L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 13 maggio 2017

Italia prossimo presente - arginare, eliminare il corrotto Pd che sicuramente vuole portarci nella tomba come sta facendo quel falso ideologico di Tsipras con il popolo greco

SPY FINANZA/ L'assalto pronto alla "diligenza Italia"

Aumentano i segnali di una situazione poco favorevole in arrivo per l'Italia. Soprattutto, spiega MAURO BOTTARELLI, per via di quel che accade sull'asse Francia-Germania

12 MAGGIO 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Che palle questa democrazia! Non ha ovviamente usato questo tono, essendo lui una persona educata, ma il senso delle parole di Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici e monetari dell'Ue, era questo, quando ieri ha dichiarato che «l'incertezza che pesa sull'economia europea dopo le elezioni in Olanda e in Francia, dovrebbe continuare a diminuire nei mesi a venire, all'avvicinarsi della conclusione dell'impressionante ciclo elettorale in Europa». Insomma, il continuo ricorso alle urne, oltretutto sotto il giogo del rischio populista, sembrerebbe rallentare il trend della crescita europea, comunque sempre in ripresa. 

Moscovici ha infatti parlato in occasione della presentazione delle stime di crescita della Commissione Ue, appuntamento che ci ha però confermato una certezza: elezioni o no, l'Italia resta maglia nera in Europa per la crescita. Stando ai dati del massimo organismo Ue, che ha lasciato invariate le stime di crescita invernali (+0,9% nel 2016 e 2017, e +1,1% nel 2018), nel nostro Paese continua una «modesta ripresa». Quest'anno, Bruxelles prevede anche una «leggera accelerazione» degli investimenti nelle costruzioni, anche grazie a «più risorse stanziate per gli investimenti pubblici, un assorbimento più alto di fondi europei e l'impatto del piano Juncker». Nonostante ciò, le «costrizioni finanziarie per il settore costruzioni e per le Pmi restano». 

L'Italia, dunque, si posiziona all'ultimo posto per la crescita sia nel 2017 che nel 2018: «Da 0,9% quest'anno passa a 1,1% l'anno prossimo, perché persistono le fragilità strutturali che conosciamo», ha ribadito il Commissario agli Affari economici. Ma vediamo qualche altro numero, come riportato dall'Ansa. La Commissione Ue rivede al ribasso le stime sul deficit italiano, che scende grazie alla manovra-bis a 2,2% quest'anno (a febbraio era dato a 2,4%), e a 2,3% nel 2018 (a febbraio 2,6%). «Le misure aggiuntive prese ad aprile, soprattutto per aumentare la riscossione delle tasse, manterranno stabile il carico fiscale nonostante la riduzione della tassazione per le imprese dal 27,5% al 24%», scrive Bruxelles. In più. «è in leggero deterioramento il deficit strutturale». C'è poi il nodo del debito, per il quale è previsto un ulteriore «leggero aumento» quest'anno, poiché salirà al 133,1% dal 132,6% del 2016, dinamica «dovuta anche alle risorse aggiuntive stanziate per il sostegno pubblico al settore bancario e agli investitori retail». Infine, la politica: «L'incertezza politica e il lento aggiustamento nel settore bancario rappresentano rischi al ribasso alle prospettive di crescita italiane», anche se «l'elevata fiducia nella manifattura potrebbe implicare una domanda esterna più forte di quella data dalle previsioni». 

Ma attenzione, perché le fredde cifre possono far perdere il focus sulle dinamiche davvero interessanti, quelle che potrebbero prospettare per il nostro Paese e per la Bce, come vi dicevo ieri, un'estate torrida e un autunno da 1992 in versione 2.0. Interpellato sulla vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi, ecco la parole di Pierre Moscovici: «Sono lieto, e questo sentimento è condiviso all'interno della Commissione, per la sua vittoria alle elezioni francesi, in quanto ha consentito di evitare la minaccia di un populismo xenofobo violento e antieuropeo. È un segnale molto bello, non solo per la Francia ma anche per l'Europa. Macron è un europeista impegnato, che potrà realizzare progressi nella governance dell'eurozona, benvenuto». Insomma, praticamente è come se fosse nato un Messia laico. Ma a nascere, invece, pare un pericoloso asse contro l'Italia

Ecco, infatti, le parole del padrone del vapore, ovvero il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble: «Da molto tempo che l'Unione monetaria vada rafforzata. Il problema è noto: abbiamo una politica monetaria comune senza una convergenza adeguata delle politiche economiche e finanziarie. Ora si tratta di migliorare, intanto, nei Paesi dove mancano le riforme strutturali e la competitività. Ne abbiamo parlato spesso, io e Macron. Abbiamo molti punti in comune», ha spiegato in un'intervista concessa a Repubblica. Ma c'è dell'altro, perché con Macron non ha parlato solo della necessità di riforme, bensì anche di creare una sorta di Fondo monetario europeo attraverso il rafforzamento del Fondo salva-Stati (Esm) e nominare una specie di ministro unico delle Finanze. Il tutto, ovviamente, senza cedere un minimo al concetto di mutualizzazione fiscale. E a cosa porterebbe questo? Al bypassaggio dei vincoli posti dai vari Parlamenti alla modifica dei Trattati, devastando alla radice il concetto residuo di sovranità. «Sono già d'accordo con Macron», ha garantito il potente ministro della Merkel. Capito cosa ci aspetta? D'altronde, quando sei pecora nera, non puoi lamentarti tanto. Devi soggiacere alle richieste europee, visto che la ripresa dell'eurozona è strepitosa e la colpa dei rallentamenti è delle elezioni che destabilizzano - strana interpretazione della democrazia - e dell'Italia che non fa le riforme che richiede Bruxelles. 

Ecco il dato europeo, sempre presentato ieri: «Una crescita salda che continuerà con un ritmo stabile e con un Pil rivisto al rialzo per l'eurozona all'1,7% per il 2017 (1,6% nelle previsioni d'inverno) e invariato all'1,8% per il 2018. Ritoccato in su anche il Pil per l'Ue a 28 a 1,9% per entrambi gli anni da 1,8%». A detta della Commissione Ue, «l'Europa entra così nel suo quinto anno consecutivo di ripresa, che sta ora raggiungendo tutti gli Stati membri». Proprio sicuri? Vi faccio un esempio semplice semplice in grado di smontare la narrativa in atto. Guardate questi tre grafici, i quali ci mostrano rispettivamente quanto segue: il mercato azionario greco mercoledì pomeriggio ha chiuso in rialzo per il 12mo giorno di fila, la striscia positiva più lunga dal 1999, piazzando un guadagno del 25% che rappresenta uno dei risultati migliori al mondo nel 2017. Il perché è presto detto: il rinnovato accordo sul salvataggio e sul debito con i cosiddetti creditori. Secondo, l'ultima volta che il mercato azionario ellenico era così overbought è stata nel settembre 1999, spartiacque cui poi seguì un calo del 77%. Terzo e ultimo, i rendimenti dei bond greci sono collassati ai minimi post-crisi nelle scorse settimane, il tutto a conferma del fatto che il nuovo accordo sia in cassaforte. 




Peccato che ci sia un lievissimo intoppo: quell'accordo è anti-costituzionale in base alla legge greca. Lo State Audit Council di Atene, infatti, ha sancito che i tagli supplementari alle pensioni contenuti in quel memorandum violano la Costituzione e contravvengono addirittura le stesse regole europee, quelle regolate dalla Convezione Ue sui Diritti umani. Esatto, gli stessi diritti umani per cui Repubblica si strappa le vesti, quando denuncia in prima pagina la persecuzione dei gay in Cecenia, nel caso de pensionati minimi greci non valgono. Altrimenti le banche si arrabbiano. E anche gente tipo Moscovici. Quei tagli toccheranno oltre un milione di pensionati greci, che vedranno decurtazioni fino al 18%, sia sulle pensioni normali che su quelle sociali o di accompagnamento/reversibilità. Di più, i pensionati ellenici soffriranno perdite mensili tra i 45 e i 350 euro, mentre la perdita annuale massima potrebbe raggiungere i 3mila euro, il corrispettivo di 2,5-3 mensilità pensionistiche. 

E attenzione, non esiste alcuna esenzione dai tagli imposti dall'accordo: né per i pensionati minimi, né per le vedove, né per i percettori di pensione d'invalidità. Stiamo parlando del quinto taglio delle pensioni dal 2010 a oggi: non basta ancora? Cosa vogliono a Bruxelles e all'Fmi dai greci, anche le dentiere e i pitali? E cosa dice il governo greco, quello guidato dal Masaniello del Pireo, al secolo Alexis Tsipras? La decisione dello State Audit Council «non è vincolante, sull'argomento faremo riferimento a quanto deciso dal Consiglio di Stato». E, a vostro modo di vedere, quest'ultimo cosa deciderà, quando in cassa i soldi staranno finendo un'altra volta e si starà avvicinando l'ennesima tranche di rimborso? Insomma, qualcuno sa dirmi se questa è l'Europa di cui Moscovici si vanta tanto, bacchettando l'Italia sulle nocche? A me piacerebbe chiedere una cosa sola Commissario Ue: se l'Europa è salva, le prospettive inflazionistiche in trend rialzista e con la Bce pronta al tapering, come mai alcuni Stati europei stanno cominciando a emettere bond a lunga scadenza? La Francia di Macron, casualmente, sta lavorando al lancio di un bond a 30 anni e anche Italia e Belgio stanno studiando la pratica. Addirittura, alcuni rumors parlano del fondo Efsf che opererebbe nel frame. 

Io capirò poco di economia, ma i bond a lungo termine hanno un senso quando ci sono aspettative inflazionistiche basse all'infinito, cioè quando il futuro è quello di tassi bassi per sempre: come si concilia tutto questo con la narrativa dell'economia europea in ripresa rosea e con l'atteggiamento di Commissione e Bce? Perché bond sovrani a 30 anni, se l'economia continuerà a crescere? Forse sta succedendo qualcosa ma, ancora, non sappiamo cosa sia? Forse i mercati - e gli Stati - sanno che sta arrivando uno shock e che, come vi dicevo ieri, la Bce sarà costretta a fare gli straordinari: l'attivismo folle sul mercato azionario e obbligazionario greco delle ultime settimane ne è la riprova. Se arriva lo shock, si venderà tutto capitalizzando al massimo i rialzi ottenuti in primavera, grazie alle false promesse dell'ennesimo accordo. Poi, dopo il tonfo, ci sarà ancora vita, perché ci avrà pensato il buon Mario Draghi, il quale infatti ripete a ogni piè sospinto che l'Eurotower è pronta a intervenire, in caso le condizioni deteriorassero. 

E al netto della bolla creditizia cinese, la quale drenerà l'impulso monetario finora garantito a livello mondiale, cosa di meglio di un bell'assalto alla diligenza Italia passato il G-7 e durante l'estate, quando si abbassa la guardia? D'altronde, di gente che vorrebbe votare a novembre mi pare ce ne sia sempre di più, ogni giorno che passa. E l'Europa ha già in agenda di imporci le riforme, forte del nuovo asse Francia-Germania. Stavolta, la tempesta pare davvero perfetta. E di quinte colonne siamo davvero pieni.

