L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 6 agosto 2016

Hiroshima&Nagasaki - solo dei barbari crudeli potevano bombardare umanamente delle città piene di donne, bambini e uomini civili

Storia. Hiroshima, il 71esimo anniversario della strage. Presente Abe
Pubblicato il 6 agosto 2016 da Hidetoshi Nakata


Hiroshima
Hiroshima oggi ha commemorato il 71esimo anniversario del lancio della bomba atomica in cui morirono centinaia di migliaia di giapponesi alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

L’intervento del sindaco

Il sindaco della città, Kazumi Matsui, ha lanciato un appello ai leader mondiali per una moratoria delle armi nucleari. La manifestazione si è svolta al Parco della Pace della città, situato nei pressi dal centro dell’esplosione, ed è iniziato con un minuto di silenzio alle 8.15 ora locale (23.15 ora italiana).

La storia

Alle 8.15 del 6 agosto 1945, il bombardiere B-29 Enola Gay della Us Air Force sganciò sulla città giapponese la prima bomba atomica della storia usata in una guerra, soprannominata Little boy. Dopo il minuto di silenzio, il sindaco Kazumi Matsui ha invitato i capi di Stato di tutto il mondo a seguire le orme di Obama e di fare visita nelle città di Hiroshima e di Nagasaki per “registrare la realtà dei bombardamenti atomici nei loro cuori. La nostra politica deve puntare a rafforzare l’unità e deve sostenere la creazione di un sistema di sicurezza basato sulla fiducia e sul dialogo.

Presente anche il primo ministro giapponese Shinzo Abe e i rappresentanti di 91 Paesi, tra cui il Regno Unito, la Francia e la Russia. Poi il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon è intervenuto per sottolineare che “il mondo ha bisogno più che mai dello spirito degli hibakusha (i sopravvissuti al bombardamento atomico, ndr), in un momento in cui “le tensioni globali sono in aumento” .

La bomba

La bomba sganciata su Hiroshima aveva un’intensità di circa 16 chilotoni a 580 metri di altezza sopra il parco dove si è svolta la commemorazione. Sono state uccise 80mila persone e gran parte della città è andata distrutta. Entro la fine del 1945 sono morte 140mila e negli anni successivi il numero delle vittime delle radiazioni è più che raddoppiato. Tre giorni dopo l’attacco a Hiroshima, gli Usa replicarono con una bomba su Nagasaki, che portò alla resa del Giappone e alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

L'Italia presente prossimo - i servizi segreti occidentali faranno attentati terroristici per piegare il Fronte del No al cambiamento costituzionale

“Unità nazionale” fondata sulla paura di Eugenio Orso
Posted on 6 agosto 2016
Finora l’Italia non ha subito gli effetti stragisti degli attentati islamosunniti sul suo territorio. A differenza di Francia e Belgio, ha potuto osservare la situazione con relativo distacco, senza dover fare la conta dei morti e dei feriti. Centinaia di vittime per ora evitate, in Italia, perché le devastanti azioni islamosunnite – sostenute sullo sfondo da Usa, Nato, Ue, Turchia, Arabia Saudita, Emirati, Qatar e Israele – sono la spia di una guerra sporca, di sterminio, senza limiti etici o di diritto internazionale, e colpiscono direttamente nel mucchio.

La posizione servile dell’Italia nei confronti dell’occidente neocapitalista e la dipendenza da Usa e Nato, potrebbero però cambiare le cose se è vero che questo governo metterà a disposizioni le basi (Sigonella) per attacchi aerei alla Libia.

I bombardamenti partiranno dall’Italia e si concentreranno su Sirte, dove i “fantasmi” dello stato islamico resistono, finora con successo, agli armati del governo fantoccio di Fayez al-Sarraj. Al-Sarraj e lo stato islamico hanno, in buona sostanza, gli stessi mandanti (fra i quali gli Usa), ma si combattono con ferocia, rispettando il copione stabilito per questa guerra.

Il fatto che i bombardieri Usa potranno partire dalla base aerea Sigonella, complice il governo renziano-piddino di provata fede filo-atlantista e filo-americana, esporrà il paese a severe rappresaglie da parte degli islamosunniti che praticano la jihad.

Avremo anche noi, fra poco, il nostro Bataclan, oppure l’esperienza di guerra dei “treni della morte” di Madrid? Per quanto sia abbastanza probabile che ciò accada, il governo renziano-piddino e i suoi padroni, o padrini, di New York, Washington e Francoforte sembra che non se ne preoccupino molto. Anzi, forse desiderano che ciò accada. Il vero problema è comprendere bene perché lo possono desiderare …

A loro non importa di qualche centinaio d’italiani morti e feriti, o dei danni materiali causati da autobombe, cinture esplosive e ordigni rudimentali. Se hanno avallato e favorito il massacro della popolazione siriana (quasi mezzo milione di morti) figuriamoci quanto gliene può fregare di qualche decina di morticini, qui da noi, o di un ospedale intasato dai feriti.

L’importante è che l’Italia, chiamata a partecipare offendo le basi per la “guerra infinita” al terrore, scatenata dai fautori internazionali del terrore stesso, faccia la sua parte e resti, a capo chino, nella prigione della Nato e dell’eurolager.

I futuri attentati di ritorsione islamosunniti, prevedibilissimi se non addirittura scontati, resi ancor più possibili dalle politiche dell’”accoglienza” indiscriminata, potrebbero portare altra acqua al mulino delle élite finanziarie globali, a sostegno dei loro governi collaborazionisti locali. Si tratta semplicemente di capire come e perché …

Immaginiamo già adesso la paura che scatenerà nel paese il primo attentato, seguito dal secondo a stretto giro di posta. La popolazione italiana, già infiacchita, ricattata e impaurita per motivi economici e sociali come la disoccupazione, l’insufficienza dei redditi popolari, la scomparsa del welfare, sarà disposta ad accettare qualsiasi soluzione politica nel paese – anche la peggiore, ipocritamente venduta come stabilità di governo! – nell’illusione di poter avere un minimo di sicurezza e di protezione nella vita quotidiana. Non capendo, naturalmente, che coloro che millanteranno di garantire la sicurezza (e la governabilità!) saranno gli stessi che hanno permesso ai terroristi/mercenari sunniti di fare strage.

Non dimentichiamoci che in autunno, nel mese di novembre se non in ottobre, ci sarà il referendum con la domanda delle “cento pistole”, un giudizio tranchant in termini di Sì o No sulla legge costituzionale, ma ancora di più sul governo renziano-piddino, collaborazionista di quelle élite che hanno fatto la “fortuna” (guarda caso) dello stato islamico, favorendo la diffusione della jihad sunnita anche in Europa.

C’è il rischio, per le élite finanziarie occidentali, che vincano i No al referendum, che il loro piddì s’indebolisca troppo e troppo rapidamente, in termini di consenso, addirittura che cada il loro governo e che l’Italia finisca fuori controllo. Cosa ci può essere di meglio di qualche attentato stragista, sul patrio suolo, per indurre dal basso una sorta di “Unità Nazionale” fondata sulla paura? Essere feriti gravemente, subire lesioni permanenti, veder morire un proprio caro tagliato in due da una raffica di fucile-mitragliatore, è più grave del perdere il posto di lavoro, del non poter pagare un’esosa bolletta della luce, del non poter permettersi le cure mediche dentistiche, o anche del perdere i magri risparmi, a causa del bail-in per il salvataggio della banca.

Gli assassini che manovrano Renzi, Pinotti, l’italiana Mogherini agli esteri per la Ue, esigono che l’Italia “faccia la propria parte”, nella sporca guerra elitista, e che non finisca fuori controllo, magari in mano a “populisti” a loro ostili.

In frangenti come gli attuali, con rischi di guerra, di attentati sul proprio territorio, di conseguente instabilità politica, il terrore stragista sul patrio suolo può tornare utile alle élite dominanti e ai loro squallidi collaborazionisti, che le servono … ad esempio concedendo basi aeree in Italia per bombardare Sirte e la Libia.

Il referendum costituzionale ci sarà in autunno, fra circa tre mesi, la “popolarità” di Renzi non è più quella di un tempo, il “prezioso” piddì, entità collaborazionista perno degli ultimi governi, rischia di collassare in termini di consenso. Ecco che, allora, alcuni attentati sanguinosi nella penisola, potranno impaurire la popolazione al punto di indurla “dal basso”, democraticamente ma in forza di paura, ad accettare l’ennesimo governo gradito alle élite occidentali e da loro sostenuto, accantonando sopraggiunti ma impossibili sogni di riscatto.

