L’intervento. Brexit è (anche) la reazione dei popoli all’Ue turbo-capitalista
Pubblicato il 27 giugno 2016 da Franco Cardini*
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Esteri
Ecco:
questa è la vita. A settantacinque anni già quasi trascorsi, ti accorgi
non solo che – come diceva Eduardo – gli esami non finiscono mai, ma
soprattutto che non s’impara mai abbastanza. Quando credi che il senso della storia, almeno quello, sia quasi a portata di mano, ecco l’Augenblick di
Goethe, l’Imponderabile di Pareto, l’Evento di Braudel che ti arrivano
addosso e scompigliano le solide conquiste di “lunghe” e “brevi” durate.Ecco:
questa è la storia. Un paio di giorni fa, nella fatidica notte del 24
giugno scorso – la solstiziale Notte di San Giovanni, che nel folklore
europeo è quella “delle streghe” come l’Halloween (che poi, a sua volta,
è la venerabile notte di Ognissanti) – ho vegliato febbrilmente
attaccato all’apparecchio TV seguendo passo passo le notizie che
arrivavano dall’Inghilterra. A tarda notte l’affermazione del Bremain
era netta, sia pur di un’incollatura: e Nigel Farage, il leader della
UKIP dall’improbabile albionica cravatta rosa, dichiarava con mesta
fierezza che in fondo era solo una battaglia perduta, che la guerra
continuava e che il partito sarebbe cresciuto comunque. D’altra parte,
un annunzio trionfale da parte delle Borse informava che le piazze
continentali avevano guadagnato 190 miliardi e che la sterlina volava.
Ma la notte era giovane…
Di primissimo mattino, ubriaco di stanchezza e senza troppo credere a
quel che stava accadendo e che avevo visto con i miei increduli occhi,
vale a dire l’affermazione del Brexit, sono uscito a caccia di
cappuccino, cornetto e carta stampata. E mi sono d’un tratto sentito
molto più vecchio di quanto non sia: mi sono reso sul serio conto che
sono un relitto dell’altro secolo, quello splendido e terribile delle
due guerre mondiali, dei totalitarismi, degli stadi, delle sale
cinematografiche piene del fumo azzurrino di migliaia di sigarette, del
calcio e del ciclismo, delle rotative e della carta stampata. Tutto
questo mondo è irrimediabilmente finito: il web ha polverizzato
le rotative; informatica e telematica hanno distrutto l’impero temibile
della stampa, quello a suo tempo magnificato da Humphrey Bogart
(“Questa è la stampa, baby; e tu non puoi farci niente…”). Crollo
definitivo di un mondo: ch’era, che resta il mio.
Nella luce dell’alba estiva, quel 24 giugno, ho fatto
sadomasochistica incetta dei giornali ancora odorosi d’inchiostro, che
recavano in evidenza titoli come: “Farage ammette la vittoria dell’UE”
oppure “Le Borse volano, trionfo dell’Europa”. Quotidiani febbrilmente
scritti nottetempo, usciti un’ora prima e già carta straccia: tutte le
TV e tutti i nostri computers ci parlavano un linguaggio ben diverso.
Con disorientamento di noialtri europeisti e gioia facinorosa di tutti i
contras. A Londra gli ultraconservatori e i laburisti del mio
amato Jeremy Corbin, improbabili alleati nel sostenere molto
tiepidamente il Bremain, si trovavano spiazzati. Ma più in crisi ancora
erano quelli che alla fine, dopo lunga esitazione, si erano adattati
all’idea di una vittoria del Remain sul Leave sia pure per
un’incollatura: valga per tutti l’esempio di Beppe Grillo, che proprio
la sera prima aveva abbandonato antichi e recenti bollori antieuro per
pubblicare sul suo blog il messaggio che “il Movimento Cinque Stelle si
sta battendo per trasformare l’UE dall’interno”, aperto magari all’idea
di un’Europa a due velocità con alcuni paesi accodati all’egemonia
germanica e ancor più privati di sovranità economico-finanziaria e altri
aggruppati secondo princìpi di più blanda conduzione.
Il
mutamento aveva proceduto lento ma inesorabile, dalla notte all’alba,
sull’onda dei fusi orari. Giappone e Cina, allorché il sole cominciava a
sfiorare i loro orizzonti, si erano solo lentamente resi conto che
qualcosa stava cambiando. Ma quando l’alba era giunta ad arrossare i
cieli di Milano e di Parigi, il malanno si era ormai compiuto. Un
terremoto. Giù la sterlina, oltre i limiti storici; su il dollaro; alle
stelle il bene-rifugio per eccellenza, l’oro. Almeno sarà un bene per le
esportazioni, si mormorava sull’altra sponda della Manica. Magra
consolazione, anche perché l’Inghilterra non esporta più granché.
