L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

martedì 31 maggio 2016

Afghanistan - da ottobre del 2001 abbiamo creato profughi e ancora occupiamo quelle terre senza prospettive, senza progettualità

Mondo \ Asia e Oceania
Amnesty: oltre un milione di sfollati dimenticati in Afghanistan 



31/05/2016

Di guerre si parla soprattutto in termini di scontri armati, di morti e feriti e di negoziati di pace che falliscono. E’ il caso della guerra che insanguina l’Afghanistan, Paese tormentato dalla nascita della prima Repubblica nel 1973 all’abbandono nel 1989 dell’Unione Sovietica, che lo aveva invaso 10 anni prima, all’intervento nel 2001 degli Stati Uniti a capo di una coalizione internazionale per debellare il regime dei Talebani - ad oggi, senza mai ritrovare stabilità politica. Protagonisti involontari di questo dramma sono le persone che fuggono da insicurezza e violenza, come evidenzia un rapporto diffuso oggi a Kabul da Amnesty International. Roberta Gisotti ha intervistato Riccardo Noury, portavoce in Italia dell'organismo umanitario:



R. – Violenza e instabilità che, negli ultimi tre anni, hanno più che raddoppiato il numero dei profughi interni: erano mezzo milione nel 2013 e quest’anno abbiamo registrato un totale di un milione e 200 mila, che vivono in condizioni miserevoli, dimenticati da tutti, in una situazione – quella complessiva dell’Afghanistan – che sembra essere sempre meno prioritaria per la comunità internazionale.

D. – Sappiamo, poi, che un numero rilevante è fuggito all’estero…

R. – Si calcola che siano 2 milioni e 600 mila gli afghani che vivono oltre confine: molti di loro vivono in Iran, altri – quelli che riescono ad arrivare ad ottenere asilo – trovano riparo in Europa, ma sono piccoli numeri. Sommati con il milione e 200 mila di profughi interni abbiamo quasi 4 milioni di afghani che non sono più nelle loro case, con prospettive di futuro decisamente scarse.

D. – Lei ha detto che sembra non interessare più la situazione di questo Paese alla comunità internazionale. Qual è l’ipotesi?

R. – Certamente la comunità internazionale, al di là degli aiuti economici che sono stati dati, non è sembrata preoccuparsi dei gruppi più vulnerabili. Penso a quante volte durante i negoziati tra il governo afghano e i talebani è stata usata proprio la condizione delle donne come merce di scambio: la pace in cambio di un ruolo sempre più subordinato delle donne. Per quanto riguarda i profughi interni, c’è la sensazione che essi siano abbandonati a loro stessi. Il governo di Kabul - nel 2014 - aveva adottato un piano nazionale per i profughi interni, salutato con grande entusiasmo dalla comunità internazionale: un piano che è fallito anche a causa della corruzione, ma che è fallito nei suoi obiettivi di dare un lavoro, di dare istruzione a tutti. Oggi nelle città afghane troviamo bambini che mendicano per trovare qualcosa di cui sopravvivere e tornare la sera con quei pochi spiccioli nel campo profughi…

D. – Non bisogna stancarsi di denunciare realtà che sono proprio all’ordine del giorno, anche se lontane…

R. – Oggi pare che l’unico obiettivo sia quello di assicurare il fatto che l’Afghanistan abbia una sua stabilità e non costituisca una minaccia per l’esterno. Il problema è, invece, la minaccia che continua a incombere su questo milione e 200 mila profughi interni, a cui dobbiamo aggiungere quei 2 milioni e 600 mila che stanno all’estero e che vorrebbero tornare nel Paese, ma che non ci trovano le condizioni per poter tornare.

D. – Forse l’alleanza tra organizzazioni umanitarie che lavorano sul campo e media dovrebbe essere più forte?

R. – Sì, perché quando si fa conoscere un dramma dopo l’altro di questi ‘dimenticati’ in parti di mondo che sono una ‘periferia buia’ si ottiene già un risultato… Certo, l’idea che alla fine siano gli organismi per i diritti umani e i mezzi di informazione a dover assumere l’onore di dover risolvere una situazione, dopo averla portata alla luce, questo sarebbe veramente eccessivo!

D. – Intendevo più forte per fare le giuste pressioni sulla politica, che dovrebbe essere al servizio dei popoli…

R. – Sì, queste sono pressioni che è importante fare e per questo naturalmente il ruolo dell’informazione è rilevante, così come quello delle tante organizzazioni per i diritti umani, anche quelle locali, quelle afghane, quelle partner di Amnesty International, che sono poi quelle che vanno incontro ai bisogni fondamentali come cibo, acqua da parte dei profughi. 
 

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