L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 30 settembre 2017

Siria - l'incognita sono gli ebrei e la Turchia. Quanto i curdi possono essere utilizzati come teste d'ariete?

© Foto: Ministry of Defence of the Russian Federation

Siria, il successo dell’intervento russo

12:02 29.09.2017

Si fa spesso la guerra a parole, ma lottare militarmente contro il terrorismo è possibile. Sono passati due anni dall’inizio dell’intervento russo in Siria che, piaccia o meno all’Occidente, si è rivelato un successo.

Nonostante tutte le previsioni iniziali dei giornalisti e dei politici occidentali la guerra a Daesh non è stata una partita persa per i russi, intervenuti nella regione nel settembre del 2015. Mosca dopo due anni, oltre agli importanti esiti militari ottenuti sul campo di battaglia contro i terroristi, ha affermato il suo peso politico nella regione.

Quali sono i nuovi equilibri sullo scacchiere siriano e quali sono le prospettive della Siria post-Daesh? Sputnik Italia ha raggiunto per un'intervista Giampiero Venturi, responsabile analisi geopolitiche di Difesa Online.

© FOTO: FORNITA DA GIAMPIERO VENTURI
Giampiero Venturi, responsabile analisi geopolitiche di Difesa Online.

Giampiero Venturi, come potremmo riassumere gli esiti dei due anni dall'intervento russo in Siria?

— Dopo due anni si può parlare di pieno successo sia dal punto di vista militare sia politico, perché l'intervento russo ha di fatto ribaltato gli esiti di una situazione che sembrava avviata per il governo di Damasco ad una fine già scritta. Il peso della Russia in Medio Oriente e soprattutto nella soluzione della crisi siriana è decisivo. Parliamo di un intervento essenziale e determinante.

Più in generale qual è il ruolo della Russia nella lotta al terrorismo?

— La Siria è un banco di prova importante per capire l'effettiva incisività delle potenze per lottare contro il terrorismo, cioè contro la galassia jihadista arrivando all'ISIS in particolare. La Russia ha cambiato il quadro della situazione politico militare in Siria, ma è anche diventata determinante alla luce degli equilibri geopolitici dell'area, un'area fortemente destabilizzata dagli errori fatti negli ultimi vent'anni dall'Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.

Assad è ancora al potere e la Russia ha rafforzato la sua influenza nella regione. Nonostante tutte le previsioni fatte in Occidente possiamo dire che alla fine Putin ha vinto in Siria?

© SPUTNIK.

— Le parole di Obama nel 2013 erano sintomatiche: "Assad ha i giorni contati". Sono passati quattro anni e mezzo e stiamo ancora contando i giorni. Di fatto Assad oggi è più potente di quattro anni fa. Non metterei l'accento sul discorso pro o anti Assad, i media italiani l'hanno presentato sempre come un elemento destabilizzante. L'intervento militare russo ha fatto in modo che un disegno geopolitico iniziato con le primavere arabe avesse fine, è un disegno organizzato per ridefinire gli equilibri sia in Medio Oriente sia nel Maghreb. Possiamo dire che Assad ha vinto la guerra, la stabilità del suo governo oggi è dovuta all'intervento russo, è un risultato inconfutabile.

Lottando seriamente contro il terrorismo è possibile quindi ottenere dei risultati?

— La guerra contro il terrorismo è stata fatta sulla carta per molti anni e si può dire che l'ISIS è stata una bolla saudita costruita ad hoc dopo Iraqi Freedom per contrastare l'espansione sciita. Di fatto la guerra al terrorismo molto spesso si è concretizzata in un nulla di fatto. L'intervento russo invece ha dimostrato che se si vuole combattere militarmente si può, politicamente ancora di più tagliando i fondi e arginando gli appoggi di potenze che avevano interesse a creare destabilizzazione.

© SPUTNIK. DMITRI VINOGRADOV

Militarmente con sacrifici necessari si può fare, basta coordinarsi creando un cartello internazionale che abbia un fine chiaro e comune.