Tragedia invece per le importazioni e per i salari. E soprattutto
incertezza. Che ne sarebbe stato, che ne sarà, del destino di tanti
europei non-inglesi, addormentatisi la notte del 23 ancora concittadini
dei britannici e svegliatisi all’alba del 24 ormai stranieri, uno
spagnolo e un italiano e un polacco ormai no citizen esattamente
al pari di un senegalese? Che ne sarà del confine di Calais, soggetto
forse quanto meno a una necessaria ridefinizione ora che non è più
coperto dal partenariato di due membri dell’Unione?
Certo, se Atene piange può anche darsi che rida Sparta: ma non è
detto, e soprattutto non si sa per quanto tempo. Il 24 giugno ha segnato
per le destre francesi la fine d’una lunga inimicizia che datava dal
medioevo e che, attraverso san Luigi e la guerra dei Cent’Anni era
arrivata fino a Napoleone e oltre: Marine Le Pen ha adornato
festosamente il suo blog di una bella Union Jack mentre
nell’aggrondata Edinburgo, dove i vessilli unitari britannici sono
sempre stati scarsi, le bandiere azzurro-stellate dell’UE sono rimaste a
lungo al loro posto, accanto a quelle decorate dalla bianca croce di
Sant’Andrea. Matteo Salvini si è affrettato a parafrasare il motto dei
fratelli Rosselli con uno stentoreo “Oggi in Inghilterra, domani in
Italia”.
Ma intanto l’ondata recessiva è certa: e i fautori del Brexit hanno
un bel dire che si tratta di un fenomeno fisiologico anziché patologico e
che sarà di contenuta intensità. Certo, si aspetta con apprensione – ma
qualcuno ci spera – l’Effetto Domino. Che cosa succederà in un’Europa
nella quale il fronte antiunitario si va allargando mentre l’incerta
Slovacchia si appresta ad assumere il suo semestre di presidenza?
Intendiamoci: la questione non è emozionale, tanto è vero che il
problema dei migranti, che senza dubbio è stato una delle componenti
della vittoria del Brexit, è sentito con maggiore riguardo nei confronti
degli europei che non degli asiatici (molti, ma spesso provenienti dai
paesi del Commonwealth) o degli africani (che non sono troppi). Ora, più
che un’uscita dei singoli paesi dall’Unione, si teme una serrata
sequenza di riposizionamenti. Il movimento spagnolo di Podemos, ad
esempio, poggia le basi del suo successo non sulla suggestione del
Brexit bensì sulla disoccupazione giovanile ormai ascesa al 60%. Anzi,
possiamo dire che il fronte antieuropeista ha largamente influenzato
l’opinione pubblica britannica, mentre questa non ha influito su quello
se non come riprova della necessità di un cambio di rotta. E non senza
discriminazioni. In Austria, ad esempio, all’indomani delle elezioni del
22 maggio che avevano segnato la sconfitta dei “neonazi-antieuro” della
FPŐ si era timidamente parlato di brogli elettorali: ma subito
all’indomani del 24 giugno il problema è stato riesumato, e da parte di
personaggi di sinistra insospettabili di simpatìe hitleriane.
