
Il ritorno dello Stato banchiere
01/07/2016 Dopo una lunga stagione di liberalizzazioni e privatizzazioni le aziende del credito italiane tornano sotto l'ombrello pubblico. Complice una crisi da cui non riescono a trascinarsi fuori
In questi giorni le Borse di tutto il mondo sembrano accanirsi particolarmente con i titoli bancari, bruciando miliardi su miliardi. La fragilità del sistema si deve anche al fatto che il costo del denaro non è mai stato così basso e dunque diventa difficile guadagnarci per chi lo vende alle imprese e ai clienti, come fanno in definitiva le banche. Il resto lo fanno i duecento miliardi di debiti “incagliati”, ovvero non recuperabili, oltre ai titoli di stato nella pancia degli istituti di credito. Il governatore della Bce Draghi sta facendo molto acquistando sul mercato secondario i titoli di stato e immettendo denaro nel sistema bancario, con lo scopo di prestarlo alle aziende. Ma il cavallo, come si dice in economia, “non beve”, le imprese non accedono al credito. Forse qualcosa potrà fare anche il già citato Atlante, che immette altro denaro pubblico per permettere alle banche di "disincagliare" molti dei loro crediti.
Ma la novità più ecltante è un'altra: il Governo - tra conferme e smentite - sarebbe pronto a entrare direttamente nel capitale degli istituti di credito, divenendo azionista. Così facendo l’orologio della storia della finanza farebbe un salto di ottant’anni. Fu un’altra recessione a portare a questo genere di soluzione, quella successiva la crollo di Wall Street del ‘29. Di fronte alle file di disoccupati i Governi di allora si resero conto che la “mano invisibile” dei mercati non era in grado di gestire qualunque tempesta finanziaria: occorrevano pubblici poteri e un intervento diretto dello Stato. La legge bancaria italiana del 1936 si basa proprio sulla nazionalizzazione delle banche attraverso l’Iri e una visione dirigistica del credito.
Lo Stato banchiere doveva avere carattere temporaneo, e invece venne mantenuto anche in tutta la Prima Repubblica (la nostra Costituzione contempla tranquillamente il sistema misto pubblico-privato), fino al 1992, quando anche le tre banche di interesse nazionale (Banco di Roma, Credito italiano e la Banca Commerciale di Cuccia e Mattioli) divennero private e la “foresta pietrificata” del credito, come la chiamava l’allora primo ministro Giuliano Amato, cominciò una serie di fusioni che portarono all’attuale assetto. Le banche dovevano continuare a non fallire mai, a parte qualche eccezione (la Banca Privata di Sindona, il banco Ambrosiano di Calvi). Ma doveva proseguire anche il processo di liberalizzazione del sistema bancario, parallelamente a quello di integrazione europea.
Dopo un abbondante uso di fondi di Stato da parte della Germania nei confronti delle sue banche, cariche di titoli spazzatura per la crisi dei “subprime”, dalla fine del 2014 è arrivata la direttiva Brrd, recepita dall’Italia a novembre 2015, che vieta agli Stati di risolvere le crisi bancarie. L’Europa chiudeva le stalle dopo che erano scappati i buoi tedeschi. La direttiva ha introdotto il famoso “bail in”: il salvataggio interno, scaricato sugli azionisti, poi sugli obbligazionisti e se necessario anche sui depositanti sopra la soglia dei 100.000 euro. E’ il metodo che il Governo italiano ha dovuto adoperare per Banca Etruria e le altre banche finite in dissesto.
Tutto questo per evitare che il salvataggio delle banche finisse per pesare sulle spalle dei contribuenti, danneggiando per concorrenza sleale le banche “sane”. Ma la situazione continua a essere gravissima e il Governo italiano ha deciso di intervenire ritornando a essere Stato banchiere, forte anche del nuovo ruolo in sede europea dopo il “distacco” del Regno Unito. La direttiva del 2014 offre qualche scappatoia in caso di “stress sistemici” e dopo una “franchigia” di circa il dieci per cento di perdite pagate da azionisti e creditori. Dunque torna lo Stato banchiere per cercare di risolvere una crisi che non si riesce a risolvere. Si torna alla “vecchia moda” della finanza pubblica per osservare un comandamento intramontabile, di ieri e di oggi: le banche non devono fallire mai. E a pagare il conto è tornato pantalone: il contribuente.
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