Dal numero di pagina99 in edicola il 23 dicembre 2016
«L’Unione Europea ha al massimo dieci anni a voler
esser ottimisti». L’alto diplomatico di un importante Stato membro
allarga le braccia e fa una faccia sconsolata. «Ma se vince Marine Le
Pen l’anno prossimo in Francia saranno massimo due-tre anni». Non c’è
pranzo, cocktail o colloquio in cui funzionari comunitari, diplomatici,
europarlamentari, non ribadiscano questa foschissima visione del futuro
dell’Ue. Un clima così tetro tra i palazzi di Bruxelles come nelle
capitali non si era mai visto, neppure nelle ore più buie della crisi
dell’eurozona nel 2011 o 2012. E questo, ironia del destino, proprio
mentre l’Europa si prepara alle solenni celebrazioni per il sessantesimo
del Trattato di Roma, il 25 marzo nella Città Eterna. «Ci troviamo in
una situazione drammatica come mai prima», ha detto il presidente
uscente del Parlamento europeo Martin Schulz, «la realtà è che rischiamo
il collasso dell’Unione Europea».
«L’Europa», ha ribadito anche l’ex premier francese
Manuel Valls, «rischia di crollare. Siamo di fronte a un momento
pericoloso per il mondo, l’Europa e la Francia». Bruxelles e le capitali
guardano con orrore all’avanzata populistica, frutto del crescente
disamore dei cittadini verso l’Unione, della devastante crisi
finanziaria del 2008 e del caos migratorio. Un’avanzata rafforzata
oltretutto dalla vittoria di Donald Trump negli Usa. E il 2017 rischia
di essere un annus horribilis, con elezioni a marzo in Olanda –
dove è in testa nei sondaggi il leader della destra anti-Ue e
anti-migranti Geert Wilders – poi ad aprile e maggio alle presidenziali
francesi, con l’incubo Marine Le Pen, in autunno in Germania, dove la
destra anti-Ue dell’Afd è data intorno all’11 per cento. E in primavera è
probabile che si voterà anche in Italia.
«Un G7 (il 26 e 27 maggio 2017 a Taormina, ndr)
con Trump, Le Pen, Johnson, Beppe Grillo: uno scenario da horror che
mostra perché valga la pena combattere il populismo», twittava, poche
settimane prima del referendum sulla Brexit del 23 giugno, Martin
Selmayr, il potente capo di gabinetto del presidente della Commissione
europea Jean-Claude Juncker. Il suo incubo comincia a diventare realtà:
Trump ha vinto a sorpresa, i britannici hanno detto sì alla Brexit e
Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra anti-Ue, è ministro degli Esteri
britannico. È stato con gioia spasmodica che Bruxelles e le capitali si
sono aggrappate alla vittoria del verde Alexander Van der Bellen al
ballottaggio delle presidenziali austriache il 4 dicembre scorso,
sventando lo spettro del primo presidente di estrema destra, Norbert
Hofer, di un paese Ue.
Il 4 dicembre è stato però anche il giorno della schiacciante vittoria
del No al referendum costituzionale in Italia, e delle dimissioni di
Matteo Renzi, che molti a Bruxelles e Berlino vedevano come l’ultima
spiaggia per l’Italia. La raffica di tornate elettorali nel 2017 rischia
di segnare la paralisi dell’Unione, proprio in un momento in cui urgono
risposte comuni, dalla crisi migratoria al rilancio della crescita al
completamento dell’unione bancaria. La politica “tradizionale” è nel
panico, e l’inazione della Ue alimenta l’euroscetticismo. «In passato»,
ha detto giorni fa Romano Prodi, che guidò la Commissione europea dal
1999 al 2004, «arrivata al burrone, l’Europa è sempre riuscita ad andare
avanti, ma oggi non c’è nessun segno concreto che sia iniziato questo
avanzamento». Peggio, ormai tutti cercano di inseguire i populisti sul
loro stesso terreno, attaccando l’Europa.
