L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 10 settembre 2016

Monte dei Paschi di Siena - deve diventare una banca commerciale, ufficialmente nazionalizzata e fare solo prestiti alle piccole medie imprese e alle famiglie ma gli imbecilli al governo la vogliono regalare a Jp Morgan

Una banca in mano al governo. Lo si sa, ma non lo si dice

Poniamoci una domanda: chi comanda in un'azienda? E chi Monte dei Paschi?
Nicola Porro - Sab, 10/09/2016 - 14:15

Poniamoci una domanda semplice semplice? Chi comanda in un'azienda? A prima botta verrebbe da dire il suo amministratore delegato, dotato di più o meno poteri.


Che può condividere con il suo consiglio di amministrazione ed un eventuale direttore generale o il suo presidente. Per il Monte dei Paschi di Siena, la banca che oggi capitalizza 700 milioni e circa 8 miliardi li ha succhiati dal mercato negli ultimi anni, la risposta è diversa.

Per anni comandavano i suoi azionisti, che formalmente si chiamavano Fondazione Monte dei Paschi, ma che in realtà erano gli eredi locali del Partito comunista. Se i democristiani avessero gestito con la stessa spregiudicatezza le loro banche locali, oggi l'Italia sarebbe fallita. Ma questo è un altro discorso.

Torniamo a noi. Fallita e finita l'era comunista, oggi ci troviamo con il Ministero dell'Economia che detiene l'astronomica quota del 4% della banca. E ne è primo azionista. Di fatto Mps è res nullius, o se preferite una public company. Per riprendere la domanda da cui siamo partiti, bisogna dire che oggi, e domani ancor di più, la banca senese è guidata da Palazzo Chigi. Nonostante la fetta ridicola di capitale sociale che detiene, è il governo che ha deciso la strategia di ennesimo salvataggio della banca, è il governo che ha affidato a Jp Morgan e Mediobanca l'ingrato compito di metterla in pratica, è il governo che ha pregato l'ultimo amministratore delegato, che per quattro anni ha spalato la melma creata da altri, di farsi da parte.

Solo per dovere di chiarezza, conviene dunque dirlo chiaramente. Non facciamoci affabulare dalle chiacchiere sul mercato, sulla finanza. No, il ministero del Tesoro e Palazzo Chigi hanno un'idea chiara di cosa dovrà succedere a Siena, non l'hanno comunicata proprio a tutti, e si comportano di conseguenza.

Altro che arretramento dello Stato in economia. Probabilmente siamo in una fase tale che è obbligatorio per Roma prendersi in carico un problema che può diventare sistemico. Se ne prenderà gli onori se l'operazione dovesse andare a buon fine, più difficile gli oneri se dovessi saltare.

Fu la Banca Intesa di Corrado Passera a salvare, con un formidabile lavoro dietro le quinte, la Fiat in fallimento. Nessuno se lo ricorda più. All'epoca c'erano i banchieri che provavano a tenere insieme il sistema, oggi i nuovi politici. Non è detto che sia meglio.

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Ps. Un paio di settimane fa ho scritto che Fineco faceva due terzi dei suoi utili dagli 11 miliardi di obbligazioni Unicredit che aveva in pancia. La banca mi ha gentilmente precisato: «Riteniamo che l'affermazione non sia precisa in quanto non è corretto misurare il contributo di una componente dei ricavi rispetto all'utile ante imposte, in quanto quest'ultimo ricomprende anche i costi. A titolo esemplificativo se si dovesse misurare il contributo delle commissioni nette (248 milioni), si dovrebbe dire che rappresentano l'86% dell'utile ante imposte, a cui aggiungere gli interessi netti, che rappresenterebbero un ulteriore 85% dell'utile ante imposte. È invece corretto rapportare gli interessi attivi alla componente attiva dei ricavi. Pertanto il contributo degli interessi attivi dei bond Unicredit è pari al 25% dei ricavi (interessi attivi: 204,9 milioni/ricavi attivi: 814,9 milioni)».

Per i lettori meno specializzati, la precisazione di Fineco è perfetta: più o meno dicono che ho messo insieme pere e mele. Il senso del ragionamento, che ribadisco, è che quella massa di obbligazioni Unicredit che rendono 200 milioni di interessi e rappresentano un quarto dei ricavi, come ammesso da loro, rende la banca difficilmente vendibile ad un operatore non bancario. Se Fineco fosse venduta a terzi o a banche di dimensioni contenute non potrebbe fare lo stesso «giochetto» e l'affare Fineco non sarebbe più tale. Si contano sulla punta delle dita di una mano i gruppi europei in grado dunque di poter partecipare all'asta dell'ad di Unicredit Jean Pierre Mustier. (Forse solo il Banco Santander e Deutsche Bank).

PTV news 8 Settembre 2016 - Gli inglesi costruiscono la Brexit con i muri

Asia - "le Filippine non sono uno stato vassallo". "Abbiamo cessato da tempo di essere una colonia degli Stati Uniti"

FILIPPINE - 09 settembre 2016 - 16:00

USA-Filippine: gli insulti di Duterte e il tramonto del Pivot to Asia di Obama
Dall’uscita fuori luogo del leader di Manila traspare il fallimento della politica estera adottata dagli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico negli ultimi anni


di Priscilla Inzerilli

Un nuovo smacco per il presidente Barack Obama che il 5 settembre, all’indomani della gelida accoglienza riservatagli al suo arrivo in Cina, in occasione del G20, ha dovuto incassare gli insulti del neo presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, da molti definito il “Donald Trump asiatico” per i suoi toni violenti e politicamente scorretti.

Se il comitato di accoglienza cinese si era infatti “limitato” a negare al presidente degli Stati Uniti il red carpet e la scaletta per scendere dall’aereo presidenziale, che sono stati invece forniti a tutti gli altri leader atterrati presso lo Xiaoshan International Airport di Hangzhou, il presidente filippino si è spinto oltre i limiti della diplomazia, insultando apertamente Obama utilizzando un termine, putang ina, che in lingua tagalog (l’idioma più diffuso nelle Filippine) può essere tradotto con “figlio di p…”.

Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte

I due leader si sarebbero dovuti incontrare a Vientiane, capitale del Laos, a margine del vertice dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), ma nella giornata di martedì 6 settembre la Casa Bianca ha reso noto che il meeting bilaterale era stato cancellato e che il presidente Obama avrebbe invece incontrato la leader sudcoreana Park Geun-hye. Il presidente filippino ha poi espresso pentimento, dichiarando il proprio rammarico per il fatto che il suo commento fosse stato interpretato come un attacco personale.

A provocare la reazione di Duterte sarebbe stata la domanda di un giornalista, il quale gli avrebbe chiesto cosa avrebbe risposto a Obama qualora questi avesse preteso spiegazioni sulla sistematica violazione dei diritti umani e sulle circa duemila esecuzioni sommarie ordinate nei confronti dei criminali – prevalentemente narcotrafficanti, ma anche “ladri e corrotti” – che infestano il Paese.

Duterte avrebbe risposto stizzito che “le Filippine non sono uno Stato vassallo”. “Abbiamo cessato da tempo di essere una colonia degli Stati Uniti”, ha proseguito Duterte, intimando Obama di “essere rispettoso” e di “non fare domande”. E ancora, “Putang ina, ti insulterò in quell’incontro”.

Obama, al termine dell’incontro con il gruppo del G20 ha definito ironicamente Duterte “un tipo pittoresco”, precisando di aver dato istruzioni ai membri del suo staff affinché si consultassero con i loro omologhi filippini al fine di comprendere se il momento attuale potesse essere effettivamente il migliore per poter avere “conversazioni costruttive e produttive”. Alla fine il confronto è saltato e la sera del 7 settembre, poco prima della cena di gala dell’ASEAN, Obama e Duterte hanno avuto un breve incontro informale consentendo così, almeno per il momento, ai due Paesi di ricucire lo strappo diplomatico.

D’altronde, l’alleanza con gli Stati Uniti è di fondamentale importanza per le Filippine, che contano sull’appoggio di Washington per una risoluzione dell’arbitrato riguardante l’area contesa del Mar Cinese Meridionale come argine contro le rivendicazioni di Pechino.


Il governo degli Stati Uniti, da parte sua, ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con il proprio partner nel Sud-Est asiatico, soprattutto in vista della possibilità di un dispiegamento di truppe USA in territorio filippino. Un’eventualità, prevista in un accordo tra Washington e Manila, che ha però suscitato nei mesi scorsi le proteste della popolazione locale.

