L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

mercoledì 7 settembre 2016

elezioni statunitensi - Trump rompe il monopolio della finanza, dei petrolieri e delle consorterie Guerrafondaie per questo deve morire deve trionfare la Hillary già protagonista di bombardamenti umanitari in Libia e tentativo di golpe in Turchia

TURCHIA - 07 settembre 2016 - 00:00

Turchia, il golpe e il ruolo di Hillary Clinton

A quasi due mesi dal fallito colpo di stato restano ancora molti interrogativi su possibili collegamenti tra i democratici americani e i golpisti che hanno tentato di rovesciare il presidente Erdogan


di Tersite Avola

Ragionare a freddo sul golpe fallito in Turchia lo scorso 15 luglio può essere utile per avere una interessante chiave di lettura del decisivo scontro politico in atto negli Stati Uniti tra Donald Trump e Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca.

Il quotidiano turco filogovernativo Yeni Safak, insieme all’agenzia di stampa statale Anadolu, aveva accusato direttamente il generale americano John F. Campbell, ultimo comandante della missione ISAF della NATO in Afghanistan, di aver finanziato i militari autori del fallito golpe del 15 luglio con denaro della CIA transitato per una banca di copertura nigeriana. Ancora prima del giornale turco, Lawrence Wilkerson, ex capo dello staff del generale Powell all’epoca in cui questi era segretario di Stato, aveva dichiarato: “Nessun dubbio nella mia mente che John Brennan (direttore della CIA, ndr) e altri sapessero cosa stava succedendo in Turchia e sono dannatamente sicuro che ci hanno avuto a che fare […] Non pensate che non sia successo, perché è così una volta che si sono istituzionalizzate le operazioni segrete nel modo in cui noi lo abbiamo fatto”.

Proviamo a porre una considerazione su queste accuse per poi mettere in fila alcuni fatti. Barack Obama e John Kerry sono a fine mandato e, come ogni presidente e segretario di Stato in questa condizione, vorrebbero chiudere l’esperienza alla Casa Bianca mettendo in carniere dei successi di risalto mondiale. Il che significa raggiungere significativi risultati in politica estera, e non certo lasciare aperte questioni (che ricadranno inevitabilmente sulle spalle dei loro successori) come la gestione delle conseguenze di un colpo di stato in un Paese alleato. Da questo intento è scaturito l’ultimo viaggio a Mosca di John Kerry, dove sono emersi la volontà di cooperazione in Siria con i russi neibombardamenti contro lo Stato Islamico e il rifiuto di Obama di aderire alle richieste di attacchi più incisivi e diretti contro le forze di Bashar Al Assad.

Escludendo che Obama e Kerry possano aver ordito o spalleggiato il golpe in Turchia, mettiamo ora ordine tra le certezze che si hanno rispetto a quanto accaduto il 15 luglio. Lookout News ha già scritto degli stretti legami politico-finanziari di Hillary Clinton con l’uomo di riferimento dei golpisti turchi, il potente imam Fethullah Gulen. Vediamo ora i protagonisti degli insoliti fatti avvenuti in USA contestualmente al golpe in Turchia.


I repubblicani contro Trump


A pochi giorni dal golpe turco, il senatore del Texas, Ted Cruz, grande oppositore di Trump per la nomination repubblicana, ha manifestato durante la convention del partito a Cleveland un inatteso quanto inaudito “non endorsement” nei confronti del candidato ufficiale. Cruz ha terminato il suo intervento alla convention non invitando a votare Trump ma affermando al contrario: “Non state a casa a novembre […] e votate secondo coscienza”.

Non sostenendo il candidato ufficiale, Cruz ha di fatto implicitamente invitato i suoi elettori a votare per Hillary Clinton. Calcolando che Cruz ha avuto durante le primarie 8 milioni di voti dai suoi sostenitori, e ipotizzando che la sua influenza su di loro sia alta, anche soltanto una parte di loro potrebbe cambiare drasticamente le sorti del voto finale proprio in favore della Clinton. Per il sistema di voto maggioritario indiretto del presidente, una parte anche minima di quei voti potrebbe portare alla vittoria della candidata democratica in uno degli Stati in bilico, assegnandole la vittoria complessiva. George W. Bush, a esempio, nel 2000 vinse su Al Gore soltanto per duemila voti, che furono però sufficienti ad assegnargli la Florida, seppure Gore avesse avuto mezzo milione di voti popolari in più a livello nazionale.