Si parla raramente del post-Daesh. Quali sono i possibili scenari futuri?

— Siamo alla resa dei conti. Finita la partita con l'ISIS, che durerà ancora alcuni mesi, le ultime notizie infatti parlano di una recrudescenza militare, le prospettive potrebbero essere le seguenti. La presidenza Trump è una soluzione di continuità con il passato, in cambio della presenza militare ad Est dell'Eufrate degli americani, che attraverso i curdi spingono verso sud, sicuramente si è dato il via ad una stabilizzazione della Siria. Attraverso i colloqui di Astana questo è un processo sempre più evidente.

© SPUTNIK. MICHAIL KLIMENTYEV

Per il futuro possiamo aspettarci sicuramente un ritorno dell'Iran, il vero protagonista, perché l'asse sciita dal Mediterraneo all'Oceano Indiano è oggi un dato di fatto. Sarà importante vedere la reazione di Israele che non potrà accettare una preponderanza dell'Iran soprattutto in Siria. A questo proposito torna il ruolo della Russia, che è l'unica potenza in grado di parlare con l'Iran, Paese in qualche modo alleato, ma allo stesso tempo di garantire ad Israele che i gruppi sciiti estremisti non entrino in possesso di armi letali pericolose per lo Stato ebraico. Le prospettive sono sicuramente una Siria ridotta rispetto a qualche anno fa, il problema curdo rimarrà sospeso in relazione al comportamento della Turchia, un Iran molto presente.

Possiamo dire che è una sconfitta per le potenze sunnite che hanno soffiato sul fuoco e aspettiamo i passi di Israele in attesa di una mediazione politica della Russia, che a questo punto è inevitabile ed essenziale.

Italia prossimo presente - Il Sistema mafioso massonico politico continua a vincere insistentemente le piccoli grandi battaglie, Noi Italiani continuiamo a scavare e andiamo sempre al di là delle apparenze

SPY FINANZA/ Standard & Poor's, la notizia che i giornali non riportano

Si è parlato molto dell'assoluzione di Standard & Poor's a Trani. Poco, invece, delle motivazioni della sentenza rese note in settimana. Ce ne parla MAURO BOTTARELLI

30 SETTEMBRE 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Immagino che ricorderete tutti i titoloni di prima pagina che lo scorso 30 marzo accompagnarono la sentenza del Tribunale di Trani nel processo contro le società di rating responsabili, a detta dell'accusa, di un declassamento immotivato del debito italiano, nella fattispecie quello operato nel 2012 da Standard&Poor's. Ci furono risate e grandi sberleffi di sarcasmo verso l'ennesimo pm che avrebbe cercato gloria mediatica, imbastendo un processo molto simile alla lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento, di fatto non solo ridicolizzando quell'inchiesta, ma ponendo il sigillo di sacralità su quanto decretato dalle società di valutazione. Ivi compreso, l'accaduto durante il famoso "golpe dello spread" dell'estate-autunno 2011. 

Bene, in ossequio alla tradizione tutta italiana dello sbattere il mostro in prima pagina, salvo relegare l'eventuale assoluzione in una breve a pagina 40, ecco che l'altro giorno qualcosa ha incrinato la narrativa ufficiale riguardo l'accaduto. E per questo, ovviamente, non ha trovato il benché minimo spazio sulla stampa autorevole, la stessa che trasformò l'assoluzione di marzo nella sentenza del secolo, con toni millenaristici da Watergate. Giovedì sono state rese note le motivazioni di quella sentenza e - udite udite - tutto questo profumo di bucato attorno all'operato di Standard&Poor's non si sentiva, nemmeno da parte degli stessi giudici di Trani che l'hanno assolta. 