Eppure,
passato lo sconcerto, alcuni timidi segnali darebbero quasi a credere
che la lezione inglese potrebb’essere salutare. Non bisogna affrettarsi
ad attribuire la vittoria di Brexit e l’eco favorevole suscitata in
certi ambienti solo a un antieuropeismo frazionistico, micronazionalista
e xenofobo. C’è dell’altro: e lo si sta notando tanto in certe aree del
PD, anche intorno a Renzi e nelle sue stesse dichiarazioni quanto in
ambienti del Movimento Cinque Stelle alcuni esponenti del quale – al di
là dell’opportunismo grillino – hanno sottolineato come la disaffezione
dell’opinione pubblica per le istituzioni comunitarie sia radicata su
solide e drammatiche basi economiche, fiscali, finanziarie e in ultima
analisi sociali. Troppo a lungo la politica dei partiti leader europei
si è omologata sui parametri del liberismo e delle privatizzazioni:
troppo a lungo si è favorito, o quantomeno tollerato, l’eccessiva
concentrazione della ricchezza, l’abnorme allargamento della
proletarizzazione sotto forma di disoccupazione e di precariato, il
preoccupante assottigliamento dei ceti medi e il loro relativo
impoverimento. Per i Cinque Stelle, la “scoperta” di questo
“nuovo” (?!) fronte sociale potrà sembrare la scoperta dell’acqua calda,
ma potrebbe segnare il passaggio delle loro opinioni diffuse dal
livello dei discorsi da Bar dello Sport a quello di una più matura
coscienza politica. Sono i temi dell’austerità e della flessibilità a
esser candidati a una necessaria e non dogmatica né timida verifica. Al
tempo stesso, dal momento che la radice dei mali dell’Europa è non solo
socioeconomica e sociofinanziaria, ma altresì politica – e non tocchiamo
qui il tasto dolente e silenzioso della cultura –, si rende necessario
un rilancio appunto della politica stessa, a tutto campo, non escluso
(anzi, primario) lo spinoso tema della politica estera e delle alleanze
internazionali: senza timore di rimettere in discussione lo stesso dogma
dell’appartenenza alla NATO e delle sue condizioni (perfino Hollande è
tornato a parlare di un “esercito europeo”, sia pur in termini ambigui e
allarmanti). L’Europa delle élites, quella che ha crocifisso
il popolo greco per salvare le banche tedesche e francesi trasformando
con un gioco di prestigio i crediti in debiti e viceversa, può e magari
addirittura deve esser messa finalmente in discussione: lo ammette anche
un economista come Jean-Paul Fitoussi, che pure non è esattamente uno
di sinistra, e che propone un atto di coraggio come un Eurobond non già
in quanto misura economica bensì in quanto affermazione etica, atto di
fede in un’Europa che può salvarsi se accetta di riformarsi
profondamente. Ma si può sperare in una seria rinascita europeistica
all’interno dell’Eurolandia, con una banca centrale Europea in mano a
privati? I Cinque Stelle, uscendo dal Bar dello Sport, si vanno oggi
confrontando con l’ipotesi della rinascita delle proprietà e delle
gestioni pubbliche: un linguaggio che a sinistra era da tempo desueto.
Ma dev’esser chiaro che senza la costruzione di una coscienza civica
europea (quella che a cominciare da mezzo secolo fa le scuole dei
singoli paesi aderenti avrebbero dovuto costruire) non si va da nessuna
parte. E’ questo che deve capire anche Renzi, mettendo la sordina a
quanto gli vanno da troppo tempo sussurrando alle orecchie i suoi
consiglieri lobbisti, lasciando da parte iChief Executive Officiers che
lo attorniano con le loro false competenze e i loro masters fasulli e
tornando a rilanciare la politica come centro della vita sociale. Del
resto, la storia e la cultura contano sempre: possiamo anche ignorarle,
ma loro si ricordano di noi. Il Brexit ha vinto anche perché in ogni
buon britannico sonnecchia la solida consapevolezza di un’europeicità
profonda certo, ma accompagnata (e sotto molti profili “corretta”) da
un’altra appartenenza, quella al Commonwealth, che almeno dal
Cinquecento è stata alla base della coscienza identitaria del Regno
Unito in quanto Leviathan dominatore dei mari, contrapposto al Behemoth
continentale. Non si dimentichi mai la lezione del mirabile Il Nomos della Terra
di Carl Schmitt, che dovrebb’essere la Bibbia di ogni europeista
cosciente di esser tale e degno di questo nome. Altrimenti si confonde
l’Europa con l’Occidente e la Modernità: ch’è cosa gravissima.
A proposito. Io resto cattolico, socialista ed europeista. Resto
convinto che l’Eurolandia sociofinanziaria non serve, che più che una
falsa partenza v’è stato un ignobile malinteso e che è necessaria
un’Europa politicamente unita e in grado di superare le pastoie degli
stati nazionali. Resto persuaso che l’Europa non si salva se
gli europei non capiscono di esser parte di un mondo ormai
insopportabilmente segnato da un’intollerabile sperequazione, da
un’abissale distanza tra i pochissimi troppo ricchi e i moltissimi
troppo poveri. Questa è la radice di tutti i mali. La ridistribuzione
secondo giustizia e umanità delle risorse della terra è necessaria e
inevitabile, pena la rovina del genere umano. Se l’Europa unita non si
assumerà il còmpito d’intraprendere di nuovo il cammino verso la
giustizia sociale e la dignità umana, ogni sforzo sarà vano.
Qualcuno obietterà forse che questa è poesia, mentre il difficile
momento richiede la scabra, concreta, realistica prosa delle ricette
economiche. E’ vero il contrario: nei momenti di crisi, è sempre la
poesia che ci salva.
*Da francocardini.it
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