Ma anche il clan dei Bush, che ha fornito all’America due presidenti e un governatore, ha negato il proprio appoggio a Trump. I Bush hanno ancora molto peso nel partito repubblicano, sia per le cariche ricoperte sia per i rapporti privilegiati con le potenti lobby che hanno sostenuto il partito negli ultimi decenni. Il mancato supporto dei Bush a Trump indica indirettamente, quanto inequivocabilmente, una preferenza verso Hillary Clinton. La quale, dalla convention democratica di Philadelphia, ha infatti prontamente incassato l’inaudito endorsement repubblicano: “Ted Crux ha ragione, votate secondo coscienza”.


Lo scontro e le forze in campo


Per spiegare il motivo di questi altrimenti incomprensibili avvenimenti è necessaria una considerazione politica sullo scontro in atto negli USA. Uno scontro che ha poco a che vedere, se non come sua facciata, con i due candidati, Clinton e Trump, entrambi non all’altezza delle aspettative per una presidenza che si preannuncia assai difficile. Ma dietro di loro vi è la novità di un totale contrasto tra la strategia di una parte consistente del partito repubblicano (e dell’elettorato bianco) e quella del partito democratico. Negli ultimi decenni le differenze tra i due partiti erano limitate ai temi interni minori (assistenza, tasse, etc.), mentre sui temi esteri vi era stata unità d’intenti nell’uso della forza militare per il mantenimento della supremazia americana, così come nella linea politica in favore della deregulation in finanza, avviata da Ronald Reagan e terminata da Bill Clinton con l’abolizione dello Steagall Act.

Il contrasto attuale è, invece, tra la parte repubblicana che considera gli effetti negativi della globalizzazione superiori a quelli che inizialmente erano stati positivi, e l’altra componente – maggioritaria nella dirigenza, ma non tra i votanti alle primarie – che, in sintonia con la maggioranza del partito democratico, continua invece a ritenere che la globalizzazione sia l’unica scelta possibile per mantenere il primato americano.

(Barack Obama e Hillary Clinton alla convention democratica di Philadelphia)

Da una parte chi crede che il primato debba essere rifondato su una rilanciata potenza economica e dall’altra chi invece, proseguendo le dottrine Brezinski e Wolfowitz, crede che non ci sia altra strada che mantenere il primato sullo strapotere militare, per sostenere artatamente il dollaro e il debito sulle spalle dei paesi produttori.


Globalismo e isolazionismo nel partito repubblicano


La parte repubblicana anti-globalista incarna il vecchio spirito isolazionistadel partito, cioè la convinzione che gli Stati Uniti possano, e debbano, essere sufficienti a se stessi, senza doversi impegnare più di tanto (in vite, denaro e fatica) nelle questioni che riguardano altri continenti: teoria che ha avuto esemplificativa espressione nella tenace resistenza all’intervento sia per la Prima che per la Seconda Guerra Mondiale.

Trump dice chiaramente che la globalizzazione ha favorito i Paesi asiatici e danneggiato l’America, indebolendo drasticamente la sua potenza industriale e impoverendo di conseguenza a dismisura la sua working class e, a rimorchio, anche la middle class. Classi stra-finanziate a credito dalle banche per rilanciare speculativamente l’illusione di ricchezza fino al crack del 2008, che le ha messe definitivamente in ginocchio, fino a produrre un esercito di poveri. Trump ha in programma la re-industrializzazione dell’America, per ridare lavoro e dignità alla working class e alla middle class, cioè i suoi elettori, e per ridurre di conseguenza l’immigrazione, lasciando agli alleati spese e oneri della propria difesa.

(Donald Trump durante un comizio a Canfield, in Ohio, il 5 settembre 2016)

Per favorire la re-industrializzazione vuole rivedere i trattati che hanno favorito a dismisura la Cina, accusandola di attuare il protezionismo e aggredire i mercati esteri, al punto che gli USA hanno perso 50.000 fabbriche e milioni di posti di lavoro. Sul nodo cinese vi è un’indispensabile eccezione all’isolazionismo, perché Trump intende indurre la Cina alle richieste americane per l’equità del mercato con una forte presenza navale nei Mari della Cina, proseguendo una scelta già da tempo in atto.

Altro punto di attrito strategico – sia con i democratici che con le élite repubblicane – è la questione dei capitali: Trump vuole limitare la possibilità da parte delle corporation di convertirsi in società estere allo scopo di pagare meno tasse, perché considerata una scappatoia fiscale antipatriottica che non consente di riportare il lavoro in America, e favorisce le élite finanziarie che gestiscono i grandi capitali. Caposaldo economico di questo programma, altrimenti difficilmente proponibile, è il raggiungimento per gli USA dell’autosufficienza energetica, che può porre termine all’obbligo strategico di una supremazia globale a tutela degli approvvigionamenti in Medio Oriente.

