| 31 Gennaio 2017
Siamo alla resa dei conti nel partito democratico, lo scriviamo da giorni ma ogni ora che passa è sempre più evidente. La miccia, manco a dirlo, l’ha accesa Matteo Renzi con
la sua decisione di correre al voto senza aprire una discussione
interna sulla sconfitta referendaria, e senza modificare la legge
elettorale, quell’Italicum uscito scorticato dalla sentenza della
Consulta ma che ancora permetterebbe al segretario, grazie al sistema
dei capilista bloccati, di salvare se stesso e i suoi. Piazzando infatti
i fedelissimi nei posti giusti, Renzi si garantirebbe il controllo del
gruppo parlamentare e del partito nella prossima legislatura; e che
importa se il Pd si becca una sonora sconfitta e se il paese risulta
ingovernabile come evidenziano tutte le proiezioni dei sondaggisti:
l'importante è che l'ex premier rimarrebbe in piedi, padrone del campo.
Ma la sua decisione ha sollevato la rivolta interna al partito. Prima Matteo Richetti,
che doveva essere il volto “presentabile” del renzismo dopo la sberla
presa al referendum costituzionale, il quale dice, senza giri di parole,
che è “irresponsabile” andare a votare senza cambiare la legge
elettorale. Poi il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano,
che in una intervista al fulmicotone rilasciata nei giorni scorsi alla
Annunziata, suona la carica, evocando le “carte bollate” se il Congresso
non si farà, e se di carte bollate parla un ex magistrato per Renzi e i
suoi c’è da preoccuparsi, benché i fedelissimi del segretario lo
abbiano subito accusato di non conoscere lo statuto. Invece Emiliano lo
statuto lo conosce e le sue proposte lo dimostrano: vuole chiedere di
invalidare la decisione presa dalla direzione Pd di dicembre sul
Congresso da tenersi non prima di giugno, perché quella decisione
sarebbe stata presa senza raggiungere il numero legale. Non solo, ci
sarebbe anche un altro modo per dare a Matteo il benservito, un referendum interno al partito, sul Jobs Act, le banche e le altre scelte strategiche prese dal governo Renzi.
Per indire il referendum basterebbe il 5 per cento delle firme degli
iscritti, 13mila firme, che non è certo una missione impossibile per il
governatore della Puglia. Tanto più che quella di Emiliano non è una
battaglia di retroguardia e Michele ha già annunciato un nuovo portale,
primailcongresso.it. Francesco Boccia, economista e
figura di rilievo del Pd, ex braccio destro di Enrico Letta, ha fatto
sapere che si faranno i banchetti anche a Pontassieve, “sotto casa di
Renzi”, pur di ottenere quello che si chiede da più parti al segretario,
il congresso, appunto. Per non dire di Massimo D’Alema,
che ha evocato una scissione nel Pd, spiegando che “se nella sinistra
dovesse nascere un nuovo partito sicuramente supererebbe il dieci per
cento”, insomma un bel listone dai dalemiani alle truppe meridionali di
Emiliano, passando magari per Sinistra italiana e la rete dei comitati
per il NO al referendum costituzionale. Insieme, ovviamente, alla
minoranza interna al Partito democratico, i bersaniani, certo, ma anche
il governatore della Toscana, Enrico Rossi, che ha
lanciato una petizione sulla piattaforma Change.org per chiedere che il
congresso si tenga prima del voto. Intanto, l’ala che fa capo al
ministro Franceschini, chiede di aspettare almeno che venga depositata
la sentenza della consulta prima di agitare lo spettro delle urne.
Insomma, il blitz di Renzi con la rincorsa alle elezioni
si sta dimostrando sempre di più una scelta autodistruttiva: Renzi sta
portando allo sfascio non solo il suo partito ma anche l’Italia. Altro
che vincere con il quaranta per cento. Altro che responsabilità
istituzionale. Il partito di governo si è spaccato, Renzi è
sempre più solo e continua a fingere di voler fare il moderno
cincinnato tornato a Rignano sull’Arno per tenersi lontano dalla
politica romana. Che però non vuol dire, a quanto pare, ritirarsi a vita
privata. Ma brigare in ogni modo e giocarsi il tutto per tutto, come ha
sempre fatto, infischiandosene che il futuro prossimo del nostro Paese
dipenda dal redde rationem interno al Pd. Un film già visto, che non ha
mai portato bene all’Italia.
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