L’”Unità Nazionale” fondata sulla paura potrebbe voler dire un inciucio, in situazioni d’emergenza, fra il piddì stesso (con o senza Renzi, non importa) e i burattini a cinque stelle, che scalpitano da qualche tempo per accreditarsi come “forza di governo”, naturalmente sotto la supervisione e con l’approvazione di entità soprannazionali come la troika, la Nato, eccetera.

Altri miserabili attori subpolitici potrebbero sostenere il governo, magari dall’esterno ampliando la maggioranza alle camere, con la solita motivazione truffaldina: “senso di responsabilità nei confronti del paese”. Ricordate l’ABC (Alfano, Bersani, Casini) che garantiva a Monti una larga maggioranza in parlamento, con udc e popolo delle libertà in torta, oltre al piddì di Bersani?

I vantaggi, per le sole élite del danaro e della finanza e i loro collaborazionisti subpolitici, in una simile situazione saranno evidenti:

1) La continuità assoluta nelle politiche neoliberiste, che hanno generato la riforma delle pensioni di Fornero, il jobs act renziano, l’attuale riforma costituzionale da sottoporre a referendum (legge 12 aprile 2016), la diffusione dei voucher/ buoni lavoro in tutti i settori di attività, etc.

2) La permanenza, ancora per un po’, di quella che finora è stata la “migliore” entità subpolitica collaborazionista della troika, antinazionale, filo-atlantista ed euroserva, cioè il piddì. La nascita del “partito della nazione” in sostituzione del piddì, che Renzi e suoi padroni vorrebbero, è ancora incerta e in altro mare, mentre il piddì, nei prossimi mesi, sarà ancora utilissimo alle élite per realizzare i piani che hanno stabilito per l’Italia.

3) La possibilità di utilizzare a vantaggio del sopranazionale che ci controlla (finalmente!) il “partito di riserva” chiamato, sempre più ironicamente, movimento cinque stelle, che finora ha calmierato la situazione impedendo rivolte sanguigne della popolazione, o un’ipotetica avanzata dei “populismi” veri, ma ha sonnecchiato a lungo, in qualità di matricola del sistema, in parlamento e nel paese. Se ci avete fatto caso, tanti pennivendoli e giornalisti prezzolati, scrivono sui giornali e affermano in televisione che noi siamo fortunati, perché l’”opposizione” non è Orban, Putin, Le Pen, Trump, ma il pacifico cinque stelle, che impedisce una deriva violenta e xenofoba, tipicamente di destra! Costoro li pagano bene e li circondano di privilegi, come voi non avrete mai in cento vite, per ingannarvi alterando la realtà, e, di conseguenza, nell’interesse di chi gli ominicchi in questione fanno certe sparate? Il vostro?

4) Quarto punto, ma non certo l’ultimo per importanza, garantire la permanenza dell’Italia nel sistema di trattati (compreso il futuro TTIP) e alleanze internazionali (soprattutto la Nato) che ci sta stritolando, esponendoci a gravi rischi di guerra e di attentati sul nostro territorio.

Assisteremo entro l’anno a una sorta di “Unità Nazionale” politica dal basso, fondata sulla paura e sul ricatto?

A me la cosa sembra abbastanza probabile. Dopo i primi bombardamenti in Libia con l’uso di basi aeree in Italia, avremo modo di costatarlo … sulla nostra pelle!

Marocco - i manuali scolastici, dalle scuole primarie al liceo, dovranno essere conformi ai valori della Costituzione del 2011. Sparirà così qualsiasi rappresentazione sessista, razzista o estremista

Marocco: vietati riferimenti sessisti o estremisti nei testi scolastici
Di Emanuela Barbieri il 31 luglio 2016
Il ministero dell'Istruzione ha ordinato una grande operazione di pulizia per eliminare ogni espressione di discriminazione contro le donne e qualsiasi riferimento religioso che possa favorire la violenza e l'estremismo


Il Marocco ha le idee chiare: il male va curato alla radice. Per sanare una società che ha prodotto negli ultimi anni troppi elementi corrosivi, bisogna partire dall’istruzione.

Il ministero dell’Istruzione ha ordinato una grande operazione di pulizia per eliminare ogni espressione di discriminazione contro le donne e qualsiasi riferimento religioso che possa favorire la violenza e l’estremismo.

A partire da settembre, i manuali scolastici, dalle scuole primarie al liceo, dovranno essere conformi ai valori della Costituzione del 2011. Sparirà così qualsiasi rappresentazione sessista, razzista o estremista. Dalle bambine che aiutano la mamma a lavare i piatti ai papà davanti alla tv con i figli maschi mentre le donne cucinano, dalle bambine velate che danno da mangiare ai piccioni ai fqih nella scuola coranica con il bastone in mano: cliché sessisti che sono stati sempre presenti nei testi scolastici in Marocco apparterranno a breve al passato.

A lanciare l’allarme, lo stesso re Mohammed VI. In occasione di un Consiglio dei Ministri, nel mese di febbraio, ha chiesto la revisione dei programmi di educazione religiosa che devono “concentrarsi sulla formazione dei valori di tolleranza dell’Islam, che sostiene equilibrio, moderazione, tolleranza e convivenza con diverse culture e civiltà. ” A seguito della volontà reale, il Ministero della Pubblica Istruzione ha deciso di generalizzare la riforma richiesta dal re nel campo dell’educazione religiosa a tutte le materie insegnate.

Non mancano certamente i dubbi sull’efficacia della decisione del re. L’Associazione degli Insegnanti di educazione islamica, composta da 20mila membri, ha inviato una lettera sferzante nel mese di giugno al ministero, per protestare contro i suoi piani di ribattezzare “educazione religiosa” il corso di educazione islamica.

“Questo cambiamento potrebbe portare a gravi conseguenze, perché gli studenti ci vedono come un’autorità musulmana. Ne riceviamo a centinaia in procinto di passare a l’estremismo, che si rivolgono a noi per un consiglio su Daesh, sul rapporto con l’Occidente o con le altre religioni … Come essere convincenti se perdiamo il nostro ruolo?”, chiede Abdallah Laâssiri, membro dell’associazione, come riporta Jeune Afrique in un articolo dello scorso 27 luglio.

Secondo Boubker Largou, Presidente dell’Organizzazione marocchina per i diritti umani (MOHR), “bisogna smettere di concepire l’educazione islamica come una materia separata. I diritti umani garantiscono tutte le libertà, compresa la libertà religiosa”.

Negli anni ’60, molti studenti marocchini hanno seguito un corso chiamato “educazione religiosa”, che ha insegnato loro le basi della religione e valori come il perdono, l’uguaglianza o il rispetto, valori sostenuti da tutte le religioni. È diventato “educazione islamica” nel 1990, con l’ascesa del wahhabismo e dell’Islam politico.

Lo Stato deve determinare nella sua riforma dell’istruzione se vuole un approccio universalista o religioso. Difficile rispondere in un paese governato da un monarca che è allo stesso tempo leader politico e religioso.

In Marocco, l’evoluzione sociale continuerà ad esistere nel confronto dei valori.

Austria - i brogli elettorali ci sono stati e invece di dichiarare Hofer vincitore il 2 ottobre nuove elezioni. Ma il voto popolare straccerà gli imbroglioni



Austria di nuovo al voto

Simone Zuccarelli 3 agosto 2016

In 3 sorsi – In Austria la Corte costituzionale ha annullato i risultati del ballottaggio che avevano visto prevalere il candidato indipendente Alexander Van der Bellen sullo sfidante Norbert Hofer (FPÖ). Le elezioni verranno ripetute in ottobre. Quali scenari attendersi?

1. LA SENTENZA STORICA – La Corte costituzionale austriaca, con una sentenza storica, ha reso nulli gli esiti del ballottaggio – tenutosi in data 22 maggio – che aveva visto prevalere il candidato indipendenteAlexander Van der Bellen per gravi irregolarità nello scrutinio delle schede. Il ricorso è stato presentato alla Corte dal Partito della libertà austriaco, uscito sconfitto per poche migliaia di voti. La Corte ha precisato, in merito, che non esistono prove che attestino la manipolazione dei risultati elettorali ma, nonostante ciò, ha ritenuto necessario annullare elezioni in quanto le irregolarità al momento dello scrutinio – apertura anticipata di alcune schede, presenza di persone non autorizzate – potrebbero avere inficiato gli esiti finali. Le irregolarità denunciate hanno riguardato la quasi totalità dei seggi – 94 su 117, per un totale di 573.275 schede. Per la Corte le irregolarità hanno coinvolto, invece, 77.926 schede, un numero inferiore a quanto denunciato dal Fpö ma più del doppio rispetto al margine di Van der Bellen su Hofer – e ciò non può che avere pesato sulla decisione finale. Gehrart Holzinger, presidente della Corte costituzionale, esprimendosi sulla decisione presa, ha asserito: «Le elezioni sono il fondamento della nostra democrazia e il nostro compito è di garantirne la regolarità. La nostra sentenza deve rafforzare il nostro Stato di diritto e la nostra democrazia». Come fatto notare da Der Spiegel, tra l’altro, leirregolarità sono attribuibili ad ambo le parti, dato che molti commissari di seggio accusati delle stesse appartengono al Fpö. Le nuove elezioni si terranno probabilmente il prossimo 2 ottobre.

