Attentati di Parigi: una storia che inizia nel 2003
18 NOVEMBRE 2015
Quanto è accaduto venerdì 13 novembre a Parigi viene da lontano, è il risultato di una velenosa miscela sobbollita a lungo nel calderone mediorientale. Il primo ingrediente è ovviamente l’invasione dell’Iraq nel 2003, parte di un’idea di “Secolo Americano” che il consigliere di Bush, Richard Haas descriveva così: “Questa è una rara opportunità per gli Stati Uniti e per il mondo (…) per modellare il corso del XXI secolo e creare un pianeta che sia caratterizzato in misura stupefacente da pace, prosperità e libertà per la maggior parte dei paesi e dei popoli”.
In linguaggio benevolo, Haas descriveva la road map per un impero americano che si rafforzasse nonostante il declino economico e l’emergere di nuove potenze come la Cina (non a caso l’autore scriveva: “L’economia americana dipende sempre più dalla volontà di governi e istituzioni straniere di mantenere le loro vaste riserve in dollari”). Oggi, naturalmente, non solo sappiamo che questo progetto è fallito ma che il bilancio umano, sociale, economico delle due guerre iniziate da George W. Bush è catastrofico, per gli Stati Uniti e per il mondo, provocando tra le altre cose la radicalizzazione di migliaia di giovani musulmani da Karachi fino alle periferie di Parigi e di Bruxelles. Una previsione fatta nel 2003 dal ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin all’Onu: l’invasione dell’Iraq avrebbe avuto “conseguenze incalcolabili”.
Il secondo ingrediente tossico negli attacchi di Parigi, reso evidente dal fatto che tutti gli attentatori erano francesi o belgi, è il serbatoio di rabbia sociale costituito dalle periferie-ghetto dove sono cresciuti Omar Ismail Mostefaï, Samy Amimour e i fratelli Hadfi, così come i fratelli Saïd Kouachi e Chérif Kouachi, autori dell’attacco contro il settimanale Charlie-Hebdo nel gennaio scorso e il loro complice Amedy Coulibaly, responsabile dell’attacco a un supermercato kosher negli stessi giorni: tutti nati e cresciuti in Francia.
Naturalmente, televisioni e i giornali dimenticano che esattamente dieci anni fa ci fu una rivolta di massa nelle banlieues, che coinvolse decine di migliaia di giovani di origine algerina o marocchina ma cresciuti in Francia ed esasperati dalla mancanza di rispetto, di lavoro, di prospettive. Tutti “mostri psicopatici”? Ovviamente no: è stata la scelta della strada della sola repressione poliziesca (comune ai governi di destra e di sinistra) a far marcire ulteriormente la situazione e a far emergere qualche centinaio di potenziali terroristi a cui lo Stato Islamico ha dato un’idea cui ispirarsi.
Il terzo fattore con cui occorre fare i conti è la maggiore aggressività di due potenze regionali che un tempo gli Stati Uniti tenevano sotto controllo: Arabia Saudita e Turchia. Chi oggi invoca bombardamenti a tappeto per combattere il califfato dovrebbe cominciare dal chiedere conto alla monarchia saudita o al regime repressivo di Erdogan dei loro finanziamenti, aiuti logistici, compiacenze e altri favori inconfessabili elargiti negli ultimi anni all’Isis. In odio al regime repressivo ma laico della Siria, e alla crescente autonomia dei curdi, la Turchia ha protetto e facilitato l’espansione delle milizie di al-Baghdadi. Quanto all’Arabia Saudita e agli emirati del Golfo, il loro sostegno all’Isis fa parte della “guerra dei trent’anni” contro il regime religioso, ma sciita, dell’Iran.
Se prendiamo insieme queste tre dimensioni della catastrofe parigina, appare chiaro che nessuna delle risposte emerse in questi giorni ha senso. La Francia può continuare a bombardare Raqqa, gli Stati Uniti possono intensificare l’uso dei droni e aumentare le operazioni di commando nel nord dell’Iraq e della Siria ma non ci saranno operazioni su larga scala perché la maggior parte dei politici americani ha tratto una solida lezione da ciò che è accaduto dal 2003 in poi: l’opinione pubblica non ama le guerre senza fine. Ancor meno serviranno lo stato di emergenza per tre mesi in Francia o i cambiamenti costituzionali evocati da Hollande (e di cui De Gaulle non ebbe bisogno quando si trattò di sconfiggere il sanguinario terrorismo dei fanatici contrari all’indipendenza algerina).
Ciò che servirebbe è l’opposto: costringere gli “alleati” turchi e sauditi a scegliere da che parte stare, smettere di provocare morti civili con gli attacchi aerei, pazientemente ricostruire un dialogo con i giovani francesi dai quali la Francia si è fatta odiare.
Fabrizio Tonello
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