La presenza politica, economica e militare degli Stati Uniti nell’area del Sud-Est asiatico è una parte importante del cosiddetto “Pivot to Asia”, o perno asiatico, la strategia di ribilanciamento nell’Asia-Pacifico promossa dall’amministrazione Obama, volta a “riequilibrare” l’espansione della Cina nella regione.

Ma con l’attuale stallo del Trans-Pacific Partnership – ovvero il progetto del trattato di libero scambio a guida USA con i Paesi del Pacifico – la crescente assertività militare della Cina e il rinnovato protagonismo della Russia sullo scenario internazionale, il “Pivot” di Obama, prossimo alla fine con il termine del secondo e ultimo mandato del presidente alla guida della Casa Bianca, sembra destinato a rimanere sulla carta.

Monte dei Paschi di Siena - impedire a Renzi di regalare la banca a Jp Morgan, nazionalizzarla e farla diventare esclusivamente una banca di risparmio (commerciale). Si Può e si deve

Mps, sul ritiro di Viola l'ombra di Renzi e Jp Morgan

Dopo mesi di tira e molla l'ad Mps costretto a lasciare. Dietro le dimissioni il pressing del premier e di Jp Morgan. I retroscena raccontati da Occhio di lince.

di Occhio di lince

09 Settembre 2016


Fabrizio Viola, amministratore delegato dimissionario di Mps.

Tanto tuonò che piovve. Era da più di un mese che alcuni giornalisti si erano resi grancassa – chissà se tutti inconsapevolmente – degli interessi che volevano sbarazzarsi di Fabrizio Viola per fare di Mps un solo boccone.
«Si dimette», «sta per lasciare», «il mercato reclama facce nuove»: questi e altri simili erano i rumor che con cadenza quasi quotidiana venivano offerti al pubblico, con l’effetto di mettere in allarme i risparmiatori e creare le condizioni perché il titolo della banca senese, già sofferente, prendesse sonore legnate in Borsa.
L'AD NON PENSAVA ALLE DIMISSIONI. Il vostro Occhio (di Lince), puntato come un faro sulla vicenda, è però rimasto aperto e non si è bevuto l’intruglio confezionato nel retrobottega di qualche banca d’affari e in alcune stanze di palazzi romani.
Tant’è che vi abbiamo già raccontato – in compagnia del solo Giorgio Meletti del Fatto Quotidiano, va detto per onestà – di come andavano le cose: Viola non aveva alcuna intenzione di dimettersi, né alcuno gli aveva chiesto (fino all'8 settembre) di farlo, ma, tant’è, dirlo avrebbe finito per trasformare una non notizia in una vera news.
A casa mia si chiama tecnica di logoramento: racconti una cosa falsa fino renderla vera contando sul cedimento di nervi del soggetto preso a bersaglio.
Così sono andate le cose. Con una variante decisiva, però: Viola non si è dimesso perché non ne poteva più delle illazioni che lo riguardavano, ma è stato dimissionato. Con tatto formale, per carità, ma non per questo non senza sostanziale brutalità. Costretto ad arrendersi. A chi?
PER ORA SOLO SILENZIO SULLA VICENDA. Lui si è chiuso in un comprensibile silenzio, che forse romperà più avanti (non lo auguro ai suoi nemici) dopo che avrà terminato la fase di transizione che con spirito di servizio ha messo a disposizione della banca, e dunque non lo ha rivelato neppure ai suoi più stretti collaboratori.
Ma, per come sono andate le cose fin qui, non è difficile intuirlo: si è arreso a chi ha fatto presente a lui e al consiglio di amministrazione della banca – chissà su quali basi e in possesso di quali informazioni – che con Viola al comando, il Montepaschi l’aumento di capitale e più in generale il piano di risanamento messo a punto (cessione delle sofferenze e ricapitalizzazione) non li avrebbe potuti portare in porto.
E chi è titolato, almeno sulla carta, a sapere che il non meglio identificato “mercato” richiederebbe questa discontinuità gestionale? Anche qui si va per intuizione, ma si rischia di sbagliare poco o nulla se si pensa a coloro, JP Morgan e Mediobanca in testa, che a suo tempo sono stati scelti per formare il cordone sanitario (sic!) intorno a Mps e portare a compimento le operazioni previste dal piano di definitiva messa in sicurezza dell’istituto.
E a chi possono aver raccontato questa storia se non alle massime istituzioni? «È gente di mercato, figuriamoci se non ha orecchie buone per ascoltare il tam-tam di chi dovrà mettere i soldi nella ricapitalizzazione», avrà pensato qualcuno a cui è stato fatto il punto della situazione.
Sì, ma chi? Bankitalia? Mah. Ormai conta poco, e vi posso assicurare per averlo sentito con le mie orecchie che il governatore Ignazio Visco e il vicedirettore Fabio Panetta (gli unici che hanno voce in capitolo) hanno una tale stima di Viola che mai si sarebbero sognati di fare una cosa simile.
La Bce? Non certo Mario Draghi. Primo perché non si occupa di questioni come questa. E secondo perché ha stima di Viola non meno dei suoi ex colleghi di via Nazionale. Forse quei discolacci della Vigilanza? A parte che se fossero stati loro a dire a Viola di togliersi di torno perché il mercato vuole altro, avrebbero creato un precedente micidiale, ma in questi anni mai un rilievo è stato fatto da parte loro nei confronti di Viola, consapevoli del fatto che il disastro era stato creato dai predecessori e che il banchiere chiamato quattro anni fa con Alessandro Profumo a raddrizzare le gambe al morto senese aveva compiuto il miracolo di tenere aperta una banca virtualmente fallita.
Vien da domandarsi: fosse stato il Tesoro? Ma se il buon Padoan non ha mai preso una decisione una da quando fa il ministro! Suvvia, come si fa a pensare che sia stato lui a raccogliere e accogliere le voci di chi paventava che con Viola alla tolda di comando la nave Mps avrebbe fatto la fine della Costa Concordia al Giglio? No, impossibile.
Sì, è vero, abbiamo scritto proprio qui che qualcuno al ministero dell’Economia coltivava ambizioni e faceva giochetti strani, ma è gente che poteva abbaiare, non mordere.
L'OMBRA DI PALAZZO CHIGI SULLA MANOVRA. E allora non rimane che pensare a palazzo Chigi. Certo, Renzi è andato a Porta a Porta a dire che lui di banche non se ne occupa. Ma non sarebbe la prima volta che Matteino racconta bugie.
E poi c’è quel pranzo a palazzo Chigi – il 6 luglio, se non ricordo male – con ospite d’onore il numero uno della JP Morgan, Jamie Dimon, alla presenza dell’ex ministro Vittorio Grilli (che offre i suoi servigi alla banca americana) e al presidente della Cdp Claudio Costamagna, che ha la sua neo moglie (casata Brivio Sforza) appena approdata in JP Morgan proprio grazie a Grilli.
Lì, secondo quanto riferito da un articolo (mai smentito) di Meletti, furono gettate le basi per consentire a Jp Morgan di mettere le mani su Mps (che evidentemente interessa, a riprova che questi quattro anni di risanamento non sono passati invano). Fino al punto di ascoltare la richiesta di togliere dai piedi Viola, non prono a quel disegno, e di mettere al suo posto un soldato fidato, quel Marco Morelli, oggi in Merrill Lynch ma a lungo in Jp Morgan, che i giornali giustamente segnalano come il nuovo amministratore delegato, anche a costo di ignorare che ha lavorato con Mussari e che in tutti i casi a capo di Mps ci vuole un banchiere commerciale e non d’affari.
D’altra parte, che Renzi fosse culo e camicia con Jp Morgan lo si sapeva fin da prima che diventasse presidente del Consiglio. Il primo giugno 2012, infatti, Dimon organizzò una cena a palazzo Corsini a Firenze per l’allora sindaco della città, auspice Tony Blair, che da quando ha smesso di fare il primo ministro è diventato consulente-lobbysta della banca. E sempre l’ex premier inglese è stato l’organizzatore di una seconda cena conviviale Dimon-Renzi, questa volta a Londra, nell’aprile del 2014, ospiti dell’ambasciatore Pasquale Terracciano.
Cosa notata dal quotidiano britannico Daily Mirror, che scriveva lapidario: «Renzi è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La JpMorgan».
Con buona pace di Fabrizio Viola.