2. L’ANTEFATTO – Le elezioni che si sono tenute il 24 aprile (primo turno) e 22 maggio (secondo turno) sono state senza dubbio tra le più polarizzate nella storia austriaca del secondo dopoguerra. L’esito delprimo turno, infatti, ha visto emergere la figura di Norbert Hofer che, collezionando il 36% delle preferenze, ha staccato nettamente il rivale più prossimo, Alexander Van der Bellen – indipendente ma con un passato da leader dei verdi – fermatosi al 20%. Performance assai negativa, invece, per i partiti tradizionali: i candidati espressi dal Partito Social Democratico e dal Partito Popolare, infatti, si sono fermati al quarto e al quinto posto, totalizzando circa l’11% delle preferenze ciascuno. Al secondo turno, però, i voti dei moderati si sono concentrati su Van der Bellen, che in tal modo è riuscito nell’impresa direcuperare lo svantaggio del primo turno e superare Hofer per una manciata di preferenze (50,35% contro 49,65%). A fare la differenza è stata l’ingente mole di voti arrivati via posta (14% del totale) che ha ribaltato il risultato iniziale del secondo turno che vedeva, invece, vittorioso il candidato espressione del Fpö con il 51,9% delle preferenze. Se la Corte non avesse annullato le elezioni, l’ex leader dei verdi si sarebbe insediato lo scorso 8 luglio.

3. INSTABILITÀ ALLE PORTE – Ad accendere ulteriormente uno scontro già notevolmente infiammato concorrerà l’esito del referendum inglese per l’uscita dall’Unione: da una parte Van der Bellen si mostraostile non solo all’ipotesi di allentamento dei vincoli con l’UE, ma anche a qualsiasi espressione di un nazionalismo che considera vetusto e foriero di conflitto. Hofer, al contrario, fa dell’espressione nazionalistica il tratto caratteristico della sua campagna elettorale. La strategia adottata – in un momento in cui, vista la recente crisi dei migranti e gli attriti con i Paesi limitrofi, molti cittadini austriaci hanno identificato nell’uomo forte e nell’ideologia “forte” la soluzione ideale ai loro problemi e paure – si è rivelata vincente, permettendo al candidato espressione del Fpö di raggiungere un risultato storico per il partito. La Brexit, però, sembra aver fatto sorgere negli austriaci – perfino tra i più euroscettici – alcunitimori legati alle effettive possibilità di successo per l’Austria nel caso uscisse dall’UE. Gli ultimi sondaggi, infatti, attribuiscono al fronte dell’“Öexit” dal 23% al 30% dei consensi, con un trend al ribasso rispetto ai dati pre-Brexit. Conscio del clima sfavorevole in merito, il candidato del Fpö ha sostenuto di non appoggiare l’uscita dall’Unione, ha criticato la decisione inglese e ha tenuto a rimarcare che essa sarebbe soltanto l’ultima ratio per l’Austria, da prendere in considerazione unicamente qualora entrasse la Turchia nell’UE o se venissero approvati trattati più accentratori (volutamente dimentico, come nel caso del fronte Brexit, del fatto che tali misure richiederebbero l’unanimità e, conseguentemente, all’Austria sarebbe sufficiente votare contrariamente per bloccare tutto il processo). La Brexit, dunque, non sembra in grado di favorire – viste le ricadute negative che sta avendo su tutta Europa – Hofer. Stando ai dati dell’ultimo Eurobarometro (novembre 2015), però, la principale preoccupazione per gli austriaci (con il 66% delle preferenze espresse) risulta l’immigrazione. Per questa ragione, nonostante il notevole impatto della Brexit, sarà su tale tematica che, probabilmente, si giocheranno le prossime elezioni. In merito a essa, anche alla luce dell’ennesima tragedia in Francia, il candidato del Fpö parte avvantaggiato: sono, infatti, le dimostrazioni di forza, inflessibilità e patriottismo a instillare, quantomeno a livello di percezioni immediate, una maggiore sensazione di sicurezza, e ciò in un momento in cui l’instabilità permea l’ambiente internazionale, potrebbe garantire a Hofer la spinta necessaria per conquistare la presidenza. Tuttavia, Van der Bellen ha dimostrato un’elevata capacità di attirare attorno a sé i consensi di tutti gli austriaci che non si riconoscono nei messaggi e nelle letture date da Hofer e dal suo partito: ciò, vista anche l’innumerevole mole di variabili capace di influenzare l’esito elettorale, preannuncia un ennesimo, duro, testa a testa che vedrà contrapporsi, quasi manicheisticamente, due visioni dell’Europa (e del mondo) posizionate ai poli opposti dello spettro politico.

Simone Zuccarelli

Alexander Van der Bellen: 72 anni, economista ed ex preside della facoltà di Scienze economiche di Vienna, ha consentito al suo partito (i Verdi) di raddoppiare i consensi sotto la sua guida. È un europeista convinto.
Norbert Hofer: 45 anni, ingegnere, appellato, per i suoi modi pacati, come un lupo travestito da pecora. Il suo cavallo di battaglia è: «Austria e austriaci per primi».
L’Austria è una repubblica parlamentare federale. Il Presidente è eletto direttamente e resta in carica per sei anni. Il mandato è reiterabile una sola volta. Risulta una carica per lo più cerimoniale, ma è insignito di numerosi poteri. Per approfondire, rimando al sito ufficiale della presidenza austriaca.

Ecuador - Correa utilizza la Moneta Complementare (fiduciaria)



L’Ecuador di Correa e il Governo della moneta, una questione aperta

Riccardo Evangelista 3 agosto 2016
L’Ecuador di oggi è il frutto delle drastiche decisioni di politica monetaria di Correa. Sarà in grado di continuare sulla strada della giustizia sociale? Oppure il suo destino è strettamente legato a quello del Presidente, principale artefice delle riforme economiche?

CORREA E LO SCENARIO DI CONTROVERSIE MONETARIE – Le recenti esperienze di politica monetariadell’Ecuador possono apparire, ad un primo sguardo, piuttosto singolari se non addirittura stravaganti. La “dollarizzazione” di inizio millennio e il rifiuto di pagare le rate del debito estero nel 2009 sono gli esempi più clamorosi, ai quali si accompagnano uno stretto controllo sulle riserve delle banche private e la sperimentazione, iniziata nel 2015, di una moneta elettronica direttamente emessa dalla Banca Centrale. Al di là del clamore talvolta denigratorio che tali misure hanno generato, esse aprono a nuovi orizzonti di sperimentazione economica che è opportuno comprendere sia nei presupposti che nelle conseguenze, gettando anche un implicito sguardo comparativo sull’Europa odierna, in cui il vincolo monetario appare particolarmente stringente. Procediamo con ordine a una breve ricognizione dei fatti.

I DELUDENTI RISULTATI DI UNA DECISIONE DRASTICA – Il primo punto di svolta è collocabile nel settembre del 2000, quando l’allora presidente Jamil Mahuad decise di adottare il dollaro statunitense come moneta nazionale. L’obiettivo dichiarato era di combattere la galoppante inflazione (nel 1999 arrivata al 61%) e l’inarrestabile svalutazione del sucre, la vecchia moneta, dovuta a una bilancia dei pagamenti costantemente in passivo. I risultati di una manovra talmente drastica da non avere precedenti né seguiti in America Latina sono stati subito buoni per quanto riguarda l’inflazione, ma molto deludenti nel processo di riduzione del debito estero, la cui ascesa era ritenuta strettamente correlata alla svalutazione continua della moneta nazionale. I prestiti, infatti, erano stati nominalmente contratti in dollari. Anche con la rivalutazione forzosa, però, il debito estero è continuato a lievitare passando dai 13.000 miliardi di dollari nel 2000 ai 17.000 nel 2006, in una spirale che l’automatismo degli interessi crescenti impediva di arrestare.