Leggiamo: «Il processo per il declassamento di due notch del rating sovrano dell'Italia del 2012 a carico di S&P ha evidenziato i profili di incompetenza degli analisti e di quelli del debito sovrano in particolare: gli stessi profili di criticità evidenziati da Pierdicchi (all'epoca dei fatti AD di S&P Italia, ndr) al presidente mondiale di S&P, Deven Sharma, in un'intercettazione telefonica. Sharma è dunque consapevole della inadeguatezza degli analisti del debito sovrano». Lo scrive il Tribunale di Trani, assolvendo gli imputati E ancora: il processo per manipolazione del mercato nei confronti di analisti e manager di S&P sul declassamento di due gradini dell'Italia (da A a BBB+) del 2012 «ha fatto emergere gli intrecci tra azionisti, manager, analisti, dirigenti del Tesoro, banche di affari e agenzie di rating, ma non ha consentito di delinearne in maniera definitiva i confini proprio per la "reticenza" manifestata da alcuni testi». 

Ma non basta: «I testimoni avrebbero dovuto avere, invece, il dovere - si legge nelle 315 pagine della sentenza - di fornire una più ampia e sincera collaborazione, frenata o da interessi personali o da interessi di natura politica in un chiaro tentativo di frammentare le singole condotte, ostacolando l'accertamento dell'elemento soggettivo del reato e, ancor prima, ostacolando la riconduzione a un disegno unitario di tutte le condotte, anche di quelle antecedenti all'azione del rating del 13 gennaio 2012, in un'ottica di sicuro pregiudizio per l'Italia, descritto dalla dirigente del debito pubblico Maria Cannata... In un contesto di velata, ma sostanziale, reticenza - annota il Tribunale - dettata da interessi di natura personale commisti a compiacenza nei confronti di S&P's - di cui hanno tratto vantaggi per la loro carriera - si collocano le testimonianze della general manager Maria Pierdicchi (all'epoca dei fatti AD per l'Italia dell'agenzia di rating, ndr) e dell'analista bancario, Renato Panichi». 

Vi rendete conto di ciò che avete appena letto, vergato di loro pugno dai giudici di Trani? Sapete cosa significa, scrostando via il linguaggio forense? Che in appello quelle parole potrebbero pesare come pietre. E che tutti i titoli di giornale e i servizi ironici dei tg di fine marzo potrebbero rivelarsi per ciò che erano: i festeggiamenti di un sistema che fino a poche ore prima, intimamente e senza darlo a vedere all'esterno, aveva sudato freddo. Freddissimo. Come faceva notare Alberto Micalizzi sul suo blog l'altro giorno, appena pubblicate le motivazioni della sentenza, «uno dei primi elementi chiave che emergono dal documento riguarda Panichi, l'analista di S&P che tentò di fermare la pubblicazione del rating del Gennaio 2012, ritenendo errate le analisi dei colleghi, evidenza provata da diverse email che la Procura di Trani ha intercettato. In una delle email citate, quella del 12 Gennaio 2012, il Tribunale afferma che "Panichi scrive all'analista del debito sovrano dell'Italia, Eileen Zhang (e per conoscenza David Harrison, Director Financial Services Rating - Londra). Con questa email Panichi sollecita il destinatario a "condividere…eventuali riferimenti alle banche contenute nel rating sull'Italia…., onde evitare possibili errori o un disallineamento rispetto all'opinione di Financial Institutions"».

Insomma, la preoccupazione di Panichi è che i colleghi del rating Italia esprimano giudizi sul Paese che contrastino con quanto era stato detto in precedenza su analisi di settore bancario, condotte nel 2011, nelle quali S&P's aveva espresso un parere positivo sul settore bancario italiano. E ancora: «Continua il Tribunale: "Il riferimento a possibili errori nel rating evidenzia i profili di incompetenza degli analisti e di quelli del debito sovrano in particolare, gli stessi profili di criticità evidenziati dalla Pierdicchi al presidente mondiale di S&P, Deven Sharma, nel corso della conversazione di cui del 3 Agosto 2011, il quale dunque è consapevole della inadeguatezza degli analisti del debito sovrano". Pierdicchi è l'ex amministratore delegato di S&P Italia che svela retroscena imbarazzanti in una telefonata dell'Agosto 2011, intercettata dalla Procura di Trani». 