Pierluigi Fagan - Ontologia sociale e naturale della comunità


Pubblicato il 13 maggio 2017 di pierluigi fagan

Tra il mille e la fine del milleduecento, la popolazione europea cresce decisamente, quasi raddoppia. Accanto a questo fenomeno di cui indaghiamo il ruolo causale (causante e causato) si riformano o formano ex novo le città mentre il possesso delle terre passa dalla centralizzazione regale alle signorie. Le signorie favoriscono la crescita della produttività nella coltivazione agricola, tanto da produrre eccedenze che vanno a sviluppare lo scambio


nelle città (mercato). Questo aumento della produzione chiama ulteriori investimenti per dissodamento, deforestazione, bonifica, irrigazione che vogliono dire manodopera e strumenti prodotti dall’artigianato. Si pongono problemi di rete viaria per collegare città con città e città con campagne e si pone il problema della moneta, del suo valore e della sua circolazione. A sua volta, la moneta è chiamata anche dalla sincrona espansione dell’attività mercantile ed artigiana ed in mancanza di una risposta puntuale ed adeguata, nascono i primi strumenti finanziari e creditizi. La crescita del Duecento è l’innesco di un lungo processo che porterà alla modernità. Giovanni Arrighi, nel suo monumentale “Il lungo XX secolo” pone qui l’invenzione dell’alta finanza[1] dei Bardi e dei Peruzzi, poi dei Medici, in quella Firenze che accoppiò il commercio religioso per conto di Roma, con quello della lana che importava dai Paesi Bassi e dalla Francia e poi da tutte le nuove altre fonti, finanziando anche le produzioni del Nord Europa e collocando i prodotti nel Levante in cambio di spezie, tinture e prodotti esotici che rigirava alla nuova classe affluente europea. A seguire, la prima forma di capitalismo finanziario (che secondo Braudel è l’unico, vero, capitalismo in quanto tale), sviluppata da Genova, quello più spiccatamente commerciale di Venezia e la prima industria del milanese e del Nord Italia.

Cosa causò la crescita del Duecento? Il modello di causa semplice, prevede una causa che poi determina a cascata tutte le altre. Un modello di causa complessa può anche prevedere una prima causa con funzione di accensione del ciclo espansivo ma dovrebbe considerare l’intero processo come strutturato da un sistema. Ogni parte del sistema alimenta la


crescita del sistema stesso e rinforza le altre cause talchè l’innesco iniziale può essere anche una fluttuazione casuale che attraverso rinforzi non lineari, produce attraverso il “sistema” che alimenta se stesso, il nuovo fenomeno macroscopico. La descrizione del modello allora, tratterebbe il fenomeno di causazione come centrato sul sistema, un sistema certo innescato inizialmente ma in cui questa causa prima ha una funzione causale ma anche casuale. In realtà la causa forte del fenomeno è plurale ed interna al sistema stesso. E’ anzi proprio l’autopoiesi del sistema la causa forte del fenomeno e sarà la descrizione delle sue sincronie e diacronie a costituire la descrizione della sua logica causale. Infine, un sistema non è mai nel vuoto e quindi reagisce a molte sollecitazioni e limitazioni esogene mentre tenta la sua riconfigurazione.

Nella storiografia medioevale, si è ritenuto per lungo tempo che questa causa, “prima” in senso temporale, la causa della crescita del Duecento, fosse da ricercare in un abbinamento tra cambiamento climatico e momentanea riduzione delle diffusioni epidemiche che portarono ad un beneficio quantitativo demografico, ma con ulteriore beneficio qualitativo in seguito alla fine della triplice minaccia portata dagli invadenti popoli esterni (vichinghi e normanni, ungari, saraceni) . Questa spiegazione è stata promossa dagli storici mentre gli economisti hanno promosso la propria interpretazione, riportando la causa all’aspettativa di un crescita della rendita da parte dei signori che 
per rinforzare il 


proprio potere, hanno cominciato a fare investimenti che permettessero un maggior e miglior sfruttamento della terra.

Tra 1000 e 1350 in Europa la popolazione cresce, si stima, da 30 a 70 milioni. Si tenga conto che dopo il 1350, la popolazione crolla di un terzo e ci metterà poi molto tempo a crescere di nuovo. Lo stesso incremento del 233% di questi tre secoli e mezzo, partendo dai 70 milioni raggiunti nel 1350, impiegherà quasi cinque secoli per prodursi di nuovo (circa intorno al 1815)[2]. Si tenga anche conto che produrre una crescita sistemica partendo da 30 non è come produrre una crescita partendo da 70, quanto più contenuto è il sistema tanto più è sensibile alle fluttuazioni causali e casuali.

Tenendo conto di questa considerazioni, appare allora non esistere una dicotomia tra causazioni climatico-epidemiche a loro volta supportate indirettamente dalla cessazione della pressione dei popoli esterni e quelle della prima comparsa della brama del profitto da parte dei signori. Queste cause sono in competizione descrittiva solo perché lo sono le discipline dei rispettivi studiosi. La causa prima a livello di sequenza fu a sua volta l’interazione di più cause, quelle predilette dalla lettura storica e quella prediletta dalla lettura economica. Un causazione pluralizzata dalla sincronia tra clima, minori epidemie e minor pressione delle invasioni barbare (che potrebbe anche esser stata causa delle minori epidemie) produsse non solo una prima fluttuazione demografica ma anche le ragioni per le quali, dato che il potere centrale ebbe minor ruolo e necessità poiché la funzione dei re


era di accentrare e coordinare le milizie offerte dai signori, si sviluppò il diverso ruolo dei signori della terra. Questi, per altro, avrebbero dovuto “sentire” l’avvento di tempi favorevoli in quanto convergenza di variabili, prima di investire nell’aumento della produttività creando così l’innesco per la formazione dello scambio, quindi dei mercati e della rinascita cittadina. Questa poi portò sia alla comparsa di una nuova attività artigianale, sia della nuova rete che collegasse i centri tra loro e le città meglio alle campagne e non solo quelle immediatamente vicine, che portò poi allo sviluppo di un nuovo atteggiamento verso la moneta e l’attività finanziaria e creditizia a seguito della grande espansione commerciale. Questa espansione, godette in primis dell’aumento della domanda in seguito all’aumento della popolazione ma anche della fine delle turbolenze barbariche, variabili a loro volte condizionate dal clima.

La contrapposizione tra storici ed economisti non è l’unica, c’è anche la contrapposizione tra endogeni ed esogeni della causa ovvero tra coloro che cercano le cause dei cambiamenti nei rapporti adattivi tra un sistema ed il contesto e coloro che le cercano all’interno del sistema al netto del contesto. Su questo piano, ci pare che la ragione rimanga dalla parte degli storici e degli esogeni più che degli economisti e degli endogeni e che il sistema economico non sia il senso primo delle forme umane di vita associata ma una funzione affiancata ad altre nel più generale sistema sociale che deve continuamente adattare le sue forme interne alla logica con cui la società si adatta al suo esterno, un esterno che è sempre in cambiamento anche se meno o più pronunciato. Se infatti, pur dandole il ruolo di minima fluttuazione iniziale che di per sé non è la causa determinata ma solo la condizione di possibilità, una causa singolare prima delle cause plurali prime va cercata nel caso in oggetto, essa rimane quella del cambiamento climatico. Fu il


cambiamento climatico, principalmente, a determinare l’esaurirsi della spinta migratoria dei barbari che divennero stanziali. Ottenendo le loro migliori condizioni di possibilità dove già si trovavano, non ebbero più molta spinta a premere ed invadere i confini della prima Europa che, per altro, aveva evoluto le proprie capacità difensive. Questo portò anche un vantaggio di minor contagio epidemico che, com’è noto, dipende in gran parte dai contatti tra popoli che sono cresciuti a lungo separati, sviluppando proprie immunità che sono diverse le une da quelle degli altri[3]. Non solo gli abitanti della prima Europa, vissero un po’ di più ed un po’ meglio perché non trucidati dagli invasori e falcidiati dalle epidemie ma anche loro, cominciarono ad ottenere primi benefici dal cambiamento climatico in termini di produzione e quindi di alimentazione. Se l’assenza delle minacce invasive diede minor ragione dell’esistenza dei poteri centrali che ai tempi avevano l’unica funzione di coordinare l’attività militare svolta dalle forze dei tanti signori legati dai patti feudali alle monarchie, questi si poterono certo meglio dedicare allo sviluppo delle proprie terre anche mossi dalle migliori condizioni di possibilità generali tra cui il trasferimento della proprietà e il suo lascito in eredità. Certamente questa visione di un futuro per la prima volta da molto tempo più roseo e promettente, li mosse all’intraprendenza ed a tutto ciò che gli economisti hanno notato come aumento della produttività e conseguente produzione di quelle eccedenze che innescarono tutte la cause sistemiche seconde.

Se tutto ciò lo adottiamo come descrizione esplicativa, ne traiamo quattro possibili considerazioni epistemiche:
  • La prima è che nei fenomeni complessi non esiste la causa singolare ma le cause al plurale. Il che certo diminuisce il ruolo del pensiero determinista ed aumenta quello del pensiero casualista non al punto di sostituire quello con questo ma al punto da relativizzare entrambi gli assunti estremi (caso e necessità) che sono più polarizzazioni concettuali utili alla logica binaria della nostra mente che fatti concreti del reale.
  • La seconda è che i sistemi umani, fatti di società, economia, cultura, storia etc., sono mossi da una generalissima regola che impone l’adattamento a condizioni esterne e se queste non cambiano è meno probabile cambino anche i sistemi umani. Anche qui, ha minor senso l’estremismo endogeno e maggior quello esogeno senza per questo ricadere in un determinismo stereotipato stante che il risultato finale di una adattamento risulta sempre dalla relazione tra la forma e la storia del sistema ed il suo contesto e né solo il primo determina tutto, né solo il secondo.
  • La terza è che il cambiamento è dipendente sia dalla dimensione ovvero strutturazione e resilienza del sistema, sa dall’entità della o delle cause esterne. Significative queste ultime, ci vuole comunque un sistema sensibile alle fluttuazione e perché s’inneschi un cambiamento significativo, ci vogliono cicli non lineari di imput – output che moltiplichino e diffondano treni di causazioni innescati anche da sole fluttuazioni.
  • La quarta è che il cambiamento strutturale dei sistemi è costante e progressivo nel tempo ma quando agiscono cause plurali esterne di una certa entità (misurabile sia in quantità che in qualità) alla configurazione adattiva interna ai sistemi, è richiesto un salto, una riconfigurazione che porterà ad una radicale trasformazione, ad una “forma nuova”. Questo lo registriamo nel passaggio delle ere e -in parte- delle epoche.