CORREA E UN DEBITO DA NON PAGARE – Il secondo punto di svolta arriva nel 2007, quando viene eletto Presidente della repubblica Rafael Correa. Formatosi come economista prima in Belgio e poi negli Stati Uniti, Correa è stato uno dei fautori, insieme a Chávez in Venezuela e a Morales in Bolivia, della cosiddetta rivoluzione bolivariana, l’auspicato nuovo corso di politica economica avente come scopo la progressiva emancipazione delle nazioni latinoamericane dal capitale internazionale. Personaggio di indubbio spessore intellettuale e carisma politico, Correa è diventato immediatamente poco gradito allafinanza internazionale, di cui aveva più volte dichiarato di conoscere i meccanismi talvolta perversi. Il motivo specifico dell’antipatia va individuato nelle numerose dichiarazioni di Correa, sia come ministro nel 2005 che durante la campagna presidenziale del 2006, contro la legittimità dell’ingente debito estero ecuadoriano. Alle parole sono seguiti i fatti.

Le conseguenze dell’indebitamento ecuadoriano erano diventate, nel 2007, tra le più drammatiche del continente latinoamericano. Il servizio del debito estero (dato dal pagamento delle rate più gli interessi) aveva infatti superato il 40% del bilancio nazionale, assorbendo una grossa fetta della spesa pubblica potenzialmente destinata ai servizi sociali essenziali e agli investimenti sulle infrastrutture. Così, nel novembre 2008, dopo uno studio condotto dalla Comisión para la Auditoría Integral del Crédito Público (CAIC), appositamente creata, l’Ecuador dichiara illegittimi i debiti contratti precedentemente. La motivazione risiede nel principio del debito odioso e immorale, riconosciuto dal diritto internazionale. Il capitale, queste le conclusioni dell’inchiesta, non era stato destinato alla spesa pubblica produttiva, ma perlopiù sperperato in progetti eterodiretti e inutili o, addirittura, appropriato in modo fraudolentodall’élite economica nazionale e le dittature militari, con la complicità delle banche straniere.
Il solo annuncio di insolvenza spaventa le Borse, e alla fine del 2008 inizia una corsa alle vendite dei titoli di debito ecuadoriani, che perdono oltre il 60% del loro valore nominale di emissione in poche settimane. Nel corso del 2009 l’Ecuador li riacquista a un valore di molto inferiore e, pur non dichiarando mai tecnicamente il default, riesce di fatto a sgonfiare vistosamente il valore del debito. Un’operazione finanziaria indubbiamente ad alto rischio di destabilizzazione politica ed economica ma, analizzata a distanza di qualche anno, lungimirante e soprattutto efficace. Il vecchio brocardo in voga negli Stati Uniti durante la crisi del 1929 secondo cui se devi alla banca una piccola somma, la banca ti possiede, ma se devi alla banca una grande somma, possiedi tu la banca, non deve essere sfuggito a Correa.

IL GOVERNO DELLA MONETA – La situazione odierna dell’Ecuador, quando Correa si appresta a terminare il suo terzo mandato dichiarando che non si ricandiderà, è anche il risultato delle due scelte di cui si è raccontato. La “dollarizzazione” dell’economia, ad esempio, è stata mantenuta, nonostante i ripetuti annunci di un suo superamento. I vantaggi per l’inflazione, piaga storica dell’America Latina, appaiono infatti evidenti e nel 2015 la perdita del valore della moneta si è fermata al 4%, un dato poco preoccupante anche a fronte di un rallentamento della crescita economica, stimata ancora inferiore all’1% nel 2016. E se in termini di politica economica internazionale ciò può aver comportato un limite in un Paese la cui economia è ancora fortemente dipendente dalle esportazioni di prodotti primari, la drastica riduzione del debito estero ha liberato risorse da investire all’interno, nonostante il crollo del prezzo del petrolio, i cui introiti superano il 70% sul totale delle esportazioni.
La moneta solida e l’acquisizione del debito estero, oltre che la legge bancaria sull’obbligo di detenzione in patria di almeno il 60% dei depositi, hanno però compensato la vulnerabilità della bassa diversificazione produttiva, permettendo il mantenimento di una spesa pubblica adeguata a continuare gli investimenti e la rincorsa alla riduzione della povertà. I dati sono incoraggianti: dal 2006 al 2015 la percentuale della popolazione al di sotto della linea di povertà è passato dal 38 al 22,5%, mentre l’indice di Gini, che misura la disuguaglianza distributiva, dallo 0,54 allo 0,47%. Anche se nel 2016 la disoccupazione ha toccato il 7% e già nel corso del 2015 le proteste si sono fatte progressivamente più incalzanti, le scelte di politica economica di Correa sembrano ancora reggere il colpo della crisi economica e mantenersi coerenti con i proclamati obiettivi di giustizia sociale. L’Ecuador, in una fase di forte instabilità di tutto il continente latinoamericano, sembra consegnarci un insegnamento importante: lamoneta deve essere al servizio della società, non la società a servizio della moneta.

GLI ENIGMI FUTURI – Almeno due sono gli interrogativi che permangono. Il primo riguarda il destino di Correa, che nel 2017 terminerà il mandato. Ancora più del Venezuela e della Bolivia, la recente esperienza economica dell’Ecuador sembra strettamente legata a quella della personalità del suopresidente-economista, a cui agli eccessi di protagonismo fanno da contrappeso per nulla banali visioni politiche di lungo periodo. Il secondo interrogativo riguarda, ancora una volta, la questione petrolifera: in una fase in cui i prezzi del petrolio non risalgono, sarà difficile per il futuro presidente mantenere ilconsenso sociale senza aumentare la produzione, decisione che si scontra con la mai risolta questione indigena, legata alla preservazione della giungla amazzonica. D’altro lato, gli investimenti esteri cinesisembrano voler sostituire quelli statunitensi. Nodi intricati che vanno affrontati al più presto.

Riccardo Evangelista
Un chicco in più
L’ultima battaglia monetaria di Correa è quella contro i paradisi fiscali, accusati di sottrarre in modo fraudolento risorse per lo sviluppo dei Paesi poveri. Anche a causa del declino dei governi venezuelano e boliviano cerca al riguardo un alleato d’eccezione: il Vaticano

Argentina - Macri nel giro di un anno scarso sta regalando pezzi del paese alle Multinazionali svendendo il proprio popolo



Argentina: cosa ci siamo persi?
Riccardo Antonucci 2 agosto 2016
In 3 sorsi – Tra default, scarsa credibilità internazionale e inattesa svolta a destra, l’Argentina deve fare i conti con le speranze della propria popolazione, desiderosa di guardare al futuro. I tempi, però, sono ancora fortemente incerti

1. IL CAMBIO DI VERTICE – Le elezioni dello scorso autunno hanno segnato un cambiamento storico per lo Stato sudamericano: la presidenza dell’Argentina è stata conquistata dal candidato di centro-destraMauricio Macri. Duro avversario del peronismo, ha affermato con decisione la propria volontà di riportare in condizioni sostenibili il bilancio dello Stato, facendo prospettare un nuovo periodo diausterity per il Paese. Si tratta della chiusura di una stagione politica durata 12 anni.

Il partito di Macri, Pro (Proposta repubblicana) si fa portavoce degli interessi della destra economica e politica nazionale, portando avanti una forte campagna per la ripresa delle liberalizzazioni e dell’apertura nei confronti dei capitali esteri, ammorbidendo ogni programma di intervento statale nell’economia e di controllo dei prezzi, e cominciando con l’abolizione delle tasse su grano, mais e carne,prodotti destinati soprattutto all’esportazione in Occidente. L’eliminazione dei sussidi pubblici volta a compensare la riduzione delle tasse ha provocato un generale aumento dei prezzi del trasporto pubblico, della benzina e dell’energia.
Non potendo contare su una maggioranza parlamentare, il Presidente Macri ha fatto ampio ricorso alDecreto di necessità e urgenza (Dnu), strumento costituzionale che gli ha concesso di liquidare le politiche pubbliche attuate da chi lo ha preceduto.