Banca Etruria - la truffa del governo continua

L'ultima beffa del salva Banche: rimborsi a un terzo dei truffati

La denuncia del Comitato delle vittime: così il fondo esclude chi ha acquistato obbligazioni da un istituto diverso dal proprio

I rimborsi per chi ha acquistato obbligazioni delle banche fallite? Arriveranno solo a un terzo dei truffati.
Quello che era già nell'aria da tempo è ora confermato dal comitato Vittime del salva banche.
Secondo le stime, infatti, il Fondo interbancario di tutela dei depositi risarcirà solo 4mila detentori delle obbligazioni di Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara e CariChieti, contro "i 12500 stimati come acquirenti dei titoli", come spiega a Radiocor il presidente del Comitato, Letizia Giorgianni.
Il fondo presieduto da Salvatore Maccarone e istituito a dicembre dello scorso anno, tra l'altro, non è ancora pienamente in funzione e "ad oggi non è arrivato nessun rimborso". Dall’incontro è emerso che chi presenta la domanda per il rimborso viene infatti automaticamente escluso dall’arbitrato e che dall’interpretazione della legge fatta dal Fidt sono esclusi dal rimborso quei risparmiatori che hanno acquistato i bond delle quattro banche finite in risoluzione nel novembre scorso "non in contropartita diretta" ossia quelli acquistati dal cliente di una banca diversa da quella che li ha emessi.

Mossul - ad ottobre inizia l'offensiva, non è un caso che lì ci sono 450 soldati italiani

IRAQ: GLI USA INVIANO ALTRI 500 SOLDATI. OFFENSIVA SU MOSUL TRA 20 GIORNI?

(di Franco Iacch)
10/09/16 
Gli Stati Uniti hanno inviato altri 500 soldati in Iraq a supporto dell’offensiva per riprendere Mosul. È quanto comunica il Pentagono.
L'aumento del personale e delle attrezzature – si legge nella nota - è necessario per raggiungere l'obiettivo del governo iracheno e riconquistare Mosul prima della fine dell'anno.
Le operazioni potrebbero iniziare entro la prima decade di ottobre.
Gli Stati Uniti, considerando le turnazioni, hanno adesso 4460 soldati in Iraq. Il Pentagono stima una forza di 4500 unità dello Stato islamico a Mosul. Le forze addizionali fanno parte della 101aairborne division, 2a brigata combat team di Fort Campbell, Kentucky.
La città di 2,5 milioni di persone è sotto il controllo dello Stato islamico dal giugno del 2014.
L’assalto su Mosul, secondo i piani discussi, avverrà da due posizioni. Le truppe irachene attaccheranno Mosul da sud, mentre le truppe curde da nord.
(foto: U.S. Air Force)

Guerra dell'acqua - sono iniziate le prime manovre

GUERRA DELL’ACQUA: LA QUESTIONE SENZA FINE TRA HEZBOLLAH E ISRAELE

(di Maria Grazia Labellarte)
09/09/16 
Nelle ultime settimane una nota ufficiale di Hezbollah ha condannato pubblicamente la creazione da parte di Israele di strade nelle zone vicino alle fattorie di Sheb’a, ritenendola un crimine e una pericolosa violazione della sovranità del Libano.  Nello stesso comunicato Hezbollah esorta Beirut"a difendere il proprio territorio, prendendo le misure necessarie a fermare l’operato israeliano”.
L’ultimo scontro armato su vasta scala tra miliziani del partito libanese e Israele risale alla Seconda guerra del Libano del 2006, quando ci furono migliaia di morti tra civili e militari.
Le fattorie in questione costituiscono un'area agricola di 14 blocchi ubicati a sud di Sheb'a, villaggio libanese sulle pendici occidentali del monte Hermon, ricco d’ acqua e  punto d'incontro tra Siria, Libano e Israele. L’area è lunga circa 14 km e larga 2, adagiata tra i 400 e i 2.000 metri di altezza. Si tratta di una zona molto fertile, dove vengono coltivati frumento, alberi da frutto e ortaggi.  
La stampa internazionale, nel recente passato, aveva già messo in risalto il contenzioso sulle risorse idriche che fluirebbero nell’ area.
Libano e Siria sostengono che le fattorie di Sheb’a non rientrerebbero nella giurisdizione di Israele, ma sulla base di quanto stabilito dalle Nazioni Unite, apparterrebbero alla regione del Golan, appena più a est. Le alture del  Golan sono aree occupate da Israele durante la guerra del 1967 e mantenute anche a seguito della Seconda guerra del Libano. 
Attualmente Hezbollah fa della liberazione di Sheb’a  uno dei suoi obiettivi strategici ma la disputa per il fabbisogno idrico delle popolazioni locali, inasprita dall’inaridimento del clima, influenza le politiche dei governi della regione da decenni.
Sia Giordania che i Territori palestinesi occupati dispongono di un livello medio basso di risorse idriche rinnovabili;  il Libano e la Siria, al contrario,  hanno eccedenze di acqua; entro il 2025 per Israele il livello di acqua disponibile è destinato viceversa  ad abbassarsi drasticamente.
Per il momento Tel Aviv contra sul Mar di Galilea, il più grande lago d’acqua dolce dello Stato di Israele, lungo circa 21 km e largo 13,  con  uno sviluppo costiero di 53 km. Il suo bacino, ben sfruttato, garantirebbe l’approvvigionamento idrico anche della della costa e del Sud del Paese.
È facile comunque immaginare che sul tema dell’acqua ci saranno nei prossimi anni motivi di scontri.
Ricordiamo che negli anni sessanta la Siria e il Libano diedero l’avvio alla costruzione della diga Qaraoun, indispensabile all’ utilizzo delle acque a scopo agricolo, iniziativa di seguito interrotta  durante la Prima e Seconda guerra del Libano.
Anche in considerazione dei fattori strategici e dell’importanza politico-militare che rivestono le alture intorno alle fattorie Sheb’a, non resta che monitorare gli eventi. Il giornale americano The Fortune ha considerato la “Guerra dell’acqua” come il  principale nodo del XXI° secolo.
(Foto: Tsahal)

Roma - destra e sinistra hanno paura e allora controllano, spiano, legalmente ed illegalmente, tutto quello che fa e dice la Raggi e chi la circonda. Terribile e vero il libro di Giuseppe Fava "Prima che ti uccidono"

Roma, Fini: "Il regime si sente in pericolo e reagisce. 5S arrivati troppo in alto"
09 settembre 2016 ore 14:30, Americo Mascarucci"Quando il regime è in difficoltà si compatta e si difende. I 5Stelle sono pericolosi tanto per la destra che per la sinistra ecco perché c'è tanto accanimento contro di loro".
Lo scrittore e giornalista Massimo Fini spiega a Intelligonews il suo punto di vista sul caos al Comune di Roma e sulla crisi all'interno del Movimento 5Stelle.

Fini, a suo giudizio esiste un accanimento mediatico contro i 5Stelle come denunciato da loro stessi, oppure si è in presenza di semplice incapacità amministrativa?

"C’è uno straordinario giubilo di tutti i politici e di tutti i giornali per questo scivolone dei 5Stelle a Roma. Pagine e pagine dedicate per giorni a queste vicende. L'obiettivo è evidente: dimostrare che i 5Stelle sono marci come tutti gli altri, ma non è così"

Quindi esiste un complotto? 

"No, non è un complotto. E' accaduto anche in passato con la Lega di Bossi, la prima Lega, quella degli esordi. E' evidente che in un regime in cui per anni destra e sinistra si sono sbranati per il potere, nel momento in cui fa la sua comparsa un soggetto estraneo al sistema che di fatto va ad intaccare interessi consolidati e pressoché identici, la reazione del regime è quella di ricompattarsi per espellere il corpo estraneo, l'intruso. A Roma stanno andando in scena i preliminari delle politiche. Il vero obiettivo è impedire che i 5Stelle possano conquistare Palazzo Chigi".

Però anche i 5Stelle sembrano prigionieri dello loro stesse regole, vedi il caso De Dominicis. Il giustizialismo non rischia poi di tramutarsi in un boomerang per chi lo pratica? 

"Questo è vero, e l'ho scritto in più occasioni. I 5Stelle in un sistema politico corrotto fino al midollo hanno schiacciato troppo l’acceleratore sulla questione morale. Una scelta che senza dubbio ha portato loro consenso, ma come diceva il vecchio saggio Pietro Nenni anche il più puro dei puri trova sempre uno più puro di lui che lo epura. Un movimento rivoluzionario, seppur pacifico, come il M5S nella fase di conquista del potere, deve essere leninista non può dipendere dagli umori della base".

Cosa consiglierebbe alla Raggi?

"Grillo e la Raggi dovrebbero ribadire a chiare lettere che loro risponderanno solo ed unicamente alla magistratura. Se la magistratura accerterà reati allora chi li ha commessi sarà allontanato". 

Secondo lei quindi l'assessore Muraro deve o no dimettersi?

"No, siamo in presenza di una semplice iscrizione nel registro degli indagati. Assurdo chiedere le dimissioni di un assessore che non ha nemmeno ricevuto l'avviso di garanzia nel momento in cui in Parlamento siedono rinviati a giudizio, condannati e prescritti. E non sono certo del Movimento 5Stelle".