Tornando alla storia dell’economia del medioevo centrale, se ad esempio la densità abitativa dell’Europa fosse stata minore e le eccedenze fossero state scambiate tramite mercanti itineranti (come -in parte- nel mondo musulmano), non si sarebbero formati i mercati, non si sarebbero formate le condizioni forti per la rinascita cittadina, non si sarebbe sviluppata una attività economica che viene spesso sottovalutata: l’artigianato. La rete di città tra loro

 

collegate che andava dall’Italia[4] alle costa del Mare del Nord, città accompagnate da campagne che a latitudini diverse producevano prodotti diversi quindi maggiormente scambiabili (l’islam, ad esempio, si sviluppò lungo lo stesso parallelo, Rabat-Tripoli-Damasco e Bagdad sono allineate tutte poco sopra il 30° parallelo; tra i prodotti svedesi e quelli del Maghreb importati dalle flotte delle città stato italiane invece, passano ben quattro paralleli, dal 30°, al 60°), fu la condizione di possibilità principale affinché le varie cause potessero agire di concerto. In più, sarà questa “vivacità commerciale” la ragione stessa della transizione successiva prima all’alto medioevo e poi alla modernità, non prima di essere però passati per la catastrofe dei cinque anni della peste del Trecento, un evento decisivo per molte ragioni tra cui il crollo dell’immagine di mondo che dominava la mentalità del medioevo. Fu proprio questo passaggio a cancellare l’uomo imbozzolato nella fede provvidenziale con tutto il portato di gerarchia terrene a modello di quelle celesti e ad aprire all’uomo intraprendente mosso da varie ragioni ma presto anche temperato dalla razionalità calcolante già sottolineata da Weber. Nell’unità metodologica “società” in cerca di adattamento, non esiste una
 divisione netta tra strutture e


sovrastrutture, l’uomo fa ciò che pensa e pensa secondo quanto ha già fatto e realizzato di efficace, nel più classico dei cicli ricorsivi.

L’impostazione adattiva della storia racconta dei successi e dei fallimenti che le forme dell’umano vivere associato (clan, tribù, etnie, società, regni, imperi, stati, civiltà) incontrano nel corso della loro reciproca interrelazione e della relazione con il contesto geo-climatico che le ospita. Il “sistema” scelto come forma del vivere associato, ha sempre il compito di ridurre il disordine intrinseco che la dinamica del mondo ha e quindi di produrre ordine. La società è un veicolo adattivo usato dagli individui per vivere il più a lungo ed al meglio possibile, questo è il significato originario del vivere associato che è strategia primitiva del biologico. Usando in analogia il funzionamento alla base dell’origine e del mutamento delle specie, le innovazioni tecnologiche, le dinamiche tra classi, i grandi uomini possono corrispondere alla casuale proposizione di innovazione genetica dovuta ad errori di replicazioni del DNA ma alla fine sarà il rapporto tra organismo (la società) e gli altri organismi (le altre società) e l’ambiente (il contesto geo-storico-climatico) a dare l’assenso o meno sulla favorevole esistenza di questa novità. Le civiltà, le società, i grandi sistemi egemoni della storia umana, ad un certo punto falliscono perché nati inconsapevolmente e non intenzionalmente per qualche ragione che ne determinò il primo positivo adattamento,


non riuscirono a produrre novità adattiva alle mutate condizioni di ciò a cui dovevano nuovamente adattarsi. La storia, racconta questi successi e questi insuccessi.

A proposito di contesti, gli economisti farebbero bene ragionare includendo le variabili geografiche e farebbero meglio ad adottare logiche sistemiche e complesse a cui, in genere, sembrano allergici. Sembra costitutiva della presunta “scienza”[5] economica, la tendenza a ridurre il complesso sociale a quello economico (un “materialismo storico” che sembra accumunare tanto i marxisti che i liberali), trovare in questo presunte leggi di natura (con una definizione di natura umana che è sconcertane) che diventano oggetto di formule dall’oggettiva apparenza, scollegarsi da discipline come la demografia, la sociologia, la psicologia umana, l’antropologia, la geo-storia attraverso l’abuso di quel “ceteris paribus” che ipotizza comode parità di condizioni che invece pari mai sono, concentrarsi solo sulla vista endogena visto che i contesti non contano (?), abusare di descrizioni a grana grossa quando il racconto storico mostra un tal numero di variabili componenti i fenomeni da suggerire di tener conto di una costante rete delle cause, per altro dinamiche. Due sono i modelli scientifici principali della modernità, quello di Newton e quello di Darwin. Il mondo della complessità fisica ha trovato il suo paradigma in Newton, quello della complessità biologica l’ha trovato in Darwin (un Darwin che noi consideriamo come teoria adattiva non come teoria dell’evoluzione). Il pensiero economico farebbe bene a dimenticare Newton ed a ripassare la lezione di Darwin.


Quanto detto per gli economisti, non vale solo per loro, i sociologi che sarebbero in teoria più attrezzati a considerare l’unità metodologica “società”, che è poi il vero ed unico soggetto oggetto di dinamica adattiva macroscopica, adottano più variabili ma cercando la “struttura delle relazioni interne”, tendono anche loro a decontestualizzare il loro oggetto di studio. Isolando l’oggetto dal contesto, loro ma anche molti altri, finiscono in quel relativismo con ambizioni universalizzanti che è l’occidental-centrismo. Dimenticandosi di contestualizzare all’Europa o all’isola americana abitata prevalentemente da ex-europei, finiscono con il confondere ricorrenze locali con leggi generali. Poi vanno a leggere l’islam o la Cina o l’India e rimbalzano perplessi perché i fatti violano le teorie ma lungi dall’assumere questa falsificazione per tentare nuovi modelli, fanno finta di niente e con ciò, rinforzano le infondate pretese universali della cultura europea che rimane coloniale nel suo DNA epistemologico. Meglio gli antropologi che almeno per costituzione, vanno a studiare gli Altri anche se solo quelli allo stadio pre-civile. Nel complesso, se queste discipline si parlassero un po’ di più, la somma delle loro parzialità forse migliorerebbe il totale, ma questo appello alla reciproca interferenza è anatema per il bon ton accademico che protegge la divisione del lavoro cognitivo più di quanto Taylor proteggesse la segmentazione produttiva nella catena di montaggio.

= = =


La cultura della complessità, a livello paradigmatico, invita a rifuggire dal riduzionismo, dal determinismo ed invita positivamente ad includere nei sistemi interpretativi (dove anche le descrizioni sono interpretazioni), eterogenei contributi pluri-disciplinari. Il riduzionismo è una forma di compressione algoritmica, un sussumere molte cause in una. Il determinismo è la pre-decisione si debba individuare strette necessità quando ciò che chiamiamo “caso” (più spesso un coacervo di cause minori legate da un gomitolo di interrelazioni non lineari che assume l’aspetto di “fluttuazione”) ha spesso altrettanto ruolo. L’appello a darsi impianti interpretativi che nel caso in questione non possono escludere la storia del prima e del dopo, la climatologia, la geografia, la demografia, le mentalità, ciò che è intorno, la sociologia quanto l’economia e financo l’epidemiologia, serve proprio per produrre descrizioni più attinenti alla complessità del descritto senza costringerlo nel letto di Procuste dato dai confini fissi della disciplina di cui siamo specialisti. 

Altresì, le cause


efficienti vanno rapportate a quelle permettenti, le condizioni di possibilità si aprono e si chiudono favorendo o impedendo l’azione casuale ed il fatto “nuovo” che si cerca immediatamente per dar ragione di un evento “prima no-poi sì” può non esser qualcosa di veramente nuovo ma qualcosa di vecchio che si comporta in modo nuovo o permette ad altri fenomeni di comportarsi in modo nuovo. Infine, tra la perfezione formale povera di contenuto dei “modelli” e delle “leggi” a la rugosità del reale pieno di eccezioni e localismi, si consiglia una continua spola tra le descrizioni a grana grossa e quelle a grana fine. Se la nostra cognizione abbisogna di grana grossa (astratto) per sussumere il tanto in poco dato che la nostra capacità mentale è poca, 


si deve sempre ricordare che il mondo che interpretiamo è fatto della trama a grana fine (concreto), se non finissima perché è “tanto” e “complesso”.

Insomma, il mondo è complesso e dovrebbero esserlo anche i nostri sforzi descrittivi ed interpretativi. Poiché è con queste descrizioni ed interpretazioni che produciamo quella conoscenza, che è l’unica risorsa umana per sviluppare positivo adattamento al cambiamento dei contesti nel tempo, in un mondo sempre più complesso com’è il contemporaneo, questo invito prende forma di imperativo. Imperativo confermato dalla obiettiva difficoltà di rispondere alla domanda: le nostre società sono adatte al contesto nel quale si trovano e sempre più si troveranno? Il modo di stare al mondo che originò da quella crescita del Duecento, un mondo frazionato in zolle di civiltà tra loro scarsamente collegate e complessivamente sottopopolate (circa 500 milioni di abitanti il pianeta), è adattivo anche in un mondo iperconnesso benché frazionato in più di 200 stati, con 7,5 miliardi di abitanti? Continuerà ad esserlo con i 10 miliardi che avremo tra tenta anni?

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[1] Ma invero molti altri otre a lui, ad esempio Braudel.

[2] Apparirà allora ben significativa il dato di crescita della popolazione mondiale che tra il primo ‘900 ed oggi (poco più di un secolo) ha registrato un +400%.

[3] McNeill (2012)

[4] L’Italia era a sua volta il terminale degli scambi con Medio Oriente ed Africa.

[5] Chi scrive sostiene che scienza si ha dei fenomeni esclusivamente naturali. Si possono avere prestiti metodologici, suggerimenti sperimentali, si può usare in modo analiticamente proficuo per ottenere sintesi per elaborare ragionamenti il linguaggio e la logica matematica ma questo “tendere” ad una conoscenza certa e riproducibile rimarrà costitutivamente sempre un “tendere” e mai un “essere”. Sarebbe allora meglio, trovare un altro termine per quelle discipline che usano iscriversi alla categoria delle “scienze umane”.

Piccola bibliografia:
Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, 2014
Bordone, Sergi, Dieci secoli di medioevo, Einaudi, 2009
Braudel, Scritti sulla storia, Bompiani, 2001-2016
Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, 1981
McNeill, La peste nella storia, Res Gestae, 2012

La Russia vende gli S-400 alla Cina, India e forse Turchia

LA TURCHIA VUOLE UN SISTEMA ANTI-AEREO AVANZATO: GLI S-400 RUSSI POTREBBERO ESSERE LA RISPOSTA


(di Davide Bartoccini)
12/05/17 

È solo questione di soldi, ma la Turchia alla ricerca di un sistema anti-aereo avanzato si avvicina all’acquisto dell’ S-400 (advanced long-range anti-air missile) che viene menzionato come ‘F-35 killer’.

Durante una riunione svoltasi nella città di Sochi la scora settimana, il presidente russo Vladimir Putin e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan hanno delineato i termini di un accordo che porterebbe in Turchia il sistema d’arma capace di individuare obiettivi distanti oltre 600 chilometri e colpirli in un range di 400 km con missili che raggiungono i 17.000 km/h.

“I dettagli tecnici e il prezzo sono stati il fulcro dell’intensificazione dei nostri incontri", ha dichiarato il ministro della difesa turco Fikri Isik. “Non appena la questione del prezzo sarà risolta il presidente e il primo ministro prenderanno una decisione definitiva" ha riportato il quotidiano turco Hurriyet, secondo per diffusione nel paese.

La ratifica di questo accordo sarà uno dei temi principali dell’incontro che si terrà la prossima settimana alla Casa Bianca tra il presidente americano Donald Trump e il presidente turco Erdogan; poiché gli Stati Uniti si sono sempre opposti al possesso da parte dei propri alleati di sistemi d’arma non conformi a quelli della NATO.