2. LA QUESTIONE DEGLI HEDGE FUNDS ED IL RUOLO DELL’EUROPA – La spinta a creare una via alternativa al Fondo Monetario ed alla Banca Mondiale, promossa da Kirchner nel vertice di Fortaleza(riscuotendo l’appoggio anche di Xi Jinping e Vladimir Putin) come reazione al respingimento dell’appello dello Stato argentino nel processo relativo agli hedge funds a Washington (sentenza emessa da Thomas Poole Griesa il 16 giugno 2014) sembra essere stata abbandonata dal Presidente Macri.Quest’ultimo, firmando un accordo con i creditori ed eliminando il controllo sui cambi dollaro/peso argentino, ha ottenuto il favore della finanza internazionale da cui l’Argentina di Kirchner era stata esclusa.
Oltre alla liquidazione di un progetto che prometteva l’inaugurazione di un contrappeso per le principali istituzioni finanziarie e politiche mondiali, il Governo Macri punta verso le economie occidentali, come testimoniano due eventi politici particolarmente interessanti: il 12 luglio è stato avviato un incontro fra una delegazione di funzionari argentini, fra cui il viceministro delle Finanze Pedro Lacoste, e rappresentanti dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), come ha riferito il Deputy Director for Financial and Enterprise Affairs Pierre Poret in una conferenza stampa. Secondo la nota ufficiale, nel ciclo di incontri che seguiranno si discuterà di tre punti fondamentali: i pro e i contro di un eventuale ingresso dell’Argentina nell’OCSE, le regole a cui dovrà conformarsi ed i mezzi per attirare nuovamente gli investitori.
A questo fatto si aggiunge, sempre in data 12 luglio, l’affermazione del ministro degli Esteri argentinoSusana Malcorra che le trattative fra Mercosur (area di libero scambio tra Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e Venezuela) ed Unione Europea non saranno influenzate dal Brexit. Essendo l’Europa, assieme agli Stati Uniti, uno dei principali mercati per l’industria alimentare argentina – che lo stesso Macri ha detassato –, è possibile ritenere che tale dichiarazione sia una conferma ulteriore della volontà di non perdere l’accesso ad un’importante fonte di reddito per il Paese. Tra l’altro il desiderio di mantenere stretti contatti con l’Unione è comprensibile a seguito dell’appoggio della Banca Europea d’Investimenti ottenuto da Macri nei primi giorni di luglio, tramite cui il Governo accede ad ulteriori linee di credito che potrebbero risultare determinanti nel processo di restituzione del debito di cui si è parlato precedentemente.

3. I NUOVI EQUILIBRI DEL SUDAMERICA – La politica estera di Macri deve fare i conti con l’intricarsi delle relazioni diplomatiche con le nazioni limitrofe. Alla spinta verso le economie occidentali si aggiunge infatti il contrasto tra il Venezuela, candidato alla presidenza pro tempore del Mercosur, ed i Governi diParaguay, Argentina e Brasile, i quali non vedono di buon occhio l’eventualità che il Presidente venezuelano Maduro si aggiudichi un ruolo di tale spessore. L’acquisizione da parte del leader socialista di una posizione così rilevante potrebbe compromettere, o rendere comunque ben più difficile, il percorso di avvicinamento fra Mercosur ed UE su cui il ministro degli Esteri argentino Malcorra ha preventivamente rassicurato gli animi alla luce del Brexit.
Attualmente Macri può contare numerose affinità ideologiche con alcuni dei principali leader politici dell’America meridionale, a cominciare dal Brasile: Michel Temer, capo del Governo ad interim a seguito dell’impeachment di Dilma Rousseff (di cui Macri sosteneva la legittimità del processo), ha intrapreso un programma liberista per ridimensionare il deficit pubblico, nonché un consolidamento delle relazioni con Buenos Aires.

La strategia di avvicinamento diplomatico fra i due Paesi è spendibile da Macri e Temer per ridurre l’influenza da parte del Venezuela all’interno del Mercosur, eventualità che vede contrariato anche ilParaguay. L’attuale Presidente della Repubblica Horacio Manuel Cartes Jara, preoccupato anch’egli per la possibilità di veder il Mercosur in mano ad un leader chavista, ha un profilo politico molto simile a quello di Macri: conservatore, svolge l’attività di imprenditore con notevoli risultati e promuove una politica economica liberista che si concilia con l’orientamento del Presidente argentino, motivo per cui entrambi sono particolarmente desiderosi di superare il problema venezuelano. Il rischio principale è che la presidenza pro tempore di Maduro possa minare l’interazione con l’Alianza del Pacifico (un progetto di integrazione regionale firmato da Messico, Cile, Colombia e Perù) e danneggiare le economie dei membri del Mercosur stesso, fra cui proprio l’Argentina.

Riccardo Antonucci
Un chicco in più

Alla base del Mercosur vi è non solo una mossa prettamente economica, bensì un progetto politico che punta a ridurre l’influenza del potere economico straniero nei confronti delle nazioni sudamericane. O almeno, così era fino a quanto si è avuta la concordia ideologica fra le nazioni che lo componevano. Con lo spostamento degli equilibri politici verso posizioni che sembrano rispecchiare di più gli interessi della borghesia nazionale, manifestato anche dal referendum perso da Evo Morales e dalla sconfitta elettorale di Maduro ed accentuato dalla vittoria di Macri, si sta assistendo ad una forte crisi del mercato comune che potrebbe avere conseguenze importanti sulla politica interna dei Governi coinvolti.
Per approfondire la crisi ideologica del Mercosur, cliccare qui. 

http://www.ilcaffegeopolitico.org/44939/argentina-cosa-ci-persi?utm_source=wysija&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter

PTV News 5 agosto - Ammazzato capo Isis in Egitto

Hiroshima&Nagasaki - USA e NATO stanno giocando col fuoco provocando in tutti i modi possibili la Russia, per puri e francamente difficilmente comprensibili ai comuni mortali “calcoli”

Siamo tutti cittadini di Hiroshima!