Questa vicenda indebolirà o rafforzerà elettoralmente i 5Stelle?

"La Lega di Bossi uscì rafforzata dagli attacchi mediatici, ma non è semplice rispondere a questa domanda. Se il cittadino italiano capirà che questa aggressione è strumentale allora i 5S potranno uscirne indenni e rafforzati. Ma questo dipenderà unicamente dall'intelligenza del popolo italiano di cui ho scarsissima fiducia

Mossul - ci sono 450 nostri soldati perchè così ha voluto la Consorteria Guerrafondaia Statunitense a cui Renzi ha subito ubbidito, contro logica

GLI OBIETTIVI DEL CALIFFATO ALLA DIGA DI MOSUL

di Gianandrea Gaiani
10 settembre 2016, pubblicato in Commenti Enduring freedom
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da IlSole24Ore.Com dell’8 settembre 2016
Fonti d’intelligence hanno rivelato ieri la minaccia di un attacco su vasta scala delle forze dello Stato Islamico contro la Diga di Mosul presidiata anche da truppe italiane.
Voci riportate con molti dettagli dal sito specializzato Wikilao che non hanno registrato nessuna smentita da Roma e sono state indirettamente confermate da fonti militari italiane sentite dall’agenzia Adnkronos.
“Warning del genere, in operazioni di questo tipo, sono di routine.
Gli allarmi sono quotidiani, la cosa importante è che i servizi della Coalizione siano pronti ad intervenire. Non si sottovalutano i rischi e tutte le misure di prevenzione sono operative” hanno commentato le fonti.
Dai dati emersi il Califfato conterebbe di impiegare 200 dei suoi migliori combattenti stranieri, tunisini, “europei” e soprattutto caucasici prelevati dal fronte di Raqqah, in Siria, per effettuare un blitz suicida come dimostra il nome con cui sarebbe stata battezzata l’operazione: “Conquista della morte”.
Nonostante la qualità dei combattenti dell’Isis la diga di Mosul è difesa da almeno 5/600 militari tra bersaglieri del 6°reggimento e peshmerga curdi.
Utilizzando gli uomini-bomba ceceni e l’effetto sorpresa gli attaccanti potrebbero costituire una breccia nel perimetro difensivo esterno ma poi si troverebbero di fronte forze soverchianti rapidamente rafforzabili da Erbil dove gli elicotteri italiani da attacco Mangusta e da trasporto NH-90 dei reggimenti 5° e 7° dell’Aviazione dell’Esercito potrebbero garantire un temibile supporto di fuoco e trasferire rapidamente nuove truppe incluso un plotone di fanti aeromobili del 66° reggimento “Trieste”.
Perché il Califfato mobiliterebbe le sue “forze d’élite” per una missione senza speranze? Specie tenendo conti che in tutte le battaglie l’Isis ha sempre sottratto abilmente le sue forze all’assedio nemico risparmiandole per futuri combattimenti.
Difficile credere che l’Isis voglia distruggere la Diga di Mosul. Ammesso che ne abbia i mezzi va ricordato che il Califfato ha controllato per alcuni mesi, nell’estate del 2014, la grande infrastruttura ma non l’ha mai danneggiata così come non ha mai arrecato danni alle altre dighe sotto il suo controllo.
Da più parti, soprattutto a Washington, si sottolinea la precarietà strutturale della diga evidenziando che il suo crollo provocherebbe alluvioni fino a Baghdad colpendo tra 600 mila e un milione di persone.
Quasi tutti sunniti però, cioè appartenenti a quella parte della popolazione irachena su cui si basa il consenso di cui ancora gode il Califfato, in contrapposizione al governo scita di Baghdad.
Probabilmente il pianificato attacco alla diga ha quindi l’obiettivo di dimostrare, con un’azione eclatante, che nonostante le sconfitte subite il Califfato è ancora in grado di colpire duro, soprattutto sul fronte di Mosul dove è considerata imminente una grande offensiva irachena tesa a riconquistare la città.
A rendere improvvisamente appetibile un obiettivo finora ignorato dai jihadisti potrebbe essere proprio la presenza dei 500 bersaglieri italiani schierati laggiù ufficialmente per proteggere i tecnici e il cantiere della ditta Trevi che sta per iniziare i lavori di consolidamento della diga.
In realtà per la decisione di Roma di inviare le truppe è legata alle pressanti richieste di Washington per un maggiore coinvolgimento italiano nella guerra al Califfato.
Colpire militari “infedeli” è un obiettivo prioritario per lo Stato Islamico (anche in termini propagandistici) e, se si escludono piccoli team di forze speciali assegnate ai battaglioni iracheni, non ci sono militari della Coalizione più vicini dei bersaglieri italiani alla linea del fronte.
La diga si trova infatti ad appena una decina di chilometri dalle postazioni dell’Isis a nord di Mosul, a tiro quindi dei loro obici e lanciarazzi campali.
I rischi di un attacco su vasta scala confermano quindi tutte le riserve già emerse nel dicembre scorso, quando venne annunciata la missione della Task Force Praesidium.
Schierare un battaglione di fanteria in una postazione fissa a tiro delle artiglierie nemiche e a ridosso della prima linea non è mai sembrata una buona idea soprattutto e la missione non riveste alcun valore militare.
Le truppe italiane non hanno compiti offensivi e, presumibilmente, non prenderanno parte all’offensiva su Mosul.
La diga è già presidiata efficacemente dai curdi e il personale della Trevi potrebbe avvalersi di security contractors, come accade per tutte le società che hanno attività in Paesi a rischio.
Anche in termini finanziari l’operazione della Task Force Praesidium risulta poco convincente. Il contratto alla Trevi è di 300 milioni di dollari (invece dei 2 miliardi annunciati da Matteo Renzi), più o meno quanto costerà alle casse italiane sostenere per un anno e mezzo la protezione militare della diga.
Foto: Isaf RCW Aviation Battallon, KTCC, Difesa.it e Reuters

Siria&Parigi&Bruxelles&Nizza - la Turchia e gli Stati Uniti non si rivolteranno contro il proprio figlio, l'Isis

IL CAMBIO DI STRATEGIA IN SIRIA NON SALVERA’ WASHINGTON



Sulla strategia e il rapporto di collaborazione e conflitto tra Stati Uniti, Turchia, Curdi e Daesh.
di Federico Pieraccini

In merito al conflitto Siriano sono state scritte numerose analisi, eppure uno degli aspetti meno noti riguarda la strategia e il rapporto di collaborazione e conflitto tra Stati Uniti, Turchia, Curdi e Daesh.

Sin dall'inizio del conflitto in Siria Washington e Ankara non hanno mai esitato nell'utilizzare a proprio vantaggio le avanzate di Daesh. L’occupazione di località Siriane nei pressi del confine Turco da parte degli estremisti Islamici è risultata essere una delle tattiche preferenziali adoperate da Stati Uniti e Turchia. Chiudere un occhio, spesso entrambi, sulle operazioni di Daesh significava, indirettamente, attaccare lo stato Siriano, minacciarne l’integrità e permettere la creazione di località protette a disposizione dei gruppi terroristi in cui ricevere armi e sostegno materiale per reiterare l’aggressione al governo di Damasco nel resto del paese.

Nel caso specifico della Turchia ci sono state anche altre valutazioni. L’avanzata di Daesh supportata energicamente da Ankara ha sottratto territorio anche ai Curdi Siriani causando morte e caos nella loro comunità. Vista la conflittualità storica tra le due fazioni, è scontato specificare che ogni vessillo innalzato da ISIS/ISIL si traduceva in una vittoria per Erdogan e un successo del piano di disgregazione della comunità Curda in Medio Oriente. 

Con atteggiamento subdolo e parzialmente compiacente, gli Stati Uniti hanno reagito a questo comportamento di Ankara in due maniere. In primis imponendo un black-out di informazione sui traffici tra Turchia e Daesh, ma soprattutto mai attaccando ISIS in Siria con la così detta Coalizione Internazionale. 

Ciò che ha cambiato le carte in tavola è stato l’intervento militare Russo nel Settembre del 2015. Mosca è stata in grado di svelare il muro di omertà e collusione presente in Siria tra organizzazioni terroristiche quali Daesh, Al Nusra, Jaysh al Islam, Ansar al Islam e paesi come Stati Uniti, Giordania, Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Oltre ad agire con mezzi militari, la Federazione Russa è stata in grado di applicare una forte pressione diplomatica sui paesi occidentali e grazie a Russia Today (RT), ha smascherato ripetutamente le vere intenzioni degli oppositori del governo Siriano: sostenere il terrorismo contro il legittimo governo di Damasco a qualunque costo.