In risposta a questa preoccupazione, il ministro della Difesa turca Isik ha chiamato in causa proprio quest’ultima: evidenziando come la NATO avrebbe ‘ignorato’ le richieste avanzate dalla Turchia in merito all’aggiornamento delle proprie difese aeree.

Il sistema Surface-to-Air S-400, classificato dalla NATO come il nome in codice “Growler”, ha un prezzo unitario di 400 milioni di dollari. Ogni unità comprende otto lanciatori con una dotazione di 112 missili. Secondo fonti russe l’S-400 sarebbe efficace anche contro i caccia stealth di quinta generazione F-35 Joint Strike Fighter.

Attualmente la Russia ha schierato il sistema S-400 presso la base aerea Khmeimim, nei pressi della città di Latakia, nella Siria nord-occidentale, proprio in seguito all’abbattimento del Sukhoi Su-24M da parte di un F-16C turco nel novembre del 2015. (v.articolo).

Se i termini dell’accordo proposto dalla Russia venissero accettati, la Turchia diventerebbe il terzo acquirente straniero del sistema d’arma S-400 dopo Cina e India, che hanno già firmato gli accordi per l’acquisto di S-400.

(foto: MoD Fed russa)

Siria - la sopravvivenza pare assicurata

DE-ESCALATION E GUERRA A BASSO PROFILO: ECCO IL FUTURO PROSSIMO DELLA SIRIA


(di Giampiero Venturi)
12/05/17 

Ai colloqui di pace di Astana in Kazakistan (aggiornati al 16 maggio prossimo), sono stati finora raggiunti alcuni importanti risultati.

Il memorandum firmato il 4 maggio da Russia, Iran e Turchia prevede la creazione di zone cosiddette di “de-escalation”, simili alle più note “no fly zone”. Le aree individuate sono quattro:

- la regione di Idlib allargata a Latakia, Aleppo e Hama;

- i territori a nord di Homs;

- Est Ghouta (area metropolitana a est di Damasco);

- l’area di Dar’a e Al Quneitra a ridosso del Golan.

L’idea è di Mosca e permette innanzitutto di abbassare il volume del conflitto in tutto il Paese, ma al tempo stesso di raggiungere un obiettivo strategico: dagli accordi sono esclusi l’ISIS, i gruppi terroristi legati ad Al Qaeda (ex Al Nusra) e Hayat Tahrir al-Sham ; la guerra quindi si concentrerà contro le fazioni estremiste trovando un punto di convergenza tra tutti i Paesi coinvolti.

Tra i protagonisti dei lavori di Astana non è un caso che ci sia la Turchia, grande sorella degli islamisti del nord, ma finita in un cul de sac per due ragioni:

1) Trump ha deciso di continuare ad armare i curdi che combattono sul fronte di Raqqa;

2) la nascita di Hayat Tahrir al-Sham (Movimento di Liberazione del Levante) nel nord della Siria, sta alimentato una guerra civile tra islamisti che mette in difficoltà Jaysh al Islam e il Free Syrian Army appoggiati dai turchi.

Interesse della Turchia è spegnere rapidamente il fuoco e arrivare ad un guadagno minimo lungo tutta la linea di confine con la Siria. Le speranze di Ankara non sono in contrasto con l’idea di creare aree cuscinetto come una sorta di cornice intorno al Paese arabo. 

Cosa succederà allora in Siria?

Il rafforzamento militare di Assad continuerà e permetterà nei prossimi mesi di eliminare progressivamente tutte le sacche di resistenza jihadista nella regioni più importanti del Paese. La partita si gioca su due piani.

Da una parte Damasco continua a siglare accordi di resa con i gruppi ribelli che consegnano le armi pesanti in cambio del trasferimento nel Governatorato di Idlib, diventato il punto di raccolta di tutti i ribelli islamisti. Gli accordi consentono ai siriani di dislocare altrove migliaia di soldati e di rafforzare tutti i territori liberati: attualmente le cinque città più importanti della Siria (Damasco, Aleppo, Hama, Homs, Latakia) sono saldamente nelle mani del governo.

Dall’altra ci sono i combattimenti contro gli jihadisti esclusi dal memorandum di Astana che in queste ore continuano in tutta la Siria. Partita l’offensiva tra Palmira e Deir Ezzor (mentre scriviamo elicotteri Mi-8 russi atterrano a Deir Ezzor con centinaia di siriani di rinforzo), i governativi contano di allungare anche a sud, lungo l’autostrada Damasco-Baghdad, verso il confine iracheno.


Si verranno comunque a formare dei cuscinetti di territorio dove, almeno per il momento, Damasco non avrà giurisdizione.

Il primo è a nord est e coincide con il Kurdistan siriano (Rojava). I curdo-arabi delle SDF, appoggiati dagli USA, hanno liberato in queste ore la diga di Tabqa sul Lago Assad e sono a pochi chilometri da Raqqa, sedicente capitale dello Stato Islamico. La scelta di Trump di continuare ad armare i curdi non piace affatto ad Ankara che intanto consolida le sue posizioni nella fascia di confine di Jarablus, da dove partì Scudo dell’Eufrate nel 2016.

In contrasto con i disegni turchi c’è però il concentramento nel Governatorato di Idlib di tutti i transfughi jihadisti espulsi dal resto della Siria. Fino a tutto il 2016, l’area era terreno esclusivo dei miliziani turcomanni legati ad Al Nusra, armati proprio dalla Turchia. Il papocchio in corso nella Siria del nordovest, sta ridisegnando i rapporti di forza. Da gennaio 2017 circa 20.000 terroristi della ex Al Nusra si sono integrati nel cartello ridenominato Hayat Tahrir al-Sham, capeggiato da Abu Jaber Hashim al-Shaykh. Il nuovo gruppo si prefigge di continuare la lotta contro gli sciiti (praticamente governo siriano, iraniani ed Hezbollah…) ma per questioni di leadership è ai ferri corti con Ahrar al-Sham altro gruppo di galantuomini fondamentalisti, storicamente appoggiato da Turchia, Qatar e Arabia Saudita.

In altre parole, il famoso cuscinetto a nord sul confine turco-siriano rischia di saltare nella misura in cui i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham (circa 40.000 unità, secondo fonti d’intelligence) chiuderanno le porte ad Ankara. Di fatto sta già avvenendo: il memorandum di Astana prevede che la Turchia possa accedere al Governatorato di Idlib per difendere i suoi confini; gli integralisti di Tahrir al-Sham però si stanno opponendo creando fortificazioni.

Terzo anello è il fronte sud, dove Giordania e Stati Uniti stanno mettendo le basi per un’operazione di terra (leggi articolo). Con la supervisione di Israele, intenzionato a impedire accessi diretti al Golan di gruppi sciiti filosiriani (Hezbollah su tutti), è previsto il controllo militare della fascia che dal Mediterraneo arriva all’Eufrate. In sostanza i miliziani del Free Syrian Army saranno appoggiati per contrastare il ripristino della sovranità siriana lungo il confine giordano e iracheno. Damasco per il momento invia truppe e continua a marciare verso sud…

Sono ore decisive queste per la Siria. L’ISIS sta per perdere Raqqa, simbolo da tre anni della follia islamista. Damasco sta vincendo la guerra; le scelte degli USA nella delicata partita tra curdi e Turchia, stabiliranno gli equilibri finali. 

Il tentativo di smembramento della Siria disegnato prima della guerra da Arabia Saudita, Qatar e amministrazione Obama (con l’ok indiretto di Israele) è stato strozzato. Anche se niente tornerà come prima del 2011, probabilmente la Siria esisterà ancora.

(foto: SAA)

Siria - queste sono fake news, menzogne inventate



di ANTONIO PANNULLOvenerdì 12 maggio 2017 - 15:38

L’attacco chimico di Khan Shaykhun, in Siria, “che secondo i media occidentali sarebbe stato opera delle truppe di Assad“, sarebbe soltanto una “false flag”, ossia un falso, una messinscena. A sostenerlo è Luigi Di Stefano, già perito tecnico per i casi Ustica e Marò, che ha elaborato un dossier in cui prova a smontare pezzo per pezzo quella che definisce “la versione di comodo che i media mainstream hanno dato in pasto all’opinione pubblica occidentale”. E che l’opinione pubblica occidentale si è bevuta tranquillamente. ”Ci sono almeno quattro errori fondamentali commessi dai ribelli antiAssad che hanno organizzato la sceneggiata – sostiene Di Stefano -. Le scene con le persone soccorse dopo l’attacco chimico sono girate dentro una cava che non si trova nella città attaccata; il famoso cratere non è stato creato da un esplosione con gas Sarin ma è semplicemente un razzo andato fuori bersaglio di un attacco a un complesso industriale che si trova a 20-30 metri; soprattutto il famoso video dei bambini, quello che ha scatenato l’indignazione occidentale, che risulta pubblicato su Youtube il giorno prima, il 3 aprile e non il 4″. “Ci sono poi le incongruenze scientifiche su quella che sarebbe dovuta essere la contaminazione, che avrebbe dovuto riguardare decine di migliaia di persone – sottolinea Di Stefano -, per non parlare dei cadaveri utilizzati ad hoc per la messinscena, privi del rigor mortis che un attacco con gas esteri fosforici come il Sarin avrebbe causato immediatamente”, conclude l’esperto, sfidando chi non gli crede a studiare il dossier completo (consultabile al http://www.seeninside.net/siria/) e a confutarlo.
Le foto – fatte da chi? – dell’attacco chimico subito messe in rete

Inoltre, le foto scattate sulla scena del bombardamento sono state pubblicate immediatamente su Twitter e Facebook e condivise dagli attivisti dei “caschi bianchi” siriani e dai popolari blogger dell’opposizione. Questa trama è stata dimostrata dalla corrispondenza tra Mustafa al-Haj Yussef, uno dei leader dei caschi bianchi e Sakir Khader, un fotografo ben conosciuto, scovata e resa pubblica da JAsIrX, un hacker malese, che ha anche pubblicato una lettera sul suo blog che rivela i preparativi per la ripresa filmica del danno del presunto attacco chimico. Intanto si apprende che le forze regolari del governo di Bashar al-Assad “avanzano nel quartiere di Qaboun”, zona sotto controllo dei terroristi della capitale Damasco. Lo riferiscono gli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, legati all’opposizione islamica armata al legittimo governo siriano, dopo che nei giorni scorsi il portale di notizie vicino all’opposizioneAll 4 Syria ha riportato di trattative in corso per arrivare a un “accordo” che preveda l’uscita dei ribelli e delle loro famiglie dall’area. L’obiettivo di Damasco sarebbe arrivare a una “intesa” simile a quella che lunedì ha visto un primo gruppo di ribelli e civili lasciare il sobborgo di Barzeh, la prima operazione del generale nella zona della capitale.

Siria - Turchia, Iran, Russia tentano di risolvere politicamente la destabilizzazione di questo paese

Siria: chi perde e chi vince con gli accordi di Astana

12 maggio 2017 


Astana, Kazakistan. I giornali italiani non ne hanno parlato molto ma nell’indifferenza generale la scorsa settimana (il 3 e 4 maggio) si è svolto il quarto incontro nel quadro dei colloqui di pace per la Siria.

