L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

mercoledì 1 febbraio 2017

Renzi è un morto che cammina e vuole portare nel baratro tutto il corrotto Pd, l'Italia non può aspettare

La Grande Guerra nel Pd

di
 | 31 Gennaio 2017
 
la grande guerra pd renzi

Siamo alla resa dei conti nel partito democratico, lo scriviamo da giorni ma ogni ora che passa è sempre più evidente. La miccia, manco a dirlo, l’ha accesa Matteo Renzi con la sua decisione di correre al voto senza aprire una discussione interna sulla sconfitta referendaria, e senza modificare la legge elettorale, quell’Italicum uscito scorticato dalla sentenza della Consulta ma che ancora permetterebbe al segretario, grazie al sistema dei capilista bloccati, di salvare se stesso e i suoi. Piazzando infatti i fedelissimi nei posti giusti, Renzi si garantirebbe il controllo del gruppo parlamentare e del partito nella prossima legislatura; e che importa se il Pd si becca una sonora sconfitta e se il paese risulta ingovernabile come evidenziano tutte le proiezioni dei sondaggisti: l'importante è che l'ex premier rimarrebbe in piedi, padrone del campo.
Ma la sua decisione ha sollevato la rivolta interna al partito. Prima Matteo Richetti, che doveva essere il volto “presentabile” del renzismo dopo la sberla presa al referendum costituzionale, il quale dice, senza giri di parole, che è “irresponsabile” andare a votare senza cambiare la legge elettorale. Poi il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, che in una intervista al fulmicotone rilasciata nei giorni scorsi alla Annunziata, suona la carica, evocando le “carte bollate” se il Congresso non si farà, e se di carte bollate parla un ex magistrato per Renzi e i suoi c’è da preoccuparsi, benché i fedelissimi del segretario lo abbiano subito accusato di non conoscere lo statuto. Invece Emiliano lo statuto lo conosce e le sue proposte lo dimostrano: vuole chiedere di invalidare la decisione presa dalla direzione Pd di dicembre sul Congresso da tenersi non prima di giugno, perché quella decisione sarebbe stata presa senza raggiungere il numero legale. Non solo, ci sarebbe anche un altro modo per dare a Matteo il benservito, un referendum interno al partito, sul Jobs Act, le banche e le altre scelte strategiche prese dal governo Renzi.
Per indire il referendum basterebbe il 5 per cento delle firme degli iscritti, 13mila firme, che non è certo una missione impossibile per il governatore della Puglia. Tanto più che quella di Emiliano non è una battaglia di retroguardia e Michele ha già annunciato un nuovo portale, primailcongresso.it. Francesco Boccia, economista e figura di rilievo del Pd, ex braccio destro di Enrico Letta, ha fatto sapere che si faranno i banchetti anche a Pontassieve, “sotto casa di Renzi”, pur di ottenere quello che si chiede da più parti al segretario, il congresso, appunto. Per non dire di Massimo D’Alema, che ha evocato una scissione nel Pd, spiegando che “se nella sinistra dovesse nascere un nuovo partito sicuramente supererebbe il dieci per cento”, insomma un bel listone dai dalemiani alle truppe meridionali di Emiliano, passando magari per Sinistra italiana e la rete dei comitati per il NO al referendum costituzionale. Insieme, ovviamente, alla minoranza interna al Partito democratico, i bersaniani, certo, ma anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi, che ha lanciato una petizione sulla piattaforma Change.org per chiedere che il congresso si tenga prima del voto. Intanto, l’ala che fa capo al ministro Franceschini, chiede di aspettare almeno che venga depositata la sentenza della consulta prima di agitare lo spettro delle urne.
Insomma, il blitz di Renzi con la rincorsa alle elezioni si sta dimostrando sempre di più una scelta autodistruttiva: Renzi sta portando allo sfascio non solo il suo partito ma anche l’Italia. Altro che vincere con il quaranta per cento. Altro che responsabilità istituzionale. Il partito di governo si è spaccato, Renzi è sempre più solo e continua a fingere di voler fare il moderno cincinnato tornato a Rignano sull’Arno per tenersi lontano dalla politica romana. Che però non vuol dire, a quanto pare, ritirarsi a vita privata. Ma brigare in ogni modo e giocarsi il tutto per tutto, come ha sempre fatto, infischiandosene che il futuro prossimo del nostro Paese dipenda dal redde rationem interno al Pd. Un film già visto, che non ha mai portato bene all’Italia. 

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