortune e
la sua capacità di dominio a una specifica e sovrana potenza statuale, come gli Stati
Uniti d’America piuttosto che la declinante Gran Bretagna. La dimensione
sopranazionale, vigilata e organizzata dagli organi della mondializzazione, è il suo
elemento, privo di confini, libero da pericoli, come ad esempio la fastidiosa
sovranità degli stati, che vorrebbero metter sotto il sistema bancario e garantire la
protezione dell’industria nazionale. Uno spazio globalizzato in cui è impossibile
che la politica riporti l’economia, debitamente finanzia-rizzata, sotto il suo controllo.
Al contrario, sono proprio i “Mercati e Investitori”, secondo una nota espressione
giornalistica, a controllare la politica e le sue decisioni strategiche.
Guerra, crisi economica, ideologia e struttura neocapitalista
Se Lev Trockij, che fu con Lenin e organizzò l’Armata Rossa, scrisse Guerra e
internazionale (1914, se la memoria non mi tradisce), oggi qualcuno dovrebbe
prendersi la briga di scrivere Guerra e globalizzazione, naturalmente economico-finanziaria.
La mia non è una battuta fine a se stessa, perché gli apostati del
comunismo e gli eredi infedeli della sinistra sono passati in massa, nel corso degli
ultimi due decenni del novecento, agli apparati ideologico-mediatici e accademici
neocapitalisti, sostituendo all'internazionale proletaria la globalizzazione
economica. Nonostante il respiro planetario, comune all'internazionale proletaria e
alla globalizzazione di matrice neoliberista, le abissali differenze le può notare
anche un comune frequentatore di bar sport. Costoro, per servire con zelo il nuovo
padrone, hanno persino inventato la clamorosa balla della “globalizzazione dei
diritti”, tipicamente sinistroide e fuori dall'ordine del possibile, che avrebbe dovuto
ammorbidire le durezze e correggere le crescenti ingiustizie dell’economia
mondiale. Questo mentre la globalizzazione realmente esistente distruggeva i diritti
dei lavoratori in occidente, usava lavoro schiavo o semi-schiavo nei paesi cosiddetti
emergenti (le aeree di libero scambio, in Cina, nei paesi detti “tigri asiatiche”
minori e altrove) e con un mix di crisi economiche e guerre “a bassa intensità”,
come le chiamano ipocritamente militari, politici, giornalisti e intellettuali,
estendeva il potere delle élite finanziarie. L’apporto d’intellettuali, giornalisti, politici e accademici, apostati del marxismo e
sinistroidi, venduti non più a Mosca (secondo una battuta dei tempi di Peppone e
Don Camillo), ma alle City finanziarie dominate dai Mercati e dagli Investitori, è
stato molto importante da un punto di vista ideologico, del costume e degli stili di
vita omologati, negli ultimi tre decenni, contribuendo a legittimare il modo di
produzione neocapitalista.
L’economia (neo)liberista, compendiata dal liberalismo democratico sul piano
politico, non una è scienza, ma soltanto ideologia. Infatti, se prendiamo la teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes e invertiamo
l’ordine dei fattori, l’intera somma cambia, a differenza di ciò che accade in
matematica. Anteponendo all’occupazione, cruciale per il baronetto inglese,
l’interesse e la moneta, ci troviamo di colpo proiettati nell’attuale economia
globalizzata di matrice neoliberista, non più in un sistema economico nazionale con
assistenza sociale diffusa, iniziativa economica di stato e (perché no?) lineamenti di
“keynesismo militare”.
A differenza di ciò che credeva Marx in relazione agli aspetti ideologici, io sostengo
che la cosiddetta ideologia di legittimazione di un modo storico di produzione, per
la sua crucialità non sia elemento sovra-strutturale, come la moda o l’arte, ma faccia
parte a pieno titolo della struttura, che sia, cioè, non una semplice parete divisoria
in cartongesso, ma un muro maestro della costruzione, senza il quale l’intero
edificio rischierebbe di crollare.
Guerra “a pezzi” e crisi economica endemica rappresentano gli esiti catastrofici, per
i popoli, del neocapitalismo dominante. Il nuovo capitalismo finanziarizzato –
scrissi tempo fa – è come un grande squalo pelagico, simile al pinna bianca
oceanico, che per non morire di asfissia non può fermarsi, adagiandosi sul fondo
per dormire, e perciò dev’essere sempre in movimento. Ciò comporta la
velocizzazione della creazione del valore, azionaria, finanziaria e borsistica, con la
conseguente moltiplicazione di “prodotti finanziari” e soprattutto di bond
spazzatura e tossici (fino a oltre le dieci volte il Pil mondiale), ma comporta anche,
per placare la fame dello squalo, il susseguirsi di crisi economiche, giustamente
definite strutturali, e l’uso della destabilizzazione di interi paesi trascinati negli
inferi della guerra (anche se “a bassa intensità”). I focolai di resistenza, effettivi e
potenziali, devono essere eliminati, possibilmente giocando d’anticipo, e per questo motivo esplodono “bolle” finanziarie in occidente, si abbassa il prezzo del petrolio
per danneggiare la Russia resistente e scoppiano guerre in paesi che rappresentano,
o potrebbero rappresentare, un problema per le élite neocapitaliste. Il mostro
nuovo-capitalista è sempre in movimento e, come chiarito in precedenza, è sempre
pro-attivo, non semplicemente reattivo come lo era il suo ascendente, cioè il
capitalismo industriale del secondo millennio.
Per aumentare il valore artificialmente creato si può far esplodere la “bolla” High
Tech (esemplifico a caso), oppure destabilizzare un paese non ancora sotto
controllo, che si vuole neutralizzare o controllare in futuro assieme alle sue risorse
energetiche, come ad esempio la Libia. Se lo stato di crisi economica diventa un
“assetto permanente”, così anche la guerra (almeno per ora) “a pezzi” e non
mondiale è “infinita”, esattamente come quella “al terrore” dichiarata nel 2001 da
Bush figlio il cretino, ispirato e manovrato dai neocon. Le cosiddette rivoluzioni
colorate, orchestrate e supportate dall'occidente, in diversi casi sono fallite e non
hanno raggiunto l’obbiettivo, come quella verde Iraniana fra il giugno 2009 e lo
stesso mese nel 2010, che aveva quale pretesto la rielezione, con sospetto
d’irregolarità, dell’allora presidente Mahmud Ahmadinejad. Ecco che si è passati
con decisione, oltrepassando qualsiasi limite imposto dall'etica e dalla stessa
ragione, alla destabilizzazione nelle forme più violente e sanguinose, ben oltre le
rivoluzioncelle twitterate appoggiate dalle Ong, infarcite di “diritti umani” e
democrazia esportata, provocando vere e proprie guerre civili e inondando il
campo di mercenari stranieri, come accaduto in Siria, paese sottoposto a un
martirio violentissimo e senza fine. Quella che io chiamo l’asse del male e della
guerra endemica, con gli Stati Uniti in testa, la Nato, le monarchie islamosunnite
del Golfo, la Turchia e Israele, è uno strumento nelle mani della classe globalfinanziaria
occidentale, per imporre la sua “lex de imperio neocapitalista” al
mondo. Crisi economica strutturale e guerra infinita a pezzi (secondo alcuni
“geopolitica del caos”, che sarebbe possibile addirittura controllare) sono elementi
strutturali del modo di produzione neocapitalista, senza i quali la costruzione non
potrebbe reggere a lungo. Il vecchio imperialismo ai tempi di Lenin era sicuramente
guerrafondaio, ma oggi, credetemi, è mille volte peggio.
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