Peraltro a rilevanza di questo incontro travalica di molto i confini della martoriata Siria. Si potrebbe trattare, dopo esattamente un secolo, del seme di un nuovo “Asia Minor Agreement” (quello raggiunto nel 1916 dai sempre denigrati Sykes e Picot), con il quale, con attori totalmente differenti di quelli dell’epoca, si gettano le basi di una nuova spartizione di aree di influenza nella regione. Forse esagero … e me lo auguro!

Sappiamo che in aprile, ONU e Lega Araba hanno dichiarato che il bilancio delle vittime di quello che queste due Organizzazioni hanno definito “il conflitto più mortale del XXI secolo” sarebbe ormai di ben 400.000 morti. Purtroppo, mi sembra che – oltre a tenere la macabra contabilità delle vittime – entrambe le Organizzazioni in questi sei anni abbiano fatto ben poco per contenere l’incremento delle vittime o dei profughi. Non parliamo neanche della ricerca di una soluzione politica alla crisi (settore in cui i veti incrociati pro e contro Assad hanno impedito qualsiasi progresso della situazione).

Invece, forse, questo quarto incontro internazionale potrebbe portare a qualcosa di nuovo. Non so se i precedenti tre round di colloqui in Kazakistan avessero contribuito a facilitare il dialogo tra le parti in conflitto. Possibile, ma difficile dirlo, non avendo conseguito visibili effetti sul perdurare dello spargimento di sangue in Siria, dove, per contro, la situazione sembrerebbe essere persino peggiorata negli ultimi mesi.

In tale contesto, le aspettative degli analisti internazionali per questo quarto round apparivano forse limitate.


I fuochi d’artificio a base di TLAM (Tomahawk Land Attack Missile ) lanciati contro la base aerea di Shayrat (vicino a Homs) in risposta ad un presunto (e mai dimostrato) uso di armi chimiche a Khan Sheikhoun aveva probabilmente fatto tramontare anche le poche speranze residue.

Comunque, hanno partecipato ai colloqui sia il Governo di Assad sia i rappresentanti delle fazioni armate anti-Assad, successo non indifferente, visto che tale partecipazione era stata in forse sino all’ultimo momento e ben tre potenze “garanti”: Russia, Turchia e Iran.

Inoltre erano presenti, sia pure solo in qualità di “osservatori”, Staffan de Mistura (inviato speciale dell’ONU per la Siria), Stuart Jones (Acting U.S. Assistant Secretary of State for Near Eastern Affairs) e Nauaf Oufi Tel (in rappresentanza del Ministro degli Esteri della Giordania).

Ovvero…”visto che ormai non possiamo avere un ruolo di giocatori in campo, almeno tentiamo di farci notare sugli spalti!” Alla fine, nonostante visibili segni di insofferenza da parte delle fazioni anti-Assad, è stato firmato dalle tre potenze garanti un “memorandum” che prevede, a partire dal 6 maggio, la creazione di quattro “de-escalation zones” dove devono cessare i combattimenti tra forze governative ed anti-governative.

I tre “garanti” si sono dati tempo fino al 4 giugno per stabilire i confini effettivi di tali “de-escalation zones”, mentre i particolari su chi di fatto supervisionerà il cessate il fuoco e la distribuzione di aiuti umanitari non sembrano ancora chiari.

Il “memorandum” stabilisce una tregua di sei mesi a partire dal 6 maggio, rinnovabile nel tempo. Inoltre vieta all’aeronautica governativa di sorvolare le “de-escalation zones”.


La Russia ha chiarito, comunque, che le operazioni militari contro ISIS e al-Nusra continueranno anche all’interno di queste zone e ha sottolineato che le ostilità dovranno cessare tra le parti presenti ad Astana. Il governo siriano nell’impegnarsi a rispettare i termini del memorandum, ha confermato, però, il proprio intendimento di combattere il terrorismo ovunque si nasconda.

Comunque, la Siria si è impegnata al rispetto dei termini del “memorandum” finché le forze ribelli faranno altrettanto, chiudendo però la strada a qualsiasi ruolo dell’ONU al riguardo.

Dovranno essere realizzate le condizioni per garantire l’assistenza sanitaria alla popolazione e il ripristino delle infrastrutture del rifornimento idrico e di altre forniture vitali. All’interno delle zone individuate, sotto la supervisione del governo siriano, dovrà essere fornita assistenza umanitaria a tutta la popolazione senza distinzioni.

Insomma, vi sono in ciò che è stato reso noto dei punti che appaiono poco chiari e forse contraddittori. Che la finalità fosse di creare delle “safe areas” umanitarie o gettare le basi per una ripartizione etnica del paese è presto per dirlo (verosimilmente entrambe le finalità). Le quattro aree individuate, lungo un immaginario asse meridiano che va dal confine con la Turchia (nel nord) a quello con la Giordania (nel sud) sono:
La zona 1 (la più vasta) comprendente la provincia di Idlib (sede per un certo periodo dell’autoproclamato governo interinale del’opposizione anti-Assad, dove sarebbero presenti forze anti-governative islamiste di Hayat al Tahir al-sham) e alcuni territori circostanti. Si tratterebbe di un’ampia zona in prossimità e confinante con la Turchia.
La zona 2 (di estensione limitata) a nord di Homs (Rastan e Talbiseh).
La zona 3 in prossimità di Damasco (Ghouta orientale, area ad est della capitale, teatro di importanti scontri tra i governativi ed i ribelli soprattutto nel periodo aprile –maggio 2016 ). In tale area sembrano essere presenti forze anti-governative filo-saudite di Jaysh al-Islam.
La zona 4 ingloba alcune aree di confine nel sud della Siria, in particolare Deraa (città sul confine con la Giordania, il cui sanguinoso assedio da parte dei governativi nel 2011 fu sicuramente elemento di escalation nella rivolta anti-Assad) e Quneitra (la “città fantasma” sul Golan, di cui dal ’73 israeliani e siriani si rimpallano la responsabilità della distruzione). In tali aree sembrano essere presenti forze anti-governative definite “moderate”.

Sicuramente, nonostante la presenza di aspetti tutt’ora poco chiari, non si deve sottovalutare l’importanza sul campo del presente accordo. Era difficile prevedere un percorso verso la soluzione di una crisi che dura da sei anni, ma le cui radici covavano sotto la dittatura da quasi mezzo secolo. L’istituzione delle zone de-escalation potrebbe rappresentare un primo timido passo verso una normalizzazione.


Naturalmente, il prosieguo è pieno di incognite e abbiamo visto fin troppe volte come accordi come questo non sopravvivano più di qualche giorno. Comunque, i negoziati dovranno continuare sia ad Astana (il quinto incontro è previsto per luglio) sia , soprattutto, a Ginevra.

Ciò che mi interessa, invece, non è tanto vedere ciò che succederà all’interno e intorno alle quattro “de-escalation zones”, ma vedere, come ne esce il contest geo-politico più ampio.

Intanto, chi ha rinforzato la propria posizione.
In primis la Russia, che ha saputo ritagliarsi il ruolo di sia di negoziatore sia “gendarme internazionale ” in relazione alla Siria. Ruolo che potrebbe espandersi ad altre aree della “mezzaluna fertile”. La crisi irachena vede il coinvolgimento delle stesse potenze regionali (Iran e Turchia) e di entità statuali o meno presenti ana (Giordania, confinante con entrambi, Curdi, presenti in entrambi i paesi, conflittualità sciiti-sunniti, ecc). Inoltre, sembra ormai sicuro un consolidamento navale russo nella parte occidentale del Mediterraneo, garantito dal riacquisito controllo sulla Siria (riacquisito, perché prima degli anni novanta del secolo scorso la presenza militare sovietica in Siria era un dato di fatto). Probabilmente la Russia si aspetta anche qualche “dividendo” dei suoi accordi con Turchia e Iran in relazione al contrasto della turbolenza che pervade le comunità islamiche della CSI.
L’Iran, ovviamente , che viene di fatto “sdoganato” (nonostante i mal di pancia statunitensi) quale elemento di stabilizzazione nella regione. Inoltre, l’Iran si afferma sempre di più come paladino delle comunità islamiche scite o comunque non sunnite, ovunque si trovino.
La Turchia,ha ottenuto un successo politico non indifferente, che le consente di fare la voce grossa nei confronti dei Curdi (verso Est) e di ritagliarsi un ruolo totalmente autonomo e sicuramente di forza nei confronti di UE e NATO (verso ovest). Inoltre, la creazione di una vasta “de-escalation zone” intorno ad Idlib (area confinante con la Turchia) potrebbe consentire un forzato rientro di profughi siriani in quell’area e, forse, essere la premessa per la “generosa offerta” di un consistente “aiuto” turco nella gestione della sicurezza e dell’assistenza umanitaria all’interno dell’area.
Da Astana sembra uscita bene anche la Giordania, sia per la visibilità garantita dalla presenza (anche se solo con lo status di osservatore) sia per la possibilità di un forzato rientro di profughi nella “de-escalation zone” di Deraa (area confinante con la Giordania)
Ebbene anche Assad, non ne è uscito troppo male, soprattutto perché i “garanti internazionali “dell’accordo sembrano favorevoli a mantenerlo in sella (almeno per il momento, ma si sa che nulla è duraturo in Medio Oriente!