«Si fa dell’europopulismo light», dice Olivier
Costa, professore di Scienze politiche al Collège d’Europe, «sperando di
fermare così gli euroscettici. L’esempio della Brexit dimostra che non
funziona. Questo cocktail tra populismo e paura dei governi di muoversi
può essere mortale». A farne le spese è la Commissione europea, sempre
più emarginata mentre gli Stati cercano di mettersi d’accordo fra di
loro scavalcandola, all’insegna del metodo intergovernativo che però
vuol dire anche il ritorno a quell’obbligo dell’unanimità che il
Trattato di Lisbona aveva bandito proprio per evitare i paralizzanti
veti incrociati. «L’Europa non conta più nulla», ha avvertito ancora
Prodi, «la Commissione, che rappresenta l’aspetto collegiale dell’Europa
unita, non esiste più perché gli Stati hanno ripreso il potere non
capendo che la Storia avrebbe fatto il suo cammino».
Oltretutto le soluzioni intergovernative scelte per
affrontare la crisi dell’eurozona, analizza anche Sonja Puntscher
Riekmann, direttore del Centro di studi sulla Ue Jean Monnet di
Salisburgo, «hanno creato profonde divisioni tra gli Stati membri. La
crisi migratoria ha approfondito tutto questo». I fatti le danno
ragione: la pessima gestione della crisi greca ha creato risentimenti
tra greci e tedeschi, Nord e Sud Europa, quella migratoria tra Italia e
Germania da una parte e Paesi dell’Est dall’altra. «Lo vediamo nel
quotidiano», confida un alto funzionario comunitario, «ormai anche nelle
nostre discussioni prevalgono linee puramente nazionali, con un
costante scontro Nord-Sud». Peggio, si evidenziano i rapporti di forza,
Stati grandi e potenti contro minori e deboli, esacerbando le animosità
nazionali. Pesa su tutto, gravissima, l’assenza della Francia, mai come
in questi giorni si comprende l’importanza del tradizionale motore
franco-tedesco: senza il contrappeso d’oltre Reno, la Germania ormai
domina e fa asse con il Nord, inasprendo le divisioni.
Non aiuta la crescente debolezza di Juncker. L’uomo è
visibilmente affaticato, raccontano di orari di lavoro limitati, mentre
il suo entourage riduce sempre più le sue apparizioni pubbliche, le
voci di un suo problema con l’alcol non scemano. Una debolezza che
devasta la credibilità di Bruxelles, basta guardare la sfrontatezza con
cui i paesi di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e
Ungheria) rifiutano di applicare la direttiva in vigore per la
ridistribuzione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia. Juncker non ha
il coraggio di avviare una procedura d’infrazione, limitandosi a
scorati sfoghi. «È una cosa nuova», ha detto pochi giorni fa, «per la
prima volta nella storia europea del dopoguerra non tutti gli Stati
membri applicano le regole comunemente concordate. Questo va contro i
principi basilari dell’Unione, per i quali l’Ue è un sistema basato
sulle regole. Non lo è più».
L’Europa può morire anche così. «La disintegrazione
europea», ha commentato Philippe Legrain, consigliere dell’allora
presidente della Commissione José Manuel Barroso dal 2001 al 2014, e
oggi docente all’Istituto Europeo della London School of Economics, «non
richiede necessariamente altre fuoriuscite di Stati membri. Basta che
si mettano a ignorare le regole». Non ci sono solo i riottosi Paesi
dell’Est: Parigi, per esempio, da anni viola indisturbata il Patto di
stabilità e ora minaccia di non applicare la direttiva sui lavoratori
distaccati in altri Paesi (che secondo il governo favorisce il dumping
sociale); Berlino ha fatto sapere che manterrà i controlli alle
frontiere interne per tutto il 2017 in barba a Schengen anche se
Bruxelles non sarà d’accordo, come non si cura dello smisurato avanzo
della sua bilancia commerciale vietato dalle norme Ue.
Del resto, la stessa Commissione non applica il diritto Ue,
non avviando procedure d’infrazione contro i Paesi dell’Est o
rinunciando a qualsiasi sanzione anche simbolica contro Spagna e
Portogallo pur avendo stabilito che i due Paesi violano il patto di
stabilità. Come stupirsi se Matteo Renzi aveva minacciato di ignorare le
norme sulle ristrutturazioni bancarie per salvare il Monte dei Paschi,
visto che ormai nessuno rispetta le leggi Ue? «Se la situazione
continuerà ad aggravarsi», dice ancora Legrain, «la Ue somiglierà sempre
di più alla Società delle Nazioni degli anni Trenta». A quel punto
potrebbe anche, formalmente, sopravvivere. Tanto sarà solo un guscio
vuoto.
http://www.pagina99.it/2016/12/30/direttive-comunitarie-europee-unione-europea-ue-crisi-schulz/
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