Dal Settembre 2015 la guerra di aggressione alla Siria ha subito un duro colpo con la triplice azione militare-diplomatica-mediatica di Mosca. Molti territori precedentemente persi sono stati rapidamente riconquistati dall'esercito Siriano (SAA). La liberazione di Palmira e la strada già tracciata per Deir ez-Zor, le vaste aree ripulite intorno e oltre la base militare russa in provincia di Latakia, la recente vittoria a Darayya e ad Aleppo mostrano finalmente una chiara soluzione militare alla crisi in Siria. 

Le conseguenze delle avanzate e delle riconquiste strategiche operate dal SAA, combinate con l’impossibilità per Washington di intervenire direttamente nel conflitto con mezzi e uomini, ha obbligato Washington a variare la loro tattica iniziale. Il sostegno occulto (volutamente mai menzionato da TV e giornali) ai gruppi terroristici continua imperterrito, altrettanto si può dire per gli alleati di Washington nella regione, ciò che è cambiato è il racconto dei media in merito al conflitto. 

Gli attentati terroristici dei mesi recenti in Europa e negli Stati Uniti hanno catturato l’attenzione del grande pubblico e grazie ad un’accurata regia, specie negli Stati Uniti (complice le elezioni presidenziali), l’opinione pubblica è stata portata a credere che fosse necessario un intervento militare in Siria ed Iraq per arginare il fenomeno noto come Daesh. Pena, un deterioramento della sicurezza nazionale di svariati paesi occidentali. L’impossibilità di intervenire in prima persona ‘boots on ground’ ha spinto Washington ad armare e supportare direttamente (aviazione e forze speciali) i Curdi quali forza sul campo opposta ad ISIS/ISIL.

Dal canto loro i curdi, non avendo altre opzioni per riconquistare i territori persi precedentemente hanno accettato a loro rischio e pericolo di essere la forza sul campo prescelta della Coazione Internazionale. Hanno preferito ignorare il peccato originale di Washington (complicità con Daesh) cogliendo l’unica opportunità a loro disposizione. E’ stata una scelta che nel brevissimo periodo ha persino garantito i frutti sperati con la riconquista di svariate aree ed un’espansione del proprio territorio di oltre il 50%. Per alcune settimane i Curdi hanno sognato la riunificazione delle aree sotto il loro controllo in Siria ed Iraq, mentre Washington si godeva gli indiretti meriti mediatici (autoproclamati) della lotta contro Daesh, impedendo allo stesso tempo all’Esercito Arabo Siriano di riconquistare in prima persona il territorio in mano ad ISIS.

Dal punto di vista di Mosca questo cambio di approccio dell’amministrazione Obama al conflitto Siriano è stato una diretta conseguenza dell’intervento militare, diplomatico e mediatico della Federazione Russa e delle riconquiste del SAA e alleati. Un successo incompleto, ma pur sempre una vittoria contro un nemico di Damasco (Daesh). Una vicenda complicata come il conflitto in Siria si distingue anche per momenti in cui una vittoria parziale è pur sempre preferibile alla possibilità di una sconfitta.

La seconda fase del piano Russo, molto più ambizioso e di difficile realizzazione, riguarda la collaborazione militare con Washington e i suoi alleati contro le organizzazioni terroristiche presenti in Siria. Il continuo rifiuto di questa proposta ha smascherato nuovamente le vere intenzioni di Stati Uniti e partner regionali: rimuovere Assad partizionando il territorio Siriano.

Il massiccio sostegno concesso ai Curdi da parte degli Americani ha creato il contesto ideale affinché Ankara avesse le necessarie giustificazioni per un intervento in Siria. La minaccia di un’unificazione del territorio Curdo sul confine Turco rappresentava una linea rossa che Erdogan non vedeva l’ora di varcare.
Ciò che si comprende a distanza di mesi è che l’uso dei Curdi contro Daesh da parte di Washington è stata una mossa temporanea probabilmente concordata con Ankara, atta a placare l'attenzione verso Daesh del pubblico americano, per un tornaconto politico interno. Createsi le condizioni perfette, Ankara non ha esitato ad usarle a proprio vantaggio. In un colpo solo ha impedito la riunificazione delle località curde, ha compiaciuto l’alleato americano mettendo a disposizione una forza di terra strutturata (anche se per ora molto limitata) e tenta ora di ripulire la propria immagine mediatica grazie all'impressione di combattere Daesh. Approfondendo le dinamiche delle ultime settimane si scopre però che ISIL/ISIS ha spesso abbandonato i territori controllati sul confine Turco, senza neppure ingaggiare un confronto armato con l’esercito di Ankara. Un comportamento coerente con le tesi che vedrebbero Daesh funzionale ai meccanismi occidentali di cambio regime in Siria. 

L’ultimo disperato tentativo Americano di utilizzare la carta Curda per raggiungere i propri obiettivi strategici contro Damasco, è stato il blando tentativo fallito di aizzare i Curdi Siriani contro le forze di polizia regolari ad Aleppo. Sfortunatamente per i policy-makers USA, il bluff è durato poco grazie alla mediazione Russa che ha posto fine agli scontri.

Nelle ultime settimane la situazione continua ad evolversi a vantaggio di Damasco. Aleppo oramai circondata significa l’inizio della fine per le bande di terroristi nel nord della Siria. Washington, a corto di opzioni ha prontamente scaricato il momentaneo alleato Curdo a favore di una collaborazione militare completa con Ankara. Erdogan dal canto suo aveva nel frattempo consolidato il proprio potere con la vicenda legata al colpo di stato e giostrato le sue opzioni in modo tale da poter spendere la carta dell’intervento militare diretto in Siria con molteplici scusanti.

Erdogan ha ribadite pochi giorni fa al G20 svoltosi in Cina, di essere disposto ad aiutare e collaborare con Washington per riconquistare la città di Raqqa, roccaforte dell’ISIS in Siria. La sostanza di questo cambiamento non muta gli equilibri, ma inasprisce il conflitto e lo pone su un nuovo livello. Tutti i gruppi armati presenti in Siria nel corso degli anni hanno dimostrato di non poter reggere il confronto militare con Damasco e i propri alleati. Gli Stati Uniti, con il sostegno ai Curdi, hanno obbligato la Turchia ad essere la tanto richiesta e necessaria forza sul campo, indispensabile per occupare i territori attualmente in mano a Daesh, impedendone la riconquista a Damasco e minando l’integrità territoriale della Repubblica Araba. 

E’ il Piano B di Washington che sta prendendo forma, l’ipotesi dello smembramento della Siria già paventato da numerosi think tank occidentali come Brookings Institute e RAND Corporation. Le possibilità che questo piano si realizzi restano tutte da dimostrare. Il Piano A è fallito miseramente: Assad è ancora al potere ed è solo questione di tempo prima che il SAA e i suoi alleati possano terminare di liberare buona parte del paese dalle forze terroristiche. 

Resta da vedere come Daesh reagirà di fronte alla minaccia di perdere la propria ‘capitale’ Raqqa a favore delle stesse forze che l’hanno creata ed aiutata a prosperare (Turchia e Stati Uniti). Se ISIS/ISIL dovesse decidere di combattere e non abbandonare la città, sarebbe una novità assoluta per la coalizione internazionale e l’esercito Turco che si troverebbero invischiati nel pantano Siriano come mai prima ad ora. Come reagirebbe la popolazione Turca ed Americana con soldati e forze speciali uccise o fatte prigionieri? Erdogan e Obama sarebbero ancora in grado di giustificare l’operazione?

Il silenzio e le proteste ponderate di Mosca di fronte all'incursione Turca in Siria confermano i sospetti: i territori riconquistati da Ankara non sono strategici, la forza numerica Turca è limitata (quindi anche gli obiettivi) e la corsa su Raqqa potrebbe causare più danni che benefici ad Erdogan e Obama. Oltretutto, al momento l’esercito Arabo Siriano ha altre priorità strategiche da sistemare e non può, ne vuole effettuare le necessarie contromisure per giungere prima a Raqqa, liberandola. 

Il bluff di Obama ed Erdogan è tutto riassunto nelle ultime righe. Paventando di liberare Raqqa e penetrare ulteriormente nel territorio Siriano, sperano di indurre le forze di Damasco e alleate a togliere pressione sui gruppi terroristici nel resto del paese, ad Aleppo in particolare, spostando le truppe verso la città di Raqqa. Ciò a cui assistiamo da qualche giorno sono dichiarazioni di piccole conquiste delle truppe turche in territorio Siriano, volte a spingere Damasco a cascare nel tranello preparato da Washington e Ankara.