Chi sono invece i tanti che hanno perso un po’ di prestigio e di credibilità?
In primis, gli USA e il loro Presidente. L’amministrazione Trump, presentandosi platealmente come rottura con il passato, avrebbe forse potuto tentare di riempire il vuoto lasciato da Obama in relazione alla crisi siriana ed impostare un diverso rapporto con Putin al riguardo. Purtroppo, così non è stato! La mancanza di visione a lungo termine, il bisogno maniacale di far vedere che si è presenti subito e comunque, per far “vedere chi comanda”, hanno tradito il Tycoon e la sua ristretta corte di consiglieri! Il lancio (peraltro senza serie conseguenze tattiche!) di Tomahawk contro la base aerea di Shayrat è sembrato più il capriccio di un bambino viziato che la scelta lungimirante di uno statista.
L’ONU, il cui Consiglio di Sicurezza ancora dopo una settimana chiede alla Russia di avere più informazioni sui termini dell’accordo e sulle modalità organizzative per la gestione delle “de-escalation zones”. Peraltro, la Russia preme perché il Consiglio di Sicurezza ratifichi il “memorandum“ di Astana (dandogli un crisma “super partes”). L’ONU ha dimostrato di non essere riuscito a porsi come interlocutore credibile nella soluzione della crisi ed è stato autorizzato a partecipare ai colloqui solo in qualità di innocuo osservatore (insomma, “tappezzeria” cui però oggi la Russia chiede di convalidare quanto da lei fatto). Interessante notare che il ministro degli esteri siriano, Walid al-Moallem, l’8 maggio ha dichiarato fermamente: “Non ci sarà alcuna forza internazionale sotto il comando delle Nazioni Unite nelle zone di de-escalation. Non ci sarà alcun ruolo per l’ONU o per le potenze internazionali in queste aree!”
La Lega Araba, che per l’ennesima volta si è dimostrata spettatore incapace di alcuna mediazione in relazione ad una crisi interna ad un proprio paese membro, crisi che è stata innescata da un fenomeno maturato nel mondo arabo (le così dette “primavere”, che però sono sembrate più cupi e grigi autunni che hanno portato a rigidi inverni). Tale fallimento è reso più cocente dal ruolo che due potenze regionali islamiche non-arabe (Turchia e Iran) hanno invece saputo ritagliarsi
Arabia Saudita, che sarebbe (al pari di Turchia e Iran) una potenza regionale dell’area e a cui si ispirano varie milizie anti-Assad presenti in Siria. Invece, i sauditi non hanno avuto voce in capitolo in un accordo di fatto imposto da 3 potenze che gli sono più o meno apertamente ostili. Inoltre, l’accordo che rinforza la posizione di Assad, ovviamente non è certo gradito a Riad!
L’Unione Europea, che pur essendo da sei anni testimone inerme della mattanza siriana e risentendo politicamente ed economicamente della pressione dei profughi provenienti dalla Siria, non è riuscita ad aver alcun ruolo in un processo di pacificazione etero-diretto, di cui comunque continuerà a pagare una parte del conto.
La NATO. Non che ci si aspettasse un ruolo politico-militare dell’Alleanza nella soluzione della crisi, che sarebbe stato fuori luogo. Però l’Alleanza, che si basa sulla coesione dei suoi membri e in cui vi è un nutrito partito anti-russo non può non prendere atto della deriva della Turchia che si pone come interlocutore della Russia per la soluzione di una grave crisi alle porte dell’Alleanza.
Israele. Anche se una de-escalation zone sul Golan siriano potrebbe rappresentare una buona notizia, abbiamo visto come da Astana escano “vincitori“ dei nemici di Israele (Iran, Hezbollah, Assad) o potenze con cui ha lo Stato Ebraico ha una storia di rapporti problematici (Russia e Turchia). Inoltre, l suo principale sponsor (gli USA di Trump) è stato messo in ombra e ciò dovrà certamente preoccupare Gerusalemme.
I Curdi in fondo non ne escono troppo bene, in relazione soprattutto al ruolo assunto da ben 3 loro nemici: Turchia, Iran e Assad. Ma il gioco per loro è ancora tutto aperto.
La Francia ha sempre mantenuto un rapporto particolarmente stretto con i suoi ex-possedimenti coloniali. Siamo abituati a vederne interventi militari in ex-colonie. Interventi normalmente a fianco delle locali forze governative condotti su base bilaterale senza necessariamente la copertura di un mandato da parte di organizzazioni internazionali. Nel corso della lunga crisi siriana, Parigi ha frequentemente strizzato l’occhiolino ai ribelli anti-Assad e ha invocato interventi internazionali in tal senso. Sorge il dubbio sul perché allora non abbia assunto (come ha fatto in molti altri casi) iniziative militari nazionali, eventualmente limitate nel tempo e negli obiettivi. Non voglio qui andare a ipotizzare quanto sulla politica estera francese nella regione pesino i principi umanitari e di salvaguardia dei diritti umani, quanto pesino le pressioni da parte della comunità islamica francese (circa il 7,5% della popolazione, senza contare gli immigrati, popolazioni quasi esclusivamente sunnite) o quanto, infine, gli interessi delle monarchie petrolifere della penisola arabica e i contratti della TOTAL. Sicuramente un mix delle tre. Comunque la posizione francese non sembra essere stata premiata dall’outcome di Astana e la Francia, oggi, avrebbe meno autorevolezza di quella che aveva fino a un paio di anni fa nella crisi siriana.

Per il futuro a breve termine cosa possiamo aspettarci?

Per la Russia il successo politico-diplomatico in Siria potrebbe essere in prospettiva il primo passo per inglobare l’intera regione nella sua sfera d’influenza. A brevissimo termine, comunque, le garantisce l’ampliamento di un’importante sbocco sul Mediterraneo.


Inoltre, Putin, stringendo accordi politico con ’Iran, si assicura un rapporto con la potenza regionale sicuramente più influente a sud delle repubbliche caucasiche ex-sovietiche. Gli interessi russi a cooperare con l’Iran sono molteplici (geo-politici, energetici e militari, per citarne solo alcuni).

In quest’ottica non si può escludere nel prossimo futuro:
L’incrementata presenza politico-militare russa nel Mediterraneo;
L’incremento dell’influenza Iraniana e Turca nella regione;
Ampliamento del “footprint” navale russo nella fascia costiera che va da Tartus a Latakia e della presenza navale russa in generale nel Mediterraneo;
L’incrementata influenza di Hezbollah in Libano;
L’esigenza per Israele di considerare l’opportunità di un proprio riposizionamento tra USA e Russia.

In tale interessante contesto, “le stelle” (sia quelle della bandiera americana sia –soprattutto- quelle dell’Unione Europea) stanno a guardare!

Foto: SANA, TASS, Reuters e Ministero Difesa Russo

Venezuela: Il Globalismo Capitalistico tutto omologa, tutto deve avere sotto controllo

Gianni Minà: la civile resistenza del Venezuela


Intervista de l'AD a Gianni Minà: "Contro le oligarchie e le menzogne dei media, il Venezuela tragga insegnamento dal popolo cubano per resistere alle ingiustizie del nostro tempo."

di Alessandro Bianchi

Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo, potere e libertà”. Oltre cinquant'anni di giornalismo con un'attenzione particolare ai diritti dei più deboli e a chi si ribella alle ingiustizie nel nuovo libro conversazione (con Giuseppe de Marzo) di Gianni Minà, un gigante di una professione che ha visto lentamente morire in occidente. “Questa professione da noi è totalmente morta. Io sono da anni che lavoro poco o niente. Ma ho accettato la realtà e non mi lagno. È il prezzo che si paga per la libertà”.

INTERVISTA DE L'ANTIDIPLOMATICO A GIANNI MINA'

La prima domanda è d'obbligo visto il titolo del libro: come va il mondo in questo fase?

Male, molto male. In questa fase sembra che tutto debba essere veloce. E mi fa ridere, ma anche arrabbiare. Cosa significa essere veloci? Ho conosciuto uomini che hanno dato all’umanità regali di saggezza, civiltà e scrittura senza paragoni e che non hanno mai tenuto in conto la velocità e il tempo. Per loro al centro c’era la riflessione. Così mi sento di affermare che nel mondo moderno spesso si utilizza la velocità come scusa. Un malinteso per truccare e neutralizzare quello che dici. Si tratta di un piano perfetto, un capolavoro che annulla il bisogno della censura tanto caro al potere. Da questo punto di vista le reti sociali compiono molte volte purtroppo un ruolo fondamentale e diventano conniventi.

Qual è stata la scintilla per scrivere questo libro?

Il Referendum di Renzi. La prepotenza di chi ha voluto legare i destini di un paese ad un aut aut sulla menzogna affermando che con la vittoria del NO non ci sarebbe stato un domani. Ma, del resto, è l’epoca dei colpi di Stato mascherati.

E dopo questa frase non possiamo non arrivare all’America Latina, alla tua America Latina…

Eh già. Honduras, Paraguay, Brasile e ora Venezuela. In America Latina si ripete con ancora più arroganza e violenza quella che è stata per anni la campagna contro Hugo Chávez. E poi quando è morto, al funerale c’erano 33 fra capi di stato o di governo e milioni di persone presenti. Milioni. Lo ripeto sempre perché è la prova visiva più grande che tutto quello che i media occidentali avevano raccontato dal 1999 sulla rivoluzione bolivariana era falso. Si sono accorti che non era un criminale come l’avevano dipinto. Chávez aveva perso una sola elezione in quindici anni e aveva ammesso la sconfitta subito il giorno dopo. Se penso al volto attuale degli Stati Uniti, Donald Trump, mi viene da ridere. Come mi viene da ridere a vedere certi giornalisti che prima lo descrivevano come il diavolo, e ora si sono già allineati quando hanno capito che avrebbe portato avanti, anzi insistito con la stessa politica bellicista praticata dagli Usa in Afghanistan, Iraq e Siria

Adesso però la situazione in Venezuela ha assunto un livello di scontro ulteriore…

Si persegue la fine del governo di Maduro. Così come in passato si puntava alla fine del governo di Chávez e si arrivò al golpe dell’aprile del 2002. Dopo le 43 vittime del 2014 che sono state responsabilità diretta per la quasi totalità della destra golpista e reazionaria (come testimonia il Comitato delle vittime delle Guarimbas) l’opposizione violenta è tornata a prendere in ostaggio il paese e sono tornati i morti in Venezuela. Si persegue l’antico obiettivo. Per essere chiari il fatto che non ci siano le multinazionali del petrolio Usa (o le sue alleate europee) a gestire le risorse venezuelane è uno scandalo per i padroni del mondo. E l’informazione compie il ruolo che ha già giocato nel paese nel 2002 e nel 2014: la ricerca del disordine, del caos organizzato da squadroni di mercenari armati specializzati, per esempio, nel boicottare rifornimenti di derrate alimentari, bevande e di ogni altro genere primario di sopravvivenza.
Maduro, eletto con il 50,78% dei voti nel 2013, magari non ha le capacità politiche che aveva Chávez, ma certamente finora ha saputo resistere a questo scorretto assedio, smentendo le previsioni e rispettando la democrazia.

Alcuni anticorpi, però, l’America latina sembra averli costruiti: Papa Francesco, Mujica ed il Premio Nobel Esquivel hanno espresso, per esempio, prese di posizioni importanti e chiare a difesa del Venezuela...

Si in questi anni l’America Latina si è vaccinata. Gli anticorpi sono tanti. Ma che sia Almagro, un ex ministro di Mujica, il capo della sollevazione contro la sovranità del Venezuela in questo nuovo golpe è triste e ci spiega un altro pezzo importante del mondo attuale: si può comprare tutto. Così capisco l’amarezza di Mujica nella sua dichiarazione: “Almagro non è solo un pericolo per il Venezuela, è un pericolo per tutta l’America Latina”. E’ l’amarezza del mondo moderno. Tutto ha un prezzo e tutti possono affermare l’esatto contrario il giorno dopo.

A Cuba l’anno scorso hai realizzato un documentario sulla visita di Papa Francesco. Come hai trovato l’isola?

Si, il documentario si intitola “Papa Francesco, Cuba e Fidel” ed è andato in onda in occasione della scomparsa del Comandante unitamente all’ultima intervista che avevo fatto con lui. Devo dirti che in questi mesi mi hanno fatto proprio pena i soloni che si sono affrettati a scrivere affermando che il popolo cubano ha ceduto e che presto tornerà ad essere il parco giochi degli Stati Uniti. Non conoscono nulla di Cuba o sono in malafede. Un’isola dei Caraibi che ha resistito decenni si è seduta da pari a pari con la più grande potenza militare della storia. Un miracolo. Poi che dopo l’accordo, il bloqueo sia ancora in vigore, non spaventa certo il futuro di Cuba che resiste già da 55 anni. Nel mondo in cui viviamo, è fallito il capitalismo, è fallito il comunismo, ma Cuba è ancora lì.

Che insegnamento può trarre il Venezuela dalla storia del popolo cubano?

Resistere. Resistere alle ingiustizie del nostro tempo. Resistere ai piani delle oligarchie. Piani che sono banali e noti a tutti: privatizzazioni di massa, povertà diffusa, perdita di diritti, ricchezza per pochi. Il Venezuela deve resistere a tutto questo come ha fatto Cuba.

Quali obiettivi ti sei prefissato con quest'ultimo libro?

