la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
domenica 12 giugno 2016
Produttività - Tre euroimbecilli che raccontano bugie, la produttività è dato solo da quanto sfrutto l'operaio, i macchinari sono neutrali e non incidono sulla produttività
L'EDITORIALE
Il deficit dell’Europa si chiama produttività
–di Donato Masciandaro
(Afp)
Produttività, fate presto. Dopo le
parole del presidente di Confindustria Boccia e del governatore della
Banca d’Italia Visco sono arrivate quelle del presidente della Banca
centrale europea Draghi. Tre voci istituzionali, uno stesso tema: porre
al centro della politica economica il tema della produttività, che
appare impantanato – quantomeno in Europa – nello sterile dibattito tra
il rigore dei falchi dell’austerità e le velleità delle colombe
neo-stataliste. Due visioni miopi, non a caso cavalcate da chi vive di
orizzonti corti – i politici – ed entrambe critiche con la attuale
politica monetaria della Bce, che devono al più presto essere superate
adottando una visione più lungimirante, non a caso fatta propria dalle
tre istituzioni: capire in ciascun contesto istituzionale, qual è il
miglior mix tra politica della domanda e dell’offerta per avviare una
ripresa della produttività. Ed è una scelta tecnica che può essere
attuata solo se si ha la volontà politica di superare il piccolo
cabotaggio delle scadenze elettorali, o dei paletti ideologici.
È un bene che il tema della produttività sia tornato al centro del
dibattito di politica economica, in Italia ed in Europa. Perché finora
le scelte di politica economica hanno per lo più vissuto sul miope
dibattito tra i falchi dell’austerità e le colombe del neo-statalismo,
che ha come corollario la critica alla politica monetaria che la Bce sta
mettendo in atto.
In primo luogo l’attenzione alla produttività ha di per sé il merito
di allungare l’orizzonte della prospettiva di politica economica. Se in
guarda alla caduta del prodotto per lavoratore, ci accorgiamo che le
ferite nella capacità di produrre valore economico hanno radici molto
più profonde della (lunga) recessione dalla quale stiamo provando ad
uscire. In secondo luogo emerge il respiro corto della contrapposizione
tra posizioni radicali che finora si è osservato nell’indicare quale sia
il migliore disegno di politica economica per uscire dalla Grande
Crisi.
Da un lato, vi è la posizione che vede il ciclo economico come
un’oscillazione, più o meno profonda, intorno ad un trend strutturale,
le cui caratteristiche sono tracciate dalla fisionomia dell’apparato
produttivo, in particolare dal suo livello di efficienza.
Se vi è una stagnazione prolungata, occorre guardare alle
caratteristiche di fondo di tutti i mercati. In particolare: il livello
di concorrenza nei mercati dei beni e servizi, il grado di flessibilità
nel mercato del lavoro, il livello di innovazione ed efficienza dei
sistemi di produzione e di distribuzione delle risorse, e – da ultimo
ma non affatto ultimo – il livello di efficacia della governance
pubblica entro cui le imprese operano.
Per cui la ricetta economica dei falchi è pronta: la stagnazione è
figlia di un’offerta aggregata anemica, che può essere rinvigorita solo
da riforme strutturali, il cui impatto, attraverso il meccanismo delle
aspettative, è però immediato. In parallelo, le politiche di stimolo
della domanda aggregata sono velleitarie. La politica fiscale deve
essere austera: il rigore di bilancio offre aspettative di bassa
tassazione, che stimola la propensione all’investimento e quella al
risparmio. La politica monetaria non deve essere inutilmente espansiva,
come quella messa oggi in campo dalla Bce. Continuare una politica
monetaria aggressiva significa consolidare le aspettative di
stagnazione. Al contrario, una normalizzazione della politica monetaria,
riportando il profilo dei tassi al più presto in territorio positivo,
farebbe da traino a una normalizzazione delle attese, quindi dei
mercati, quindi della dinamica di reddito e prezzi. La ricetta dei
falchi trova la sua sponda politica nei governanti che vedono nelle
politiche aggressive della domanda, e nei correlati effetti
distributivi, una minaccia per il proprio consenso, elettorale o
ideologico. Per cui, di volta in volta, ci sono falchi tedeschi, ma
anche spagnoli, o inglesi.
Ai falchi si oppongono le colombe: il ciclo economico tende a essere
endemicamente instabile, perché instabili finiscono per essere i
comportamenti di operatori e imprese, anche se ciascuno di essi si
sforza di essere razionale e lungimirante. La stagnazione è l’effetto
ultimo e prolungato dell’incapacità dell’unico operatore che può avere
la vista lunga – lo Stato – di guidare e dirigere lo sviluppo dei
mercati. La depressione del settore privato può essere curata da un
rinnovato ruolo attivo degli operatori pubblici.
La ricetta delle colombe è speculare rispetto a quella dei falchi: le
riforme strutturali sono importanti, ma la loro capacità di dispiegare
effetti rilevanti e regolari sulla condotta di famiglie e imprese è
lunga e incerta. Occorrono – subito e molto – interventi dal fronte
della domanda aggregata. La politica fiscale deve essere attiva e
aggressiva, partendo – ma non fermandosi – a una ripresa degli
investimenti infrastrutturali. La politica monetaria deve osare di più:
se tassi negativi e iniezioni massicce di liquidità non sembrano dare
finora esuberanza alla domanda, occorre modificare in modo ulteriormente
non convenzionale sia il profilo degli obiettivi che quello degli
strumenti, e di riflesso dimensioni e rischiosità del bilancio della
Bce. Anche la ricetta delle colombe trova supporto politico, da chi ne
vede i vantaggi per il proprio consenso, anche in alcune code – sempre
più spesse – del populismo nazionale ed europeo. Per cui è facile
riconoscere colombe francesi, greche, ma anche spagnole ed italiane.
Falchi e colombe offrono ricette opposte, ma con tratto comune: sono
pensieri unici, quindi miopi. Perché solo un miope non può riconoscere
che la diversità dei contesti istituzionali e storici impone di
riconoscere che se è vero che esiste nei Paesi avanzati – inclusi gli
Stati Uniti – un problema comune, cioè la stagnazione della
produttività, e altrettanto vero che radici e soluzioni sono diverse da
caso a caso.
Se si guarda all’Italia, a parità di politica monetaria, è evidente
che solo le riforme strutturali – a partire da quelle delle istituzioni
pubbliche – possono dare la scossa a un Paese che ha limiti di manovra
della politica fiscale oggettivamente fissati dal suo stock di debito
pubblico, che sistematicamente supera la sua capacità di produrre
reddito dall’Unità d’Italia a oggi. Ricomporre spesa pubblica e carico
fiscale in modo da coniugare crescita e sostenibilità fiscale non sono
richieste dell’Unione, ma esigenze del Paese. Se Confindustria, Banca
d’Italia e Bce fanno riprendere centralità al tema della produttività è
perché occorre un orizzonte lungo – di tipo politico – per fare scelte
tecniche, anche se immediatamente non popolari. Altrimenti, prevale
nell’Europa un equilibrio stagnante che paradossalmente è figlio della
contrapposizione tra falchi e colombe: per non scontentare nessuno, la
soluzione è inevitabilmente di piccolo cabotaggio. Emblematico il caso –
giustamente sottolineato nelle Considerazioni finali – dell’Unione
bancaria, in cui il necessario smantellamento delle reti di protezione
nazionale non è stato però accompagnato dall’altrettanto necessaria
costruzione delle impalcature europee. Se la miopia continua a non
essere curata, sbattere contro un palo – economico e non – sarà sempre
più probabile.
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