Dicendo che l’industria petrolifera interna non è nelle mani delle grandi società, vediamo che nel suo complesso il programma isolazionista di Trump va nettamente contro gli interessi delle lobby delle armi, del petrolio, della finanza di Wall Street. Grazie alla globalizzazione, la finanza ha raggiunto nel 2000 il 95% delle transazioni internazionali, che nel 1980 erano all’80% su circolazione/produzione di merci. Dal 1992 al 2010 le transazioni finanziarie giornaliere sono passate da 880 miliardi a 4.000 miliardi di dollari. La finanza pertanto non può essere interessata all’industria che Trump vorrebbe rilanciare, per la minore redditività dei capitali rispetto alla speculazione. Le lobby di armi e petrolio hanno da decenni come capofila il clan dei Bush, personalmente legati sia alla famiglia saudita dei Saud sia all’industria delle armi, che ha giovato di tre guerre grazie ai Bush: Golfo, Afghanistan, Iraq.

Per la lobby dell’alta finanza di Wall Street abbiamo la Clinton. E questo spiega l’altrimenti inspiegabile “non endorsement” in favore di Trump da parte di Cruz-Bush. I rispettivi interessi che rappresentano nei due campi politici non sono antitetici ma assimilabili. Previo un accordo politico sul loro futuro bilanciamento in caso di vittoria della Clinton, i due schieramenti possono quindi concorrere nel tentativo di battere Trump, nemico comune delle rispettive lobby.

La Clinton, già bellicista di suo, favorirebbe comunque la potente lobby dell’industria militare, così come lo stesso bellicismo per il mantenimento dellasupremazia americana contro la Russia, mentre la Cina accompagna gli interessi della lobby petrolifera e può accordarsi con quelli dell’alta finanza di Wall Street.


Le connessioni con il golpe turco


Delineati motivi strategici e di lobby dell’alleanza trasversale ai due schieramenti, già di fatto operante, possiamo tornare all’evidenza dei fatti da mettere in linea rispetto alle accuse di coinvolgimento degli USA nel golpe turco. Gli isolazionisti potevano essere del tutto indifferenti alle scelte politiche della Turchia e al fatto che il presidente Erdogan avesse ribaltato la sua posizione sulla Siria accettando un’interlocuzione con il governo di Assad. Secondo Trump non si doveva andare in Iraq né in Libia né in Siria a combattere il regime di Damasco.


Opposta la visione dei mondialisti democratici, secondo cui erano vitali sia la guerra in Iraq (Hillary Clinton voto favorevole), sia quelle in Afghanistan e in Siria contro Assad. Ma, più ancora, per i mondialisti era vitale che la Turchia cessasse al più presto il capovolgimento di fronte che la stava portando a stringere alleanze con la Russia e l’Iran, e a ripristinare i rapporti con Israele ed Egitto. Fatti che potrebbero cambiare irreversibilmente il quadro mediorientale di costante instabilità, che aveva il vantaggio di favorire il ruolo di protettori degli USA.

L’aggregazione globalista trasversale repubblicano/democratica è riuscita ad attraversare a più riprese l’Amministrazione Obama. Nei suoi due mandati, il presidente ha nominato molti repubblicani in posti chiave. Ben due segretari alla Difesa, Robert Gates e Chuck Hagel, e un segretario per l’Esercito, John McHugh. Un vice presidente del board dei Consiglieri Presidenziali di Intelligence. Un presidente dalla Federal Reserve, Ben Bernanke, e addirittura un direttore della CIA, David Petraeus, nonché l’attuale direttore dell’FBI, James Comey. Poi un vitale ambasciatore in Cina, ma anche molte altre alte cariche nel cruciale Dipartimento di Stato.

Come il vice ministro per l’Eurasia, Victoria Nuland, nota per quel “Fuck the EU” pronunciato ai tempi della crisi ucraina e appartenente all’intellighenzia repubblicana dei neo-con che ha sostenuto e applicato le teorie di Brezinski sul suprematismo USA (poi tradotte nella Dottrina Wolfowitz). Una dottrina il cui più strenuo sostenitore è stato il vice presidente ai tempi di Bush, Dick Cheney, sempre critico verso la debolezza di Obama e che all’epoca, per attuare il suo programma di guerra all’Iraq, era stato accusato (Time, CBS) di aver creato una quarta branca del governo al di fuori della legge. E la Nuland è stata il principale consigliere di politica estera di Cheney vice presidente. Mentre John Barry, l’attuale ambasciatore ad Ankara, è stato nel suo staff.

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