Tirare fuori da storie infami, italiane e internazionali, di ieri e di oggi, alcune verità ancora nascoste. Lo presenteremo il 19 maggio alla feria del libro a Torino insieme a Giuseppe de Marzo e con la testimonianza del giudice Felice Casson. Poi forse non ci crederanno lo stesso, ma iniziamo. Esiste una batteria di quelli che oggi vengono definiti “troll”, secondo me con origine negli Stati Uniti, che quando scrivi un articolo, magari smentendo le menzogne che vengono diffuse dai media, organizzano una campagna diffamatoria proprio contro di te. I periodi e le frasi utilizzate sono standard anche se gli argomenti sono diversi ed è incredibile. Personalmente l’ho potuto registrare quando in pochi anni ho scritto di Cuba, di Venezuela e… di Moggi. Quando ho toccato gli interessi di Moggi, ho sperimentato sulla mia pelle le stesse parole, le stesse offese che mi arrivavano per Cuba. Con le reti sociali tutto è più veloce e immediato. Sono Dei in terra ed è un golpe anche quello. L’opinione si forma attraverso il filtraggio di queste reti sociali. Per fortuna io resisto. Alle mie figlie cerco di installare il dubbio e loro mi ringraziano.

Infine, che eredità e quale messaggio speri di lasciare alle giovani generazioni attraverso questo libro?

Di non fidarsi mai di quello che gli viene dato per assodato, perché la verità assoluta non esiste. Esistono porzioni di verità che devi andare a cercare ogni volta e coltivare. Devi cercare e ricercare con sforzo e dedizione. Non è veloce, richiede tempo, lavoro e fatica. Ma poi trovi le prove e colleghi i pezzi. Perdi un mese magari, ma poi le trovi. Il male del mondo moderno è che oggi vince nella comunicazione chi è più veloce. E chi è più potente è anche più veloce.

Un caso emblematico spiega più di tutti il triste declino del mondo di oggi: un leader studentesco della sinistra venezuelana viene ucciso dopo aver annunciato l’adesione della sua sigla al processo costituente indetto dal presidente Maduro, ma per i media occidentali si tratta di “un nuovo caso della repressione della dittatura”. Era invece un delitto dell’opposizione di destra. Purtroppo siamo ormai oltre la mistificazione, siamo in un mondo virtuale. Mi dispiace molto che anche il Manifesto, che fino ad oggi sull’America Latina non aveva mai compiuto errori di questo tipo, ha dovuto fare la smentita ufficiale dopo aver rilanciato questa menzogna. L’ennesima del mondo di oggi.

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One Belt One Road - la Cina detta l'agenda, ridimensionando il G7

Beijing: partecipazione di delegazioni Usa e GB al Forum "One Belt One Road"

2017-05-12 19:22:37 cri

Il 12 maggio, durante la conferenza stampa di routine, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang ha rivelato che i capi di stato di GB e Usa invieranno delegazioni a Beijing a partecipare all'Alto Forum della Cooperazione Internazionale di "Una cintura e una via".

Finora il Forum ha attirato la partecipazione dei capi di stato e di governo di 29 paesi, ed esponenti del mondo politico, imprenditoriale e accademico provenienti da un centinaio di paesi. Geng ha comunicato che l'assistente speciale del presidente Usa, e alto direttore degli affari asiatici del Comitato della Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Matthew Pottinger, a capo della delegazione Usa, presenzierà ai lavori del Forum. Anche i capi di stato del Regno Unito e della Germania hanno espresso la volontà di presenziare al Forum. Visto dell'agenda politica all'interno dei loro paesi, la GB invierà il ministro delle Finanze, Philip Hammond, come l'inviato speciale del premier Theresa Mary May, mentre la Germania ha mandato il ministro dell'Economia e delle Energie, Brigitte Zypries, in nome del cancelliere tedesco, Angela Merkel. Sarà presente al Forum anche il vice presidente della Commissione Europea Jyrki Katainen.

L'Italia serve a Noi Italiani, con umiltà e decisione dobbiamo sognare e progettare

Roma, 16 maggio: presentazione di “A chi serve l’Italia”


AL MERCATO CENTRALE
12/05/2017

Martedì 16 maggio pomeriggio Lucio Caracciolo, il Generale Giuseppe Cucchi e Mattia Toaldo presentano al Mercato Centrale di Roma il nuovo numero di Limes dedicato all’Italia.

Il nuovo numero di Limes dedicato all’Italia verrà presentato martedì 16 maggio alle h18.45 presso il Mercato Centrale di Roma, a via Giolitti 36 (stazione Termini).

Interverranno:

Lucio Caracciolo, direttore di Limes.

Giuseppe Cucchi, Generale della riserva dell’Esercito e consigliere scientifico di Limes.

Mattia Toaldo, senior policy fellow presso lo European Council on Foreign Relations e consigliere scientifico di Limes.

L’evento è gratuito. A tutti i partecipanti il Mercato Centrale offrirà un bicchiere di vino.

Qui il sommario di A chi serve l’Italia, il nuovo numero di Limes.

Marine le Pen ha perso la rappresentanza di essere il punto più avanzato del Movimento degli Stati Identitari, ora tocca a Noi Italiani tirare fuori il nostro genio e con umiltà e decisione prendere il comando della nave e andare in mare aperto, i tempi sembrano essere maturi

MACRON E DINTORNI. SOPRATTUTTO DINTORNI.

Maurizio Blondet 10 maggio 2017 

di Roberto PECCHIOLI

E’ troppo presto per elaborare il lutto. La botta è forte, il misero 35 per cento di Marine Le Pen pesa come un macigno e giustifica lo scomposto entusiasmo delle oligarchie e dell’esercito mediatico ed intellettuale schierato con Macron, il nuovo beniamino del progressismo universale, il funzionario della famiglia Rothschild divenuto presidente della Francia. Cerchiamo di mantenere un briciolo di lucidità e, archiviato con sofferenza l’oggi, pensiamo immediatamente al futuro.

Partiamo da lontano: dopo la Brexit e la vittoria di Trump, le oligarchie mondialiste hanno avuto paura ed hanno innescato una reazione durissima ed a largo raggio. La loro azione si può paragonare, giusto per rimanere ancorati alla storia francese intrecciata con quella dell’Europa tutta, ai famosi cento giorni che intercorsero, nel 1815, tra la fuga di napoleone dall’Elba e la vittoria angloprussiana di Waterloo. Già dal 1814, imprigionato Napoleone, si svolgeva il Congresso di Vienna volto alla restaurazione degli equilibri intraeuropei distrutti dalla Rivoluzione prima, poi dall’onda napoleonica che diffuse nell’intero continente le idee nuove.

L’entusiasmo dirompente, da scampato pericolo delle élite che hanno imbrogliato il popolo una volta di più, somiglia davvero al Congresso di Vienna. La restaurazione, o meglio una nuova stretta sulla presa feroce dei poteri finanziari e tecnocratici mondialisti è in atto. Macron ne sarà il perfetto esecutore. Epperò, la restaurazione non durò poi molto, e l’esplosione del 1848, anticipata in Francia dal 1830 di Filippo Egalité e dai cento nazionalismi crescenti in ogni angolo d’Europa travolsero la costruzione di Metternich e della solita Inghilterra, sempre abilissima nel “divide e t impera”.

Nessuna vittoria è definitiva, se si lavora come termiti per togliere la terra sotto i piedi al nemico. Nemico, non avversario, nel senso schmittiano ed anche, molto semplicemente come presa d’atto che nemico è considerato ogni pensiero alternativo al lessico tecnocratico liberale. La guerra continua. Incassiamo la testa nelle spalle, ingoiamo senza dimenticare nessun volto e nessun nome di quelli dei festeggiamenti scomposti – europoidi ed italiani- per lo scampato “mal francese” e avanti tutta.

Ma per approdare dove? Occorre una riflessione severa e serena affinché il fuoco non si spenga, ma anzi si propaghi sino alla vittoria dei popoli. Un primo punto, contingente, è riconoscere l’inadeguata prestazione di Marine Le Pen nel dibattito a due. Ha perduto in due ore quei cinque punti di recupero che aveva conquistato, ad unanime giudizio dei sondaggi. L’attacco virulento, l’assalto all’arma bianca sono l’ultima risorsa del molto debole. Fin troppo facile, per il signorino viziato targato Rothschild accreditarsi come l’uomo dell’ordine e della pace sociale. Secondo elemento: la violenza del regime si è dispiegata con tutte le sue risorse, ed è parso chiaro al francese medio che la vittoria del Front sarebbe sfociata in un clima di guerra civile alimentata ad arte. Terzo, la sinistra “sociale” non è in grado di superare i vecchi pregiudizi novecenteschi. Tuttavia, milioni di schede bianche e nulle – i voti validi sono stati appena 31 milioni, dimostrano che lo schema “ni patrie, ni patron, ni Le Pen ni Macron” è forte. I segnali della nascita di un “fronte sociale” ci sono tutti. Il problema è quello di saldarlo con un altro fronte, quello in senso lato, nazionale e sovranista. Quarto, la destra liberale e quella conservatrice – a Parigi come a Roma – risponde senza esitare al richiamo dell’oligarchia. Alla larga, definitivamente.

Vi sono anche elementi di speranza. In Francia, un terzo dell’elettorato, e milioni di astenuti, si sono comunque schierati contro il sistema globalitario. In più, l’agenda politica è stata dettata dal Front National, e, dall’altro lato, dai cosiddetti ribelli, o renitenti, (la France insoumise) di Mélenchon. Un’altra osservazione è che in Francia l’oligarchia è dovuta scendere in campo direttamente, con un brillante burattino di bell’aspetto azionato da uno dei più alti funzionari del mondialismo, Jacques Attali, teorico, tra l’altro, del “poliamore”.

C’è di più, ed è la generalizzazione delle grandi coalizioni. Se Frau Merkel governa con i socialdemocratici, lo spagnolo Rajoy sta in piedi per le astensioni e il benevolo atteggiamento dei socialisti. Lo stesso Macron, tra un mese, dovrà necessariamente fare i conti con una maggioranza parlamentare allargata ai repubblicani di ascendenza gollista ed ai resti del PS. Roma seguirà a ruota, come tutto fa prevedere, a partire dal nuovo profilo “liberal” dell’ex Cavaliere, cui daranno volentieri man forte centrini vari e non pochi orfanelli in crisi di astinenza da auto blu e poltrone ministeriali, il tutto sotto il comando del Buffalmacco di Rignano sull’Arno.

Il futuro sembra segnato: il cerchio del potere si chiude in se stesso poiché non riesce più a riprodurre il consenso di massa. La società dei due terzi che stanno bene e del terzo che soffre sta rovesciando le sue percentuali. Il dissenso, diffuso quanto impotente, è diviso, rissoso, guarda al dito e non alla luna e non pare capace di costruire fronti, stringere alleanze in grado di ribaltare i rapporti di forza. Non si riescono a scardinare le categorie e le fratture del secolo scorso, diventate gabbie le cui chiavi sono in mano ai costruttori del consenso, ergo ai padroni perpetui, globali. Mentre qualcuno anima un fronte sociale, nessun vero dialogo, tanto meno alleanza si intravvede con gli ambienti identitari e sovranisti.