05.08.2016 Angelo Baracca
Siamo tutti cittadini di Hiroshima!
Sono passati ben 71 anni dal più barbaro, immotivato e insensato, delitto del XXo secolo, le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Settantun anni di rituali commemorazioni: rituali, ma anche ipocrite, non tanto perché non sia doveroso non dimenticare (si dovrà continuare a farlo finché l’umanità esisterà), ma perché in questi 71 anni non solo non sono stati presi i provvedimenti perché un crimine come quello non possa ripetersi, ma addirittura sono state create le condizioni perché le armi nucleari generino un cataclisma di fronte al quale le bombe sul Giappone sarebbero botti di capodanno! Settantun anni nei quali non ci si stanca di ribadire, inutilmente, davanti a questo crimine che le grandi potenze che dominano – e stanno portando alla distruzione – il mondo con tutti i suoi abitanti hanno sempre disatteso gli obblighi precisi e vincolanti di eliminare gli armamenti nucleari dalla faccia della Terra (come del resto hanno brutalmente violentato, per i loro ignobili interessi, il Diritto Internazionale e i diritti umani).
Vogliamo rifare brevemente per la settantunesima volta la storia degli armamenti nucleari, per chi (soprattutto i giovani) non la ricordasse? Il Trattato di Non Proliferazione del 1970 impegnava all’Art. VI “tutti gli Stati a perseguire negoziati in buona fede e con misure effettive per arrivare ad una cessazione della corsa agli armamenti nucleari e ad una convenzione di disarmo generale e totale sotto un rigido ed effettivo controllo internazionale”. E invece si scatenò un’insensata corsa agli armamenti ed una crescita degli arsenali nucleari a livelli di pura idiozia (quasi 70.000 mila testate nucleari, capaci di una distruzione totale del pianeta un numero enorme di volte), visto che anche i potenti hanno i piedi su questa Terra.
Con la fine della Guerra Fredda il pretestuoso ruolo, sia pure demenziale, di deterrenza delle armi nucleari venne a cadere, e si aprirono grandi speranze di una loro eliminazione. L’8 luglio del 1997 – giusto 20 anni fa – la Corte Internazionale, su richiesta dell’Assemblea Generale dell’ONU, emise il parere che, non solo il ricorso, ma “la minaccia e l’uso delle armi nucleari sono in linea generale in contrasto con le norme del diritto internazionale”. Ma proprio negli anni successivi le tensioni internazionali e le guerre aumentarono, e il processo di eliminazione delle armi nucleari rallentò: perché i geniali strateghi che stanno portando il mondo all’annientamento decisero che le armi nucleari sono troppo comode, “risolutive” in un conflitto, anche se condurrebbero all’Armageddon, e fregandosene dell’obbligo di eliminarle, ricominciarono ad investire fior di miliardi per ammodernarle e costruire sistemi di lancio sempre più sofisticati.
Così, oggi esistono ancora nel mondo più di 15.000 testate nucleari intatte: immaginate di metterle in fila, mezzo metro ciascuna, coprirebbero 8 km! Ma c’è di peggio. Di queste 15.000 testate (un migliaio sono di Francia, Gran Bretagna, Cina, Israele, India, Pakistan e Nord Corea) più di 3.700 sono schierate operative di Stati Uniti e Russia, tenute costantementein stato di allerta, pronte al lancio immediato su allarme (early warning , o hair trigger, letteralmente “con il dito sul grilletto”), puntate su obiettivi strategici dell’«avversario». Questa è stata chiamata senza mezzi termini una vera “ricetta per il disastro”!
Insomma, i potenti della Terra hanno tenuto per settantun anni tutta l’umanità sull’orlo del completo annientamento, pronti a ripetere centuplicato l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, insensibili e sprezzanti di tutti gli obblighi vincolanti, e degli appelli accorati – e sensati – ad eliminare le armi nucleari. Altro che la retorica delle commemorazioni rituali delle bombe sul Giappone! Che hanno raggiunto il culmine dell’ipocrisia con la recente visita del Premio Nobel per la Pace Obama ad Hiroshima, dove egli onestamente avrebbe dovuto dire “Altro che pentito! Altro che scuse! Sotto la mia Amministrazione abbiamo investito decine di miliardi per avere arsenali sempre più efficienti e pronti ad annientare non solo voi, ma il mondo intero”.
Forse sarebbe molto più appropriato, e meno retorico e ipocrita, commemorare il 6 e 9 agosto, insieme alle vittime delle due bombe atomiche, l’operato oscuro di quelle persone che, assumendosi un’immensa responsabilità, hanno salvato l’umanità evitando, in presenza di un allarme di un supposto attacco atomico, di fare scattare una ritorsione nucleare senza che fosse giunta la conferma definitiva che si trattasse di un falso allarme: questi sono stati veri eroi dell’umanità, genuini Nobel per la Pace, certamente più di Obama. Il primo a farlo, con straordinario sangue freddo, il 7 ottobre 1962, al culmine della crisi dei missili a Cuba, fu Vassilij Arkhipov, capitano di fregata del sommergibile sovietico B-59: con questa decisione coraggiosa egli acquistò un merito incommensurabile verso l’umanità, cambiò letteralmente il corso della storia, purtroppo lo abbiamo appreso solo dopo 40 anni, quando Vassilij era già deceduto. Gli allarmi per errore, e le decisioni di contravvenire agli ordini e di evitare di far scattare la fine del mondo, si sono ripetuti molte volte nella storia dell’era nucleare, probabilmente sono noti solo in parte.
Gli insensati padroni del mondo, strateghi del disastro globale, non si accordano neppure per adottare per lo meno una misura immediata, elementare anche per un bambino (ma Olivier Turquet ci insegna giustamente che i bambini capiscono molte cose meglio dei grandi, sono meno condizionati): deallertare i lanciatori nucleari! Se semplicemente (!) si separassero le testate dai missili, ci vorrebbero giorni, o magari settimane, per preparare un attacco nucleare, dando tempo per negoziati che lo rendano inutile.
Il settantunesimo anniversario di Hiroshima deve suscitare in tutte le donne e gli uomini l’obbligo morale di mobilitarsi per eliminare il rischio delle armi nucleari dalla storia! Come? Che cosa si può fare contro il Moloc del potere mondale? Ce lo insegnano le minuscole Isole Marshall, una Repubblica nel Pacifico indipendente dal 1986, con appena 50.000 abitanti, note per l’atollo di Bikini, teatro di ben 67 test nucleari statunitensi nell’atmosfera dal 1946: i residenti vennero deportati su isole molto più piccole dove non potevano pescare, e da allora sono dipesi da forniture di cibo; il più potente test nucleare mai condotto, nel 1954, provocò con il fallout una malattia da radiazione negli isolani delle Bikini che vivevano in un vicino atollo. Il breve tentativo di ripopolare Bikini negli anni ’70 abortì quando i problemi di salute causati dalla radioattività nella catena alimentare forzarono ad una nuova evacuazione. Bikini rimane inabitabile, lo specchio di quello che diventerebbe il mondo nel caso di un conflitto nucleare. Bene, nel 2014 questa minuscola Repubblica iniziò una causa titanica presso la Corte Internazionale contro gli Stati nucleari affinché si accerti se essi hanno violato l’obbligo di disarmo nucleare (si veda http://www.icj-cij.org/docket/files/160/18296.pdf). Le Isole Marshall sono assistite nella causa da avvocati della Ialana (International Association of Lawyers Against Nuclear Arms) e da alcuni legali volontari, la controparte ha un potere e mezzi immensi, ed è ovviamente intenzionata ad opporre mille pretesti, che ci riportano all’ipocrisia delle commemorazioni di Hiroshima. La Corte ora sta esaminando preliminarmente la sua competenza giurisdizionale, l’esito è incerto ma sarà presumibilmente pubblicato nei prossimi 5-10 mesi.
È forse quasi superfluo dire che a noi italiani, che siamo 1.200 volte di più degli abitanti delle Marshall, corre un obbligo proporzionalmente molto minore, imporre agli USA, alla NATO e a al nostro governo – che di USA e NATO è totalmente succube – di rimuovere, ed eliminare, la novantina di testate nucleari che sono sul nostro suolo – in violazione degli obblighi del TNP – nelle basi militari di Ghedi Torre e di Aviano, e che gli Stati Uniti hanno appena ammodernato con a modica spesa di 10 miliardi: sempre a proposito dell’ipocrisia delle commemorazioni di Hiroshima!
Obiettivo tanto più attuale dato che USA e NATO stanno giocando col fuoco provocando in tutti i modi possibili la Russia, per puri e francamente difficilmente comprensibili ai comuni mortali “calcoli” (!) di potere: se la Russia venisse messa veramente alle strette e costretta a difendersi, dovrebbe con ogni probabilità fare ricorso al suo arsenale nucleare (la spesa militare della Russia è un decimo di quella degli Stati Uniti); e in tale terribile evenienza le basi nucleari in Italia diventerebbero un obiettivo per una ritorsione nucleare devastante. Ovviamente USA e NATO accusano la Russia, dopo averla accerchiata militarmente fin sotto i suoi confini, di costituire una minaccia: a parte richiamare alla mente tante fiabe che ci raccontavano da bambini, è il caso di ricordare che dal dopoguerra gli Stati Uniti sono intervenuti in più di 200 azioni di ingerenza, destabilizzazione e aggressione militare, per la maggior parte ingiustificate e arbitrarie (http://kaosenlared.net/informe-sobre-el-imperialismo-estadounidense-y-la-presencia-de-obama-en-espana/).
Di fronte a questa situazione ed alla palese follia dei potenti del mondo, il 6 e 9 agosto dovremmo cominciare tutti a gridare forte e chiaro “Siamo tutti cittadini di Hiroshima e Nagasaki!”.
P. S. Trump ha scelto proprio la vigilia dell’anniversario di Hiroshima per dirci che se sarà eletto userà le armi nucleari. Siete scandalizzati? Ma attenti, su questo è solo più sincero di Hillary: anche lei le userà se proseguirà la strategia di provocare la Russia, addossando naturalmente le colpa a quest’ultima. Ma per l’umanità non farà nessuna differenza!

Argentina - Macri e il suo volto di boia amico degli Stati Uniti

“Hebe non è ribelle, è la ribellione stessa”
05.08.2016 - Mariano Quiroga

Quest'articolo è disponibile anche in: Spagnolo



Traduciamo questa breve cronaca di Mariano Quiroga di un giorno molto speciale a Buenos Aires: il giorno in cui la storica presidente delle Madres de Plaza de Mayo doveva essere messa in galera, a 90 anni, da una decisone assurda di un giudice argentino; e questo non è successo grazie alla disobbedienza civile nonviolenta.

Camminava tra la gente che si stringeva intorno a quella centrale nucleare della resistenza che è Hebe de Bonafini; diceva la gente: “Hebe non è ribelle, è la ribellione stessa”; “ha già 90 anni”, “è una nonna sacra”, “siamo ai limiti di qualunque popolo degno”. C’era fervore. Fervore guerriero, fervore protettore. Come diceva a distanza Luciano Debanne “Gratitudine, lealtà, devozione”. Questo ci hanno dato queste madri, questo meritano. Come minimo.

Altri, disperati, erano disposti a portare il loro cuore in un fazzoletto bianco. (riferimento poetico al simbolo delle madres, un fazzoletto bianco, n.d.t.) Ma non c’era bisogno di tanto sacrificio. Un po’ di astuzia e una mobilitazione agile, reattiva, attenta, premurosa hanno fatto il resto.