Con il tempo che gioca decisamente a loro favore, Mosca, Damasco e Teheran osservano la situazione con relativa tranquillità. La strategia pianificata sta dando i frutti sperati e ora americani e alleati hanno solo la capacità di reagire agli eventi sul terreno, non di dettarli o crearli. Rispetto ad un paio di anni fa, è un cambiamento clamoroso. Se Erdogan e Obama vorranno iniziare a fare il lavoro sporco a Raqqa, contro lo stesso gruppo terroristico che hanno allevato contro Damasco, che facciano pure. 

Tutte le opzioni a disposizione di Washington e dei propri soci in terrore avranno effetti negativi sul fatidico obiettivo di disgregare la Siria. Raqqa è una città Siriana, abitata da Siriani e anche qualora venisse liberata da Ankara non potrà mai essere inglobata in un fantomatico territorio Turco.

Le contorsioni strategiche, le contraddizioni morali, l’inganno mediatico e le recenti sconfitte militari dei gruppi terroristici hanno trasformato la Siria in un laboratorio del disastro per Washington, Ankara, Doha e Riad da cui non esiste, per loro, alcuna via d’uscita pulita o vincente.

Notizia del: 09/09/2016

la Differenza che a Hiroshima c'erano migliaia e migliaia di bambini, donne e uomini civili e quindi si è trattato di un crimine di guerra in grande stile, diciamolo agli statunitensi

Corea del Nord: test nucleare “più potente”. “Quasi come Hiroshima”

9 settembre 2016, di Alberto Battaglia

Un altro test nucleare, il quinto, il più potente, è stato portato a termine ieri notte in Corea del Nord. L’esperimento, secondo i media nordcoreani, testimonia come il Paese sia ora in grado di montare piccole testate nucleari sopra missili balistici; fatto che, se confermato, allargherebbe il raggio d’azione e di minaccia nucleare della repubblica socialista. In seguito alla detonazione è stata rilevata una scossa sismica di magnitudo 5.3, in grado di dare l’idea della potenza dell’ultimo test.

Le reazioni dell’alleanza dei Paesi vicini, Corea del Sud e Giappone, insieme con gli Stati Uniti, sono state di forte condanna, e, in questo caso, hanno delineato con maggior forza che Pyongyang si sta seriamente avvicinando al limite. E, fonti militari di Seoul, hanno riferito che il test nucleare effettuato oggi dalla Corea del Nord “è il più potente fino ad ora, poco meno forte dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima”. L’agenzia meteorologica sudcoreana ha precisato infatti che la potenza è stata a “10 kilotoni, quella di Hiroshima a 15″.

Un portavoce della Casa Bianca ha annunciato “gravi conseguenze”, mentre il presidente sudcoreano, Park Geun Hye, ha parlato di un atto “d’incoscienza maniacale” che potrebbe portare la Corea del Nord all’autodistruzione.

Anche la Cina, unico alleato di Pyongyang, ha intimato il vicino a interrompere i suoi piani di espansione nucleare.

Quello che gli osservatori ora attendono, dopo un 2016 mai così attivo da parte della dittatura comunista per quanto riguarda il numero dei test atomici, è di vedere se, alle manifeste intolleranze dei vicini si passerà all’azione contro la Corea del Nord e in che modo.

Un primo segnale concreto che gli Stati Uniti e la Corea del Sud prevedono di mettere in pratica è il sistema di difesa missilistica, noto come Thaad, che sarà installato sul territorio sudcoreano come fattore deterrente per Pyongyang.

Una mossa che però non è stata risparmiata dalle critiche della Russia e della Cina, che ne temono un possibile utilizzo anche a loro stesso danno.

Alle critiche del presidente cinese Xi Jinping, Barack Obama aveva risposto che non è possibile “avere una situazione nella quale si è incapaci di difendere noi stessi o i nostri alleati contro comportamenti sempre più provocatori”.

Energia pulita - eolico offshore continua l'abbattimento del costo di produzione

Nel parco eolico di Burbo Bank
Eolico offshore: Dong installa la turbina più grande del mondo


La turbina prodotta da Vestas è alta quasi 200 m, ha un diametro del rotore di 164 m ed vanta una potenza di ben 8 MW



(Rinnovabili.it) – Il parco eolico di Burbo Bank ospita da ieri la più grande turbina del mondo. La daneseDong Energy ha installato ieri la prima di 32 turbine prodotte da Vestas nel parco eolico offshore che si trova nel mare Irlandese a poca distanza dalla costa della Gran Bretagna. Ciascuna pala eolica, che svetta di quasi 200 m in altezza e ha un rotore dal diametro di 164 m, sarà in grado di fornire una potenza di 8 MW. L’operazione dovrebbe concludersi entro la prima metà del 2017. Combinate, le 32 turbine forniranno energia a 230mila abitazioni andando a sommarsi alle altre 25 pale da 3,6 MW già installate a Burbo Bank.

Dong Energy ha così battuto il record precedente – che deteneva l’azienda stessa – del parco eolico offshore di Westermost Rough, al largo dello Yorkshire nel mare del Nord, dove la compagnia danese aveva installato turbine da 6 MW per quasi 180 m di altezza. Questi rotori, prodotti da Siemens, erano stati testati da Dong solo 3 anni fa.

Non si tratta invece di un record per quanto riguarda il costo dell’energia dell’eolico offshore. Infatti l’obiettivo dell’azienda per quanto riguarda la competitività del progetto è di livellare i costi sulla soglia dei 100 euro al MWh entro il 2020. Ed è anche il motivo per cui sono state scelte le mega pale eoliche. “Usare turbine di dimensioni maggiori è un punto fondamentale nel tentativo di abbattere i costi – ha spiegato Benj Sykes, dirigente di Dong per la Gran Bretagna – Ciascuna turbina ha bisogno di fondamenta, cavi di collegamento con una stazione a terra e manutenzione. Perciò più MW riesci a generare con ciascuna turbina, più basso sarà il costo complessivo al MW”.

Ma è proprio Dong, lo scorso luglio, ad aver segnato il ribasso più consistente: l’azienda infatti si è aggiudicata la concessione per il progetto eolico “Borssele 1 e 2” grazie ad un’offerta davvero convincente: l’energia prodotta a regime dalle turbine sarà pagata solo 72,7 euro al MWh. Si tratta del prezzo più basso mai finito in gara per l’eolico offshore.

http://www.rinnovabili.it/energia/eolico/eolico-offshore-turbina-record-222/

Gli euroimbecilli si sono visti per riconfermare la loro euroimbecillità

EUROPA
«Sì solidarietà, no austerity». Ad Atene il vertice del Sud Europa
Grecia. L’alleanza dei leader progressisti in vista del summit di Bratislava. L’attaco di Schauble: «Niente di buono»




Teodoro Andreadis Synghellakis
PUBBLICATO 9.9.2016, 23:58

«Il summit del sud Europa» ha come obiettivo «il miglioramento della vita dei cittadini dell’Unione», ha dichiarato alla fine di questo «incontro a sette», il primo ministro greco, Alexis Tsipras. Le previsioni della vigilia sono state rispettate: nessuno scontro frontale con Berlino, nessun desiderio di isolazionismo politico, ma la volontà di contribuire in modo fattivo, a dare nuovo e diverso impulso alla costruzione europea. Italia, Grecia, Francia, Cipro, Malta, Portogallo e Spagna (malgrado Rajoy non abbia partecipato, a causa della perenne crisi politica di Madrid), sono convinte che si debba ricercare soluzioni migliori. Per una gestione solidale della questione migratoria, per riportare in primo piano il valore ed il bisogno di un’Europa sociale, per potenziare e possibilmente raddoppiare i fondi del Piano Juncker riservati alla crescita e gli investimenti. «Contribuiamo al dialogo, abbiamo bisogno di una nuova visione, vogliamo ispirare i nostri popoli», ha dichiarato il leader di Syriza. Ed allo stesso tempo, ha sottolineato che si deve fare di tutto per rigettare, con forza, le chiusure nazionalistiche e la xenofobia.

Il prossimo incontro dei paesi del Sud Europa si terrà in Portogallo, e lo scopo, come hanno detto tutti, non è e non sarà dividere, ma arrivare ad un’«Unione migliore». Nel corso della conferenza stampa, Matteo Renzi ha sottolineato che «la scommessa di questo incontro di Atene è rinnovare un’idea di Mediterraneo da cui l’Europa tira fuori la parte migliore di sé». Perché non può essere solo «regole, finanza, austerity e tecnicità», ma deve voler dire anche «valori, ideali e dimensione sociale».