L’impasse diventa tragedia e riconsegna il potere ai soliti noti. Nel caso di Macron, l’aggravante è la sfacciata appartenenza alla casta usuraia, unita all’esibizione di simboli massonici: l’Inno alla Gioia suonato prima della Marsigliese, la foto davanti all’equivoca piramide postmoderna che sfigura il piazzale del Louvre. Marine Le Pen sembra aver capito di trovarsi, da protagonista, ad un tornante della storia, ed ha annunciato il cambio di nome del suo movimento, per favorirne il riposizionamento politico sul crinale che Alain Soral chiama “destra dei valori, sinistra del lavoro”. Occorrerà verificare il programma, ed anche scoprire chi comporrà lo stato maggiore, ma l’intuizione è forse l’unica (ultima?) via d’uscita.

In Italia, un intellettuale come Marcello Veneziani esorta ad un nazionalpopulismo con quattro punti principali. Il primo è la sovranità, ovvero la rivendicazione della sovranità popolare, nazionale, politica ed economica unita al passaggio dalla pulsione populistica alla visione comunitaria. Il secondo tema è la cura prioritaria degli interessi nazionali anche sul piano economico, e dunque “la necessità di proteggere e tutelare le economie locali e nazionali, i ceti popolari, i prodotti autoctoni dalla globalizzazione del commercio e del lavoro”. Un altro fronte è quello della difesa dei confini contro l’abbattimento di filtri e frontiere in ogni campo e il dilagare dei flussi migratori. Infine, la tutela della famiglia costituita da padre, madre e figli.

Vasto e condivisibile programma, che, tuttavia, nel passaggio dal fronte metaculturale a quello del realismo politico, sconta due terribili debolezze. La prima è l’evidenza che uno schieramento con queste parole d’ordine non sarà mai accettato dalla destra liberale. Berlusconi si dichiara ora fan di Macron, ma l’estraneità ai valori proposti dall’intellettuale barese è nei fatti, ovvero nell’agenda politica dei suoi governi. La seconda è l’ostilità dei maestrini della sinistra intellettuale per almeno tre dei quattro principi guida, il che preclude ogni dialogo a sinistra. Dunque, sconfitta certa, e ulteriore consegna della destra terminale e della sinistra intellò al cerchio magico neoliberale, nelle sue declinazioni progressista-libertaria e moderata.

E’ evidente che occorre spezzare il cerchio rompendo lo schema, come ha saputo fare, con le parole d’ordine antipolitiche ed anticorruzione, Beppe Grillo. Pure, non ci si può consegnare al grillismo, per quanto sia probabilmente il male minore rispetto alla dittatura dell’Unico Globale.

Chi scrive non possiede soluzioni magiche per ribaltare una situazione drammatica, né conosce formule politiche o alchimie ideologiche in grado di invertire la rotta. E’ tuttavia convinto che il sistema vigente non sia riformabile dall’interno e che dunque nessuna alleanza che comprenda le forze che compongono l’attuale arco politico possa essere percorribile. La constatazione necessaria, ma assai difficile da far passare nell’immaginario comune, è che le vantate libertà postmoderne e postideologiche siano un imbroglio e vadano quindi rifiutate tutte insieme. Libera circolazione dei capitali, delle merci, dei servizi e delle persone, insieme con l’abolizione di ogni riferimento morale o trascendente (libera circolazione di una sola idea, il relativismo assoluto) non possono essere accolte o rifiutate a pezzi, in parte, questa sì, quell’altra no.

La destra legata al novecento approva entusiasticamente la circolazione del denaro e delle merci, ma storce il naso dinanzi alle imponenti migrazioni. La vecchia sinistra figlia del socialismo reale è contraria ai rapporti di produzione del capitalismo finanziario e tecnologico, ma è banditrice dei nuovi diritti che travolgono la famiglia e difende l’immigrazione massiccia per il cosmopolitismo che ha sostituito l’internazionalismo. Il mondo unificato dall’impero del denaro e dalla potenza tecnologica uscito dalla vittoria liberalcapitalista ha una sua sinistra logica, avanza distruggendo ciò che trova. Non lo si può accettare per una parte e contrastare per un’altra. Dunque, la scelta politica sottostante, per chi è contro le oligarchie mondialiste, è la ricerca di un linguaggio comune che spazzi via definitivamente le vecchie appartenenze. C’è un nemico, ed è il liberalcapitalismo nella sua forma globalitaria di dominio attraverso il possesso di mezzi tecnologici oggi giorno più potenti. Avere un nemico comune è il primo motore di nuove alleanze, anche inedite o impensate sino all’attimo precedente.

Per chi vive l’appartenenza al mondo variegato del sovranismo, dell’amore per l’identità, del rispetto per la morale naturale, si tratta di fare, finalmente, un salto che è una presa di coscienza. Non c’è nulla che accomuni alle destre conservatrici, liberali e del denaro. Qualcosa unisce invece al vasto mondo di chi non ama il potere dei signori del denaro. Dunque, finalmente, proviamola nuova. Ciascuno di noi conosce per esperienza la tremenda difficoltà di parlare al nostro popolo fuori dal perimetro obbligato della ragion pratica: l’orizzonte immediato è fatto di richieste, bisogni, paure, speranze riconducibili alla dimensione collettiva politico-sociale. Questo è anche il motivo per il quale la sinistra tradizionale ha tanta facilità a farsi ascoltare.

Accettiamo allora lo schema di Veneziani, ma poniamo al primo punto – ed attrezziamo linguaggio, programma, personale politico- la “protezione”, ovvero un’offerta politica opposta all’agenda dei monopoli privati. Non dobbiamo avere paura di essere tacciati, dalla vetero-destra, di esserci trasferiti “altrove”. E’ proprio un altrove che cerchiamo disperatamente, da almeno vent’anni. Un movimento sociale nel senso letterale è quello di cui ha bisogno l’Italia. Una grammatica ed un lessico nuovo, contro la privatizzazione del mondo e, concretamente, un ritorno forte dell’idea di Stato. Essere sovranisti significa, in fin dei conti, esigere di farla infinita con l’impotenza. Ma ci vogliono strumenti pratici, il primo dei quali, screditato ma non troppo, è appunto lo Stato.

Se proprio vogliamo risalire alle fonti, irrompere nel presente ci permette di tornare ad un’ideale di cui fu protagonista il fascismo. Il trapassato remoto va lasciato dov’è, ma dalla miniera possiamo estrarre ancora qualcosa. Dobbiamo proteggere il popolo italiano innanzitutto prospettando il controllo pubblico del credito, della previdenza (ai giovani viene detto, pagati un’assicurazione, o lavorerai sino alla morte), della sanità. Dire di no senza compromessi a che reti informatiche e fonti energetiche siano controllate da privati estranei alla nostra gente. Far pagare le imposte sino all’ultima lira alle finte fondazioni bancarie/finanziarie ed ai giganti della tecnologia, che realizzano evasioni ed elusioni da capogiro, fare una campagna per l’abolizione del pareggio di bilancio in Costituzione e l’uscita dal Meccanismo Europeo di Solidarietà, (il FMI in salsa europoide) e pretendere l’istituzione di un salario minimo. In parole semplici, enfatizzare la politica sociale e popolare ed attaccare le privatizzazioni, che sono una drammatica espulsione di piccole, poi medie, in seguito grandi imprese per fare posto ai monopoli. Aggredire ogni giorno il “partito di Davos”, innanzitutto nella forma e nel volto dei travestiti politici che rubano, letteralmente, il consenso popolare, a destra ed a sinistra.

Assumere, quindi, ma sul serio, la tutela e la voce dei perdenti della globalizzazione: i giovani precarizzati, gli espulsi in età matura dal mercato del lavoro, le vittime di Equitalia e prima ancora dei ricatti del criminale sistema bancario, i piccoli e medi imprenditori espropriati di fatto, i pensionati che vedono ogni anno diminuire i loro assegni. Non interessa, è anzi oziosa, la domanda se ciò sia di destra o di sinistra. E’, semplicemente, giusto, è la croce della nostra gente, crediamo anche sia la giusta vocazione.

Come si può essere sovranisti, amare la patria comune, pretendere di essere padroni a casa propria, e non essere concretamente al fianco di chi vive e veste panni esattamente come noi? Il comandante vandeano Charette diceva che la sua patria era quella che sentiva sotto i piedi. Se i connazionali soffrono, dobbiamo soffrire con loro ed essere dalla stessa parte. Nessuno può immaginare di trasformarci in cosmopoliti amanti della migrazione di massa, o di indifferenti che confinano nelle scelte individuali l’attacco vergognoso alla famiglia ed alla morale naturale. Ciò che dovremmo tentare è di rinnovare noi stessi a partire dall’approccio. Ezra Pound invitava a studiare economia per capire il Novecento. Oggi, dobbiamo aggiungere la finanza e la tecnologia, ma il codice è quello. Abbiamo idee giuste che diffondiamo, ahimè, in una lingua sconosciuta ai più. Proviamo ad assumere le priorità dei milioni di perdenti, di impauriti, di disagiati, di maltrattati da un sistema diabolico. Quelle priorità sono, tutte, il ghigno cattivo del sistema liberale e capitalista.

Drieu La Rochelle esortava ad essere oggi là dove gli altri sarebbero arrivati domani. Dobbiamo fare di più, e tentare un salto enorme. Nell’alto mare aperto si può affogare, ma nel cabotaggio desolante cui ci siamo ridotti c’è solo il ridicolo, l’inedia, o, peggio, l’inutilità.

Per questo, indipendentemente da quello che faranno o non faranno altrove, esprimiamo uno scatto di orgoglio e di fierezza, raccogliamo le forze e diventiamo avanguardia. Sociale, nazionale, sovranista, o altro, sono solo aggettivi. Avanguardia: qualcuno che è convinto di aver individuato i mali e si propone di curarli. Dalla parte del popolo, che ha bisogno di protezione. Quella protezione si chiama Stato, e l’unico aggettivo è “sociale”. Dalla parte di chi non ha nulla o lo sta perdendo, e sono milioni. Contro, senza compromessi, monopoli, finanza, Commissione Europea, Banca Centrale. I nemici abbondano, purtroppo. Scegliamo, intanto, quelli che infliggono le ferite quotidiane alla nostra gente più esposta. Saranno loro i primi a riconoscere e condividere, per istinto, i nostri no all’immigrazione sostitutiva, allo smantellamento della famiglia, all’espulsione di Dio. Diventeranno sovranisti senza chiederglielo, vorranno riappropriarsi dell’identità smarrita. Ma intanto dobbiamo rivolgerci al loro stomaco, al loro portafogli svuotato, alle loro legittime e concretissime paure.

Funzionerà, non funzionerà? Lo sapremo vivendo, e comunque, tutto il resto non ha funzionato, ovvero è stato il trampolino per carriere personali. Inoltre, c’è un momento nella vita di ogni uomo, e di ogni comunità, in cui si deve fare ciò che va fatto. Susanna Tamaro prescrisse di andare “dove ti porta il cuore”. Nel nostro caso, cuore e cervello possono coincidere. La scelta più facile è, in genere, quella sbagliata, in ogni campo della vita. Per noi, gridare più forte al lupo con le tradizionali parole d’ordine della destra terminale è più semplice e, nell’immediato, può anche fruttare qualcosa, ma, guardiamo in faccia, per favore, la realtà anche quando è brutta, cattiva, impietosa. Su un punto Berlusconi ha ragione: di sola destra non si vince; di centro, si muore…