Le madri hanno potuto compiere il rito di ogni giovedì, il giro intorno alla Piramide di Maggio. Nel centro della Plaza de Mayo, giù in fondo la Casa Rosada, abitacolo da dove si lanciano consegne iraconde, si prendono decisioni e si firmano decreti che confinano diritti e fanno retrocedere almanacchi. Giovedì numero 1999. Vogliono evitare che la settimana prossima Hebe de Bonafini presenzi alla cerimonia numero 2000?

La maggior parte di coloro che accompagnavano l’autobus che trasportava le madri al loro bunker, la Universidad de las Madres, non aveva 2000 settimane di vita, o, come me, le superava di poco.

Dobbiamo raccontarvi che il Giudice Martínez de Giorgi ha rinviato l’indagine su Hebe, e che ora la palla è passata al Ministero degli Interni. Sì, quel ministero che ha il ministro più incompetente di tutti. (l’autore si riferisce a Patricia Bullrich, sposata con un confidente della CIA che denunciò gente durante la dittatura e nota per essere alcolizzata, n.d.t.) E state attenti che è competente.

Con voce propria

“E’ la mobilitazione dei popoli che libera” ha detto la referente della lotta per i Diritti Umani “Macri fermati!” ha insistito, chiamando tutti a continuare a resistere, uscire per strada e non restare zitti. Ha assicurato di non aver paura “servono altri 2000 Macri per spegnere tutto questo fuoco” riferendosi ai giovani che la circondavano.

Si tratta di una persecuzione misogina del governo di Cambiemos, quest’alleanza fascista che vuole continuare a liberare gente colpevole di genocidi durante la dittatura e mettere al loro posto le leader femminili del popolo. Milagro Sala già sta in galera da 202 giorni, Cristina Fernández la stanno accusando e incriminando; adesso Hebe. La quale, oltre a sottolineare che dobbiamo sempre affrontare questi produttori di fame e ingiustizia con allegria, ci ha chiesto di farlo sempre senza rispondere alle provocazioni con la violenza. Questo sono le nostre madres, la forza, la saggezza e la bontà di un popolo che continua a cercare se stesso, inciampa, ma insiste. Che a volte ha paura ad alzarsi in piedi e a far due passettini in più, che si asciuga le lacrime e si mette un sorriso sul volto, perché gli antiumanisti li spaventiamo con l’allegria.

Traduzione dallo spagnolo dell’équipe traduttori di Pressenza

NoMuos - per i giudici del riesame di Catania le leggi non valgono per gli Stati Uniti, MA se non valgono per loro non valgono neanche per noi italiani

Muos: l’ingiustizia è servita, il Riesame ordina il dissequestro

06.08.2016 Dario Lo Scalzo
Muos: l’ingiustizia è servita, il Riesame ordina il dissequestro
(Foto di Dario Lo Scalzo)
La quinta sezione del Tribunale del Riesame di Catania ha accolto la tesi dell’Avvocatura dello Stato e quindi il ricorso contro il sequestro della base militare di Niscemi presentato in rappresentanza del ministero della Difesa. Il Muos dovrà essere dissequestrato.
In poche parole, per il Riesame non ci sono vizi negli atti amministrativi e quindi le autorizzazioni per realizzare l’impianto delle antenne e del Muos erano legittime. Il Muos non è abusivo. Tutto ciò si addiziona alle valutazioni dello scorso maggio del Consiglio di giustizia amministrativa (CGA) che, a seguito dei test effettuatiescluse possibili impatti negativi sulla salute per via dell’emissioni elettromagnetiche dell’impianto.
Un perfetto allineamento dunque tra Difesa, Tribunale del Riesame e Stati Uniti che, guarda caso, casca a fagiuolo in questo mese di agosto quando il premio nobel per la Pace più guerrafondaio della storia, Barack Obama, decide di far guerra in Libia. Immediatamente il Governo italiano cala le brache mettendo a disposizione le basi militari site sul nostro territorio. Così, il popolo italiano, più che mai distratto da qualche settimana di riposo, oltre a ritrovarsi con una guerra di fronte casa, subisce l’ennesima ingiustizia inflitta stavolta dal Tribunale del Riesame catanese che, con sbalorditivo tempismo, per non venir meno ad uno sorta di solidarietà bellica, dà semaforo verde allo scandalo con l’ordinanza del 5 agosto.
Ai più smemorati va ricordato che la base ad uso esclusivo della Marina militare statunitense (e non quindi dello Stato italiano) è stata costruita all’interno della Riserva naturale della Sughereta, considerata sito di interesse comunitario (SIC), e per questo motivo in zona con divieto di edificabilità.
E non si tratta mica di fantascienza, bensì della legge italiana, se persino la Procura di Caltagirone, nella primavera del 2015 aveva disposto il sequestro della base, per l’appunto, per violazione del vincolo paesaggistico di non edificabilità assoluta. Del resto, al di là degli esiti delle valutazioni del CGA, il popolo No Muos dormiva sonni tranquilli proprio per il fatto di trovarsi dinanzi alla certificazione di un palese reato ambientale, e quindi oggetto di procedimento penale, che avrebbe dovuto scongiurare qualsiasi possibilità di dissequestro e di conseguenza di operatività del Muos.
Ma, sappiamo che le vie degli States sono infinite, soprattutto quando gli americani sono in guerra (ma quando non lo sono?) così come è senza frontiera l’assenza di pudore della classe dirigente nostrana. Il raggiro da parte delle autorità italiane alle nostre stesse leggi sembra palese e il meccanismo d’inganno ormai ben oliato.
Si passa così al successivo capitolo di questa storia senza fine che molto probabilmente ci vedrà assistere al ricorso in Cassazione della Procura di Caltagirone.
Arrivederci speranza!

Farinetti, un'altro euroimbecille che usa il grano straniero perchè costa meno e di minor qualità per fare maggiori soldi

Fabio Rampelli

Crisi del grano: Farinetti nemico del Made in Italy, dice Rampelli (FdI)
Eataly e Oscar Farinetti non usano grano italiano.

"Se il Made in Italy non è adeguatamente difeso e sostenuto in Italia e all'estero è a causa di veri e propri 'collaborazionisti' come Oscar Farinetti. - denuncia Fabio Rampelli diFratelli d'Italia - Ringraziamo i giornalistiLabate e Parenzo che, ospitando gente di tale cinismo imprenditoriale e intelligenza col nemico, ci hanno fatto capire che abbiamo il nostro in casa e non è un caso si tratti di un amico di Matteo Renzi. Un altro dei tanti smidollati senza cultura e senza amore per l'Italia che ucciderebbe madre e padre per fare soldi." 

"Le sue dichiarazioni sulla presunta pessima qualità del grano italiano sono un colpo mortale alla sua credibilità, farebbe bene a scusarsi con i nostri agricoltori e con tutti gli italiani. - prosegue l'esponente di FdI - Coloro che si sforzano, anche a dispetto dei propri risparmi, di comprare italiano, per aiutare la nostra economia oltre che per mangiare sano, sono indignati da tanta superbia e ci penseranno cento volte prima di varcare la soglia di uno dei negozi della sua catena Eataly".
Redazione

la Fratellanza Musulmana è fiancheggiatrice dei Mercenari della Rivoluzione a Pagamento insieme agli Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia

Cosa si nasconde dietro le Ong "amiche" dei terroristi islamici

Molte organizzazioni umanitarie islamiche hanno legami con i gruppi jihadisti. Ecco quelle attive in Italia
Giuseppe De Lorenzo - Ven, 05/08/2016 - 19:03

Sono numerose le Ong islamiche che appoggiano la guerra santa dei terroristi contro l'Occidente. Non è un mistero: dietro lo scudo degli aiuti umanitari spesso si nasconde il sostegno al jihadismo internazionale.


Vale in tutto il mondo: amicizie con i Fratelli Musulmani, appoggio ai "ribelli" siriani e sostegno alla causa palestinese. Nemmeno l'Italia è immune a questo cancro.