Per formare il cittadino europeo di domani, il quale dovrà essere «kalos kai agathos», con un forte riferimento alla dimensione etica del suo agire. E Francois Hollande, dal canto suo, ha ribadito il bisogno di unità e coesione, per riuscire a dare speranza alle popolazioni dei paesi membri dell’Unione, specie quelle dei paesi che si affacciano sulla sponda mediterranea. La questione principale, quindi, è riuscire a rilanciare al più presto politiche di crescita, che possano avere ricadute positive sull’ occupazione e sulla vita concreta dei cittadini.

Il presidente francese e tutti gli altri partecipanti al vertice sanno bene che dopo il referendum sulla Brexit, non si può più far finta di niente, e che bisogna cercare di far sentire la propria voce, per incidere sul cammino che, d’ora un poi, seguirà l’Ue. «Non vogliamo creare un gruppo separato, ma l’Europa ha bisogno di un nuovo orientamento», ha spiegato il presidente di Cipro, Nikos Anastasiadis. Al momento, si può dire che l’iniziativa politica di Alexis Tsipras ha raggiunto il suo scopo: dimostrare che in questa realtà europea non c’è più un pensiero unico neoliberale, proporre delle iniziative concrete (come il rafforzamento del piano Juncker) e rendere l’ incontro dei leader del Sud Europa, un appuntamento stabile.

Non solo di quelli a orientamento progressista, come ha dimostrato la partecipazione all’iniziativa, di Cipro e Spagna. Perché un problema come quello dei giovani, «che non guardano al futuro con speranza, e chiedono un lavoro di qualità»- come ha detto il primo ministro portoghese Antonio Costa- in questo vastissimo Mezzogiorno fatto di disoccupazione e sofferenza, travalica anche le divisioni di carattere meramente ideologico.

Al vertice di Atene ha voluto reagire con stizza, una parte importante dei popolari: il ministro delle finanze tedesco, il noto falco Wolfgang Schauble, ha dichiarato che «per lo più, quando i leader socialisti si incontrano, non viene fuori nulla di buono». E il capogruppo dei popolari al Parlamento Europeo, Manfred Weber, ha deciso di rincarare la dose, convinto che Renzi e Hollande «si stiano lasciando manipolare da Alexis Tsipras» e che «questo atteggiamento non sia davvero indice di senso di responsabilità».

Prese di posizione estreme, che sono indice di nervosismo, in vista del vertice dei capi di stato e di governo europei a Bratislava, tra una settimana, dove si dovrà dare indicazioni concrete su priorità e scelte dell’Unione.

venerdì 9 settembre 2016

lo Stato ha l'esclusiva nell'emissione di moneta, NE HA IL MONOPOLIO. Colui che ha il monopolio nell'emissione di qualcosa, non deve prenderla in prestito da altri. Gli euroimbecilli lo sanno che in questa Europa la Bce crea moneta dal nulla come tutto il Sistema Bancario quando da credito crea moneta. Menzogna è dire che non ci sono i soldi

Quando vi dicono: “Mancano i soldi”, fate qualche confronto

Maurizio Blondet 9 settembre 2016

Dalle agenzie del 6 settembre: “ Il governo stanzierà 370 milioni di euro per interventi di proroga degli ammortizzatori sociali. A renderlo noto è il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, al termine dell’incontro con sindacati e rappresentanti delle Regioni. Nel dettaglio Poletti ha spiegato che per i lavoratori delle aree di crisi industriale complessa verranno stanziati 235 milioni di euro. “Per i lavoratori in Cassa Integrazione Guadagni straordinaria che si preveda si concluda entro il 31 dicembre 2016 – ha detto il ministro – ci saranno altri 12 mesi al massimo di proroga, con uno stanziamento di 85 milioni di euro”. Inoltre, sempre per i lavoratori delle aree di crisi, “abbiamo previsto 500 euro al mese al massimo per 12 mesi per quei lavoratori che nell’arco del 2016 hanno concluso l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, dall’Aspi alla mobilità. Le risorse stanziate – ha spiegato Poletti – saranno pari a 150 milioni di euro”. Il sussidio di 500 euro al mese andrà a quei lavoratori che “si renderanno disponibili a una ricollocazione e le Regioni dovranno mettere ulteriori risorse pari almeno al 20 per cento di quelle che mettiamo noi”, ha spiegato il ministro. Ad essere interessati saranno “35mila-40mila lavoratori”. Infine, verranno stanziati 135 milioni di euro per i lavoratori stagionali ricorrenti del settore del turismo e delle terme. Per questa tipologia di lavoratori, su tutto il territorio nazionale, ci sarà un mese in più di Naspi che passerà così da tre a quattro mesi.”.

Ministro Poletti, grande sforzo

Il ciglio si inumidisce. Ci si commuove a vedere lo sforzo con cui il governo pensa ai nostri disoccupati, le decine di migliaia di persone il cui sussidio per legge verrebbe a spirare a fine anno. No, non lascerà sul lastrico queste masse , il governo: ancora 12 mesi di Cassa Integrazione, ancora 500 euro al mese per quegli altri ammortizzatori sociali, e – sforzo supremo – un mese in più pagato ai precari del turismo.

Certo, si vorrebbe fare di più, “ma non ci sono i soldi”, come sapete. Lo Stato i soldi non li ha, lo dicono i giornali, lo dice il TG; lo dice Renzi, lo dice il ministro Alfano. Oh, come vorrebbero assistere i poveri e disoccupati! Ma i soldi non ci sono. Aver stanziato 370 milioni di euro per cassintegrati e simili è già un grosso sforzo. Il massimo.
La Camera: un miliardo l’anno

Un momento, italioti: avete messo mai in relazione i costi pubblici con quello che danno a voi, e quello che si prendono loro? Sapete per esempio che sono 370 milioni? Quattro mesi e mezzo di funzionamento del nostro Parlamento. La nostra Camera costa infatti quasi un miliardo l’anno – 978 milioni. Un miliardo l’anno, per ogni anno che fa Iddio. L’intero prolungamento di un anno della Cassa Integrazione Straordinaria, rappresenta un mese del costo della Camera.

Il nostro è il parlamento più caro del mondo. “Ad ogni cittadino italiano, il Parlamento costa tre volte di più che in Francia (27,15 euro rispetto a 8,11 euro), quasi sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro pro capite) – diceva uno studio della London School of Economics di qualche anno fa. “E non è tanto il numero dei parlamentari ad incidere (in Italia comunque superiore alle medie europee) ma il costo del Parlamento per deputato. «Più del 40% delle risorse del nostro palazzo sono assorbite dal personale della Camera. Stenografi o commessi – si legge nel documento – che individualmente arrivano, al massimo dell’anzianità, ad avere stipendi superiori ad alcune delle più alte cariche dello Stato». Di quel miliardino, il 79% se ne va in uscite per deputati e dipendenti tra indennità, stipendi, vitalizi e pensioni.
(Scusate se insisto con questa immagine)

Sono loro, quelli col cravattino. Inservienti e pretoriani con stipendi da capi di Stato. Per loro, nessun rischio di cassa integrazione. Come la maggior parte degli statali del resto. Per loro, i soldi non mancano mai. Si trovano. Altrimenti non si capisce come mai il debito pubblico è aumentato nei solo ultimi sei mesi a 78,9 miliardi di euro(79 anni di funzionamento del parlamento), ossia 150 miliardi l’anno. E’ tutta e solo spesa pubblica. Milioni ai cassintegrati, miliardi alle caste pubbliche inadempienti. Sono loro che fanno questo debito aggiuntivo, mentre tutti i privati sono legati e bloccati dalla “austerità”: no non solo con gli stipendi che prendono, ma con quel che rubano o dilapidano per incuria, per incompetenza, per spregio dei contribuenti italiani.Così restano solo 370 milioni per i cassintegrati.

Lo so che vi piace così, italioti, altrimenti vi sareste ribellati da molto tempo. Ma almeno sappiate cosa pensare, tutte le volte che vi dicono “mancano i soldi”.
Draghi ha stampato mille miliardi

Soldi? Mario Draghi in Goldman Sachs, oggi governatore della BCE, ne ha creati dal nulla mille miliardi di euro. Pari a mille anni di ‘funzionamento’ del nostro splendido parlamento. Lo ha fatto per stimolare la crescita e produrre un po’ d’inflazione, oggi allo 0,2 per ento, mentre il mandato BCE dice che l’inflazione deve essere mantenuta al 2%. Nel discorso ai giornalisti, Draghi ha fatto finta che la cosa sta funzionando; che un po’ di ripresa c’è e un po’ d’inflazione arriverà, presto o tardi. Lo ha detto con frasi che i media hanno riportato con venerazione, invece che come prestazioni di un grande comico:

“Il dato complessivo è quello di una crescita continua ma fiacca dello 0,3%, i dati revisionati indicano che l’economia sta perdendo invece che accrescendo slancio”. Così abbiamo saputo che “sostenuta ma spenta” (steady but sluggish) non sono contraddizioni in termini, nella neolingua della BCE.


