Lo
Stato entra in Mps. È un bene o un male? «Data l'attuale situazione è
un male necessario», risponde Luigi Zingales, economista italiano tra i
più ascoltati al mondo, professore di Finanza alla University of Chicago
Booth School of Business.
Di formazione liberale, in questa intervista al Giornale
Zingales spiega gli errori, ma anche le opportunità dell'intervento
pubblico nelle banche. «È un po' come quelle medicine che non vorresti
mai prendere, fino a quando le devi assumere in tutta fretta. Così
questa decisione è arrivata troppo tardi e con troppo poco».
Troppo tardi?
«Che
il Monte Paschi non sarebbe riuscito a raccogliere cinque miliardi si
sapeva già da luglio. Ma si è cercato di fare un'operazione di mercato,
che in realtà era drogata».
Perché drogata?
«Perché,
da qual che ho letto, era guidata dal governo, che lavorava dietro le
quinte. Era un'operazione importante per l'esecutivo guidato da Renzi,
che a fronte dell'intervento del Qatar prometteva contropartite. Niente a
che vedere con il mercato quindi. Allora sarebbe stato meglio un
intervento trasparente del governo, con dichiarati limiti e
responsabilità. Invece si è buttato via tempo prezioso, la gente ha
perso fiducia, e ora si rischia che i soldi non bastino, come abbiamo
visto già ieri».
Troppo poco?
«Io spero che
cinque miliardi, già saliti a quasi nove, siano sufficienti, ma non
sono sicuro. È in corso un'analisi puntuale sui crediti di Mps da parte
della Bce ed è difficile escludere il rischio reale di altre sofferenze.
Allora non basteranno né 5, né 9. D'altra parte abbiamo appena visto
succedere qualcosa del genere nelle banche venete, che stanno per essere
di nuovo ricapitalizzate. Quindi, invece che rincorrere questi numeri,
in situazioni di crisi si fa una cosa diversa: si entra con una cifra
talmente grossa da eliminare ogni rischio di ulteriori difficoltà. Il
sistema gira pagina e inizia a guardare il mondo in maniera differente. E
quello che è successo in Usa nel 2009, o in Spagna 2012, o in Svezia
nel 1992: è così che si risponde alle crisi finanziarie».
Ci sono stime serie sul buco delle banche italiane?
«Ci
sono e sono abbastanza semplici da fare. Unicredit ha appena varato
un'operazione che valuta i suoi non performing loans 25 centesimi per
ogni euro. Se si applicasse questa valutazione all'intero sistema
bancario si otterrebbe un buco di oltre 50 miliardi. L'ordine di
grandezza è questo, il 2,5% del Pil».
Dovremmo fare nuovo debito per il 2,5% del Pil? Non arriverebbe la Troika?
«Non
abbiamo bisogno di attingere ai fondi europei. Possiamo emettere nuovo
debito e credo che sarebbe una buona scelta. Vorrei ricordare che lo
abbiamo già fatto per aiutare sia la Grecia, sia la Spagna: allora
perché non lo possiamo fare per noi. Poi, se lo facciamo bene, questi
non sono miliardi di spesa, ma di investimenti. Infatti, negli Usa e in
Svezia, con i salvataggi lo Stato ci ha guadagnato. La probabilità che
questo avvenga anche in Italia mi pare bassa, ma stabilire il principio
sarebbe importante».
Come si è arrivati fin qui, senza accorgersi prima dei reali guai delle banche?
«Nell'ultimo
anno c'è stata una combinazione di fattori. Intanto non c'era
abbastanza coscienza della gravità del fenomeno, almeno da parte del
premier. Poi, da marzo in avanti, c'è stato il tema referendum, che ha
congelato ogni scelta impopolare. Infine ha avuto un ruolo il problema
delle responsabilità di questa situazione».
Vale a dire?
«L'investimento
di denaro pubblico nelle banche, o in Mps in particolare, implica
senz'altro un'inchiesta su cosa è successo. Come ho già scritto, una
volta che lo Stato è socio, un governo serio non può esimersi dal fare
un'indagine: bisogna saper guardare anche indietro. E se non lo fai
commetti un errore politico enorme: favorisci l'arrivo a Palazzo Chigi
del primo governo del Movimento 5 Stelle».
Propone una Commissione d'inchiesta parlamentare?
«Sarebbe
l'ideale. Ma si può fare anche una cosa diversa: il governo può
nominare una commissione di esperti che abbia accesso pieno ai dati di
Mps e che faccia un'analisi profonda per dire quanta parte del buco è
dovuta alla crisi, quanta alla cattiva gestione e quanta a errori di
natura politica o peggio. L'esecutivo lo potrà fare in quanto azionista
della società. Per poi riferire gli esiti a tutto il Paese».
Siamo in questa situazione per la direttiva europea sul «bail in»: governo e Bankitalia dovevano opporsi? Potevano fare di più?
«Per
rispondere serve un distinguo su due temi: il primo è la responsabilità
di come le banche si sono finanziate tramite la propria clientela
retail. Non è un fenomeno nuovo, va avanti da decenni in Italia. E la
cosa ironica è che è sempre stato visto come un punto di forza. La Banca
d'Italia ha sostenuto per anni che il sistema bancario italiano era più
solido perché non si finanziava con i fondi internazionali, bensì
presso la clientela. Era la prova che le nostre istituzioni avevano più a
cuore la stabilità del sistema che la tutela del risparmio. Ad esempio,
la vendita di due miliardi di obbligazioni subordinate Mps alle
famiglie non è anomalo, ma strutturale, tanto che il taglio minimo era
stato ridotto apposta a soli mille euro. In queste condizioni il
meccanismo del bail in, che segue una logica corretta, in Italia è
diventato perverso. Sarebbe stato corretto solo se gli investitori in
subordinate fossero stati i fondi, viceversa per l'Italia era una
follia. Da quando questa proposta è venuta fuori, nel 2014, Bankitalia e
governo avrebbero dovuto fare fuoco e fiamme per imporre correzioni per
le subordinate. Il governatore lo aveva capito e a suo modo ha
protestato, ma non abbastanza. Nel governo di allora c'era il ministro
Saccomanni al Tesoro: difficile immaginare che non potesse fare di più».
E il secondo aspetto?
«Bisogna
chiedersi da dove vengono tutti questi crediti deteriorati. In Banca
d'Italia dicono che è tutta colpa della crisi. Che di certo ha avuto un
peso importante: sono sparite un quarto delle imprese, ovvio che c'è una
valanga di perdite. Ma i crediti deteriorati sono circa il 25% del
totale degli impieghi: se calcoliamo che le famiglie pagano, la quota
relativa alle imprese è molto elevata: significa che c'è stata una
politica del credito quanto meno non intelligente. E molti prestiti dati
agli amici. Basta guardare quanti soldi Intesa ha dato a Zaleski, per
esempio. O le operazioni baciate delle banche popolari. Allora, se è
vero che le frodi sono difficili da vedere per un ispettore, è anche
vero che di tante altre situazioni si sapeva. Le conoscevo io che vivo
negli Usa. Un'inchiesta dovrebbe darci queste risposte: ci sono state
eccezioni che confermano la regola, o erano una prassi diffusa?».
Ma come risparmiatori, siamo o non siamo tutelati dalle Authority?
«La
domanda è sacrosanta e una commissione è necessaria proprio per questo,
per capire in che misura i maggiori dissesti bancari emersi in questi
mesi potevano essere previsti dalla Vigilanza. La realtà è che oggi non
lo sappiamo. Ma in futuro vorremmo poterlo sapere».
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