A destare sospetti, infatti, sono due Ong attive nel Belpaese: la Onsur-Italia (Campagna mondiale di sostegno al popolo siriano) e la Ossmei (Organizzazione Siriana dei Servizi Medici di Emergenza in Italia​). Oltre a lavorare quasi sempre assieme, le due Ong condividono un particolare non secondario: nei loro stemmi compare la bandiera dei "ribelli siriani". Quelli, per intenderci, che si oppongono ad Assad e che nei giorni scorsi hannosgozzato un bambino di 11 anni accusandolo di essere una spia.
I legami della Onsur con i Fratelli Musulmani

Partiamo dai legami delle Ong con i Fratelli Musulmani, il movimento islamico bandito da Emirati Arabi, Arabia Saudita e Egitto con l'accusa di essere un'organizzazione terroristica. Il presidente della Onsur è Ahmad Amer Dachan, un italo-siriano molto attivo sui social network. Se non si tratta di un caso di omonimia, suo padre è Nour Dachan, presidente emerito dell'Ucoii, l'Unione delle Comunità Islamiche Italiane che subisce l'influenza dei Fratelli Musulmani. La sorella invece è stata fidanzata con Ammar Bacha, uno dei jihadisti di Cologno Monzese partiti nel 2012 per combattere in Siria contro Assad.

A documentare la vicinanza tra la Onsur e la Fratellanza Musulmana ci sarebbero poi alcune foto presenti nel profilo Facebook di Dachan. In un'occasione si è fatto immortalare in un caloroso abbraccio con un volontario della Islamic Relief. Nulla di strano, se non fosse che questa Ong (attiva in molti Paesi e con sede a Londra) è stata accusata dal governo di Israele di aver sostenuto la cellula terroristica che ha rapito tre studenti israeliani nel 2014. Tra i dirigenti di Islamic Relief, inoltre, spiccano nel tempo individui come Ibrahim El-Zayyat, Essam el-Haddad e Ahmed al-Rawi a loro volta rappresentanti autorevoli della Fratellanza.

Se il quadro non fosse abbastanza chiaro, il puzzle si conclude con altri due tasselli: il primo è una foto che ritrae Dachan ad un gazebo a sostegno di Mohamed Morsi, l'ex presidente egiziano esponente dei Fratelli Musulmani; il secondo, un evento organizzato dal Nour Dachan nel 2015 per conto dell'Ucoii in cui - come ha ricostruito Valentina Colombo - avrebbe invitato a parlare membri della Fratellanza.
Le amicizie della Onsur con i jihadisti palestinesi

Come se non bastasse, lo scorso ottobre Ahmad Amer Dachan si scatta un selfie sotto la sede della Abspp, l'Associazione Benefica di Solidarietà con il Po­polo Palestinese. Questa Onlus ha sede a Genova e - per ammissione del suo stesso fondatore, Mohammad Hannoun - con le donazioni raccolte ha più volte foraggiato le famiglie dei kamikaze palestinesi. Beneficienza per sostenere il terrorismo.

Non è tutto. Un'altra foto imbarazza le due Ong. Sui pacchi degli aiuti umanitari diretti in Siria, i loghi della Onsur e della Osmei vengono applicati a fianco di quelli della Insani Yardim Vafki (IHH), una Ong islamica turca. La IHH è considerata dai servizi segreti di molti Paesi vicina ad Al Quaeda e Hamas. Oltre ad Israele, che l'ha inserita tra le organizzazioni terroristiche, anche il governo tedesco ha riscontrato legami con i jihadisti. Nel 2010 l'allora ministro dell'Interno, Thomas de Maiziere, disse senza peli sulla lingua: "Sotto la copertura degli aiuti umanitari la IHH appoggia finanziariamente (...) associazioni legate ad Hamas, responsabile di azioni di violenza contro Israele e gli israeliani".
La Ossmei e il traffico di migranti

Per quanto riguarda la Ossmei, non sono pochi gli episodi di dubbia legalità. Nel 2013, El Debuch Ahmad, 51enne siriano, è stato arrestato con l'accusa di essere uno "scafista di terra". La polizia di Reggello (Firenze) gli sequestrò 3600 dollari mentre era in compagnia di due clandestini siriani, soldi riconducibili al traffico di migranti. Interrogato, non negò di "essere responsabile dell’associazione Ossmei".

Ecco. Questa è la realtà delle Ong islamiche che operano in Italia. Visto il velo di mistero che le ricopre ed appurati i loro legami con i Fratelli Musulmani, forse le attività che conducono meriterebbero maggiore attenzione da parte del governo. Ma al momento tutto tace.

Libia - e il governo italiano continua a tradire il popolo libico portando morte e distruzioni

LIBIA SENZA PACE: DIETRO AI RAID USA C'È IL FALSO PROBLEMA DELL'ISIS

(di Giampiero Venturi)
05/08/16 
L’inizio dei bombardamenti americani a Sirte contro le forze del Califfato contribuisce a fornire una lettura semplificata e polarizzata della guerra civile. Da una parte il terrorismo, dall’altra chi lo combatte.
Lo scenario effettivo configurato ad oggi è sostanzialmente diverso e ci descrive un Paese preda del caos e della violenza.
Partiamo dalle ultime notizie dal campo: secondo i dati forniti da Africom, dal 1° agosto grazie ai raid USA sarebbero stati distrutti due carri armati, 5 veicoli blindati e una serie imprecisata di postazioni difensive dello Stato Islamico. Nel quadro libico l’aggiornamento lascia il tempo che trova.
Di rilievo politico è invece la conferma italiana di prestare le basi alle operazioni USA: si ripete in sostanza lo scenario di Unified Protector del 2011, con obiettivo finale diverso ma dagli sviluppi se possibile ancora più confusi.
I raid americani rientrano nel piano generale di ridimensionamento dello Stato Islamico, dall’inizio del 2016 (anno elettorale) avviato in modo inequivocabile sia in Siria che in Iraq. Sulle possibili prospettive successive alla neutralizzazione del Califfato, rimangono però fittissime nubi. Ciò che viene drammaticamente eluso dai media internazionali è che il vero nodo da sciogliere in Libia non è la presenza, tra l’altro marginale ,dell’ISIS ma l’effettiva riconciliazione nazionale, ad oggi sostanzialmente impossibile.
A questo proposito ha un certo valore politico l’uccisione con un’autobomba a Bengasi di 28 soldati del generale Haftar, uomo forte del governo di Tobruk. L’attentato è stato rivendicato dal Consiglio della Shura della città, in altre parole dal cartello islamista che contende alle milizie di Haftar il controllo della seconda città della Cirenaica.
L’esercito del generale Haftar è armato dall’Egitto e seppur a volte in contrasto con gli stessi politici di Tobruk di cui è ufficialmente il braccio armato, rappresenta oggi in Libia l’unica forza apertamente schierata contro tutti i gruppi fondamentalisti islamici, senza distinzioni: sia Alba Libica che raggruppa gli islamisti ora integrati nel governo riconosciuto dall’ONU di Al Sarraj, sia l’ISIS. A questi si aggiungono i terroristi di Ansar al-Sharia, considerati tra i gruppi integralisti più radicali.
Come più volte rilevato su questa rubrica, le alleanze che caratterizzano la guerra civile libica non si basano su assunti ideologici, né politici, ma su convenienze militari del momento.  Insieme alle forze del governo Al Serraj combattono le milizie di Misurata, gelose della propria origine antigheddafiana, ma sul cui livello di penetrazione del fondamentalismo islamico c’è poca chiarezza. Le stesse forze di Ansar al-Sharia presenti a Bengasi e in guerra contro Tobruk, non nascondono di combattere al fianco di Tripoli.
Allo stato attuale le milizie del Califfato, arroccate intorno ai palazzi del Ougadougou centre a Sirte, terra natale dell’ex raìslibico, sono sotto attacco delle forze di Tripoli riconosciute in sede internazionale come esercito regolare, delle milizie misuratine e, almeno fino a ieri, del generale Haftar, ex CIA ma caduto in disgrazia a Washington. A tutto questo si aggiungono i raid americani degli ultimi giorni e le minacce di intervento a terra.
Un’eventuale e probabile sconfitta del Califfato sul suolo libico sarebbe in realtà la soluzione a un falso problema. Al di là dell'obiettivo raggiunto da dare in pasto ai media, rimarrebbe in ogni caso il problema dell'islamizzazione delle istituzioni di Tripoli, del ruolo di Tobruk e dell’assoluta frammentazione del territorio nazionale. Soprattutto il saccheggio delle risorse energetiche e il controllo dei fenomeni di migrazione di massa da parte di cartelli criminali, rimarrebbe inalterato.
Al largo delle coste libiche, nel Canale di Sicilia, incrocia intanto la nave da guerra anfibia USS Wasp e nella base di Sigonella aumenta il via vai dimarines USA.
In attesa di evoluzioni del quadro politico e militare ricordiamo ancora una volta la profetica minaccia di Gheddafi, datata 2011: “Dopo di me, il caos”
(foto: GNA Army-Alalam)
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