Mille miliardi, mille anni di costo della Camera, tassi d’interesse negativi, soldi a palate per chi li vuole in prestito, non sono riusciti a smuovere l’inflazione. Anzi Evans Prichard del Telegraph ha mostrato che la deflazione è addirittura peggiorata nel corso del quantitative esasing (stampa di moneta). Come avviene sempre nella storia quando i banchieri lasciano instaurare la deflazione (la doveva combattere già Trichet, il predecessore di Draghi), e questa una volta insediata si auto-alimenta.

Il che dovrebbe metter un qualche serio dubbio sulla “professionalità” e la competenza dei tecnocrati, e l’opportunità in genere di lasciare il governo ad “esperti”: esperti di che, per favore? Solo pochi giorni fa gli uffici studi di due banche internazionali, Morgan Stanley e Credit Suisse, hanno confessato di essersi sbagliate: han previsto una recessione tragica per il Regno Unito a causa del Brexit, invece esso è in ripresa. “Credit Suisse ha aumentato le sue previsioni sulla crescita per il 2016 dal 1 per cento al 1,9 per cento, Morgan Stanley ha rivisto le sue previsioni al rialzo dal 1,2 al 1,9”. Che cosa guidava questi “esperti”? Forse la scienza economica con le sue equazioni che l’uomo comune non può capire? No, li guidava l’ideologia: l’ideologia per cui se si esce dall’Unione Europea si incorre nella punizione divina, si finisce nell’inferno della depressione.

Ma torniamo al trilione, ai millemiliardi creati da Draghi. Non li ha creati e poi messi nelle tasche dei poveri, pensionati e disoccupati, che in Europa sono decine di milioni – ciò sì sarebbe stato efficace a innescare l’auspicata inflazione. No. Crea moneta con un sistema molto più cervellotico e indiretto, il cui scopo è che l’uomo comune non si accorga che la moneta, i banchieri, la creano dal nulla. Draghi compra titoli di debito pubblico, degli stati dell’eurozona, e li “paga” con moneta inventata sui due piedi, una scrittura contabile: ma deve restare fermo il principio che gli stati si indebitano per la creazione di moneta. Peggio: acquista i titoli non direttamente dagli stati, ma sul “mercato secondario”, il che significa: aspetta che le banche private comprino i Bot i Bund e altri titoli di debito pubblico, e li compra da loro: così facendo lucrare anche alle banche private le commissioni, una sessantina di miliardi. Perché semelGoldman, semper Goldman: è come essere entrati nell’ordine sacro dell’usura perenne, non si manca mai di far lucrare le banche, anche se si diventa grand commis pubblici.

Ma passi. Domandiamoci invece: acquistando titoli di debito, Draghi aiuta soprattutto gli stati più indebitati? Grecia, Italia, Portogallo? No; non può “fare preferenze”. Ciò significa che acquista titoli di debito pubblico dallo stato più grosso della zona euro. Che è anche il più ricco e ha meno bisogno. Indovinato il nome?

Dal Financial Times: “Tra il 2008 e il 2015, ciò che lo stato tedesco ha dovuto pagare per interessi [sul proprio debito] un enorme 122 miliardi di euro in meno di quanto originalmente previsto. Nel 2015, il governo tedesco ha pagato 21,1 miliardi in interessi sul debito,quasi la metà che nel 2008, quando pagò 40 miliardi”. Un risparmio che il compassato Financial Times definisce “whopping”, che si può tradurre con “bestiale”.-
O’ tedesco chiagne e fotte

Capito? Il quantitative easing aiuta soprattutto – anzi soltanto – la Germania, che in un anno ha pagato 20 miliardi di euro in meno per interessi (vent’anni di coso del nostro parlamento, non dimentichiamolo). Anzi: aggrava lo squilibrio europeo ben noto.

La Germania, infatti, è il paese che mantenendo il surplus oltre il 6 per cento del suo Pil – un’aperta violazione dei trattati, non meno del deficit sopra il 3 per cento di cui rimprovera aspramente l’Italia – e non spendendolo, aggrava la depressione di tutta l’eurozona.

Ebbene: credete forse che Berlino sia almeno grata di questo regalo? Nient’affatto: non fa che rimproverare e minacciare Draghi sostenendo che la politica di interessi negativi distrugge i risparmi dei suoi risparmiatori. Insomma i tedeschi approfittano ed accettano i tassi negativi per non pagare il loro debito pubblico, ma vogliono tassi positivi sui depositi bancari dei loro risparmiatori.

La loro banca centrale ideale dovrebbe riuscire a questo miracolo.


Ma c’è di peggio. Qualche giorno fa il ministro delle Finanze Schauble ha annunciato: abbiamo ridotto ulteriormente il nostro debito sovrano, e contiamo di arrivare quest’anno al 67-68 per cento del Pil”. Avete letto bene: il 68% del Pil. Quello dell’Italia, è notoriamente a 130% del Pil.

E non basta: “Entro il 2020 contiamo di scendere al 60% del Pil, raggiungendo l’obiettivo stabilito dall’Unione europea». In pratica, ci fanno vedere che loro, primi della classe, continuano a perseguire il limite prescritto da Maastricht, e che i nostri governi hanno dissennatamente accettato: rientrare dal debito, sia il 60% nel 2020!

Ora, perseguire i “risanamenti” prescritti dal Trattato è già di per sé demenziale, paranoide e inutile; in questa fase di recessione. Deflazione instaurata e depressione dei paesi deboli della zona euro, è semplicemente un atto criminale.


Un delitto contro gli europei. Contro “l’Europa” politici, governanti e giornalisti ed economisti italioti tanto cara.

Contro lo stesso Mario Draghi che voi tanto ammirate: Schauble, restringendo la sua spesa pubblica senza necessità (dato che ha surplus) in questo momento di profondissima recessione, in pratica sta annullando il quantitative easing; aggrava la deflazione invece di aiutare a combatterla.

Lo fa, di sicuro, scientemente. Sabota consapevolmente la Banca Centrale: per un puro progetto di destabilizzazione e criminalizzazione dei paesi deboli? Andrebbe processato per questo. Ma presso quale tribunale, esente dall’egemonia tedesca? Bisognerebbe che gli altri governi trascinassero in giudizio la Germania per questo atto criminale. Quali governi?

Accoglienza migrantiLi andiamo a prendere lì. Danno lavoro ai clienti di Alfano.

Frattanto, sento distrattamente dire che l’accoglienza ai “profughi” ci costa 3,7 miliardi. Pensate un po’: per i nostri cassintegrati, 370 milioni e un grosso sforzo; per i “migranti” che le nostre navi da guerra vanno a prendere sul bagnasciuga della Libia, 3,7 miliardi, dieci volte in più.

E poi i dicono che “mancano i soldi”.

“Ma attenzione: questi soldi non vanno agli stranieri”, chiarisce Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale dello Sprar. “Con questo finanziamento si pagano gli affitti dei centri, i servizi e soprattutto i dipendenti. Ai richiedenti asilo si danno solo 2-2,5 euro al giorno”. È falso dire che l’Italia dà 35 euro al giorno a ogni migrante. Lo stato finanzia un indotto virtuoso. Tante persone lavorano nell’accoglienza: dipendenti dei centri, mediatori culturali, insegnanti di lingua, operatori sociali, chi si occupa del servizio mensa o delle pulizie. “La verità è che l’accoglienza, se fatta bene, crea lavoro”.

Capito? Tolti i 2,5 euro al giorno che vanno davvero ai negretti e “siriani” falsi o veri, il resto “crea lavoro” ai mantenuti, alle cosche e clientele siciliane di Alfano, ai “volontari” e alle assistenti sociali, alle insegnanti di italiano non occupabili perché ignoranti da non aver vinto ‘o concuorzo’, e anche di ginnastica ai negri ospitati nei centri d’accoglienza, o negli alberghi di serie D siculi, che non possono sperare in clienti normali, e adesso svolgono “l’accoglienza”, con la benedizione di El Papa: ossia prendono denaro pubblico offrendo un servizio di bassa qualità. Sono i soliti statali, le solite caste. Inadempienti, spoliatrici e incapaci.

E’ sempre così: milioni per voi, miliardi per loro. E vi dicono: “Mancano i soldi”.

http://www.maurizioblondet.it/vi-dicono-mancano-soldi-fate-qualche-confronto/