Ed ecco le conclusioni, quelle troppo scomode da pubblicare e rendere note all'opinione pubblica: «Dunque, il Tribunale di Trani accoglie in pieno le due evidenze chiave prodotte dal PM, Michele Ruggiero, in relazione alle criticità interne di S&P's: la conversazione del 3 Agosto 2011 tra Pierdicchi e Sharma, dove la prima dice testualmente al proprio capo che S&P non dispone delle competenze per emettere un rating sull'Italia, e lo scambio di email tra Panichi ed i colleghi che coprono l'Italia del 12 Gennaio 2012, dove lo stesso Panichi tenta di impedire l'emissione del rating, una volta compreso il giudizio sbagliato dato dai colleghi sulla situazione del debito italiano, sia del Tesoro che delle banche. Tutto ciò porta il Tribunale ad una prima importante concessione, e cioè che "Rimane confermata, pertanto, la violazione sia delle policy aziendali di S&P che del Regolamento europeo n. 1060 del 2009 sul conflitto di interessi"». Ma guarda un po'. Non vi pare una notizia degna di nota, questa? 

Certo, l'assoluzione copre tutto, ma le motivazioni che hanno portato a quel verdetto lasciano aperto un portone, non una finestra, relativamente a profili di non professionalità tenuti dall'agenzia di rating nel gestire quel passaggio delicatissimo relativo alla profilazione della nostra credibilità creditizia. Oltretutto, in pieno fall-out della crisi e nel momento di maggiore drammaticità per la tenuta dei nostri conti pubblici, visto che eravamo in pieno nel tentativo di salvataggio dal precipizio greco messo in atto, a suo modo di dire, da Mario Monti e dal suo esecutivo tecnico, entrato in azione nel novembre 2011 per l'ondata di crisi dello spread e la conseguenza perdita dei numeri in Parlamento da parte del governo Berlusconi. 

Io non voglio scomodare ancora la parola golpe, ma non vi pare che sia di una gravità inaudita quanto accaduto? Non vi pare da pelle d'oca che una società privata con forti interessi particolari possa decidere con criteri così assolutamente contraddittori del destino di un Paese, visto che in quei momenti un rating di un certo tipo sanciva la differenza fra sopravvivere e soccombere sui mercati? Serviva forse una drammatizzazione della situazione per garantire a Mario Draghi di superare le resistenze della Bundesbank e lanciare la famosa politica del whatever it takes, come sembrerebbe suggerire una lettura politica dell'assoluzione del personale di S&P's da parte del Tribunale di Trani? Benissimo, la causa di forza maggiore va sempre riconosciuta, però occorre anche dire che Michele Ruggiero non è un pm in cerca di fama mediatica o un Don Chisciotte visionario e irresponsabile nello spendere i soldi pubblici per inchieste fantasiose. Altrimenti, oltre al danno si unisce la beffa. 

Abbiamo già una Commissione d'inchiesta sul settore bancario a tenere alto il nome del ridicolo in questo Paese, quando si tratta di (non) svelare intrecci tra banche, potere politico e interessi privati, quantomeno sul processo di Trani diciamo la verità dei giudici agli italiani. Non chiudiamo tutto con quei titoli sbeffeggianti del 30 marzo scorso, perché molto di ciò che è stato della storia recentissima di questo Paese, è dipeso anche da quelle valutazioni quantomeno contraddittorie e mal delineate. Non mi pare affatto cosa da poco. Proprio per niente.



Congo - la montagna di soldi che potentati privati si intascano quotidianamente ha permesso di creare organizzazioni-istituzioni al loro servizio e multinazionali occidentali e cinesi ci lucrano insieme


Congo: scacco matto al Vaticano La Chiesa Cattolica ha tentato con tutte le sue forze di risolvere la crisi, senza successo

DI FULVIO BELTRAMI SU 28 SETTEMBRE 2017 18:00

Le elezioni presidenziali in Congo non si terranno quest’anno. E’ la Commissione Elettorale che lo dichiara, confermando l’annuncio fatto lo scorso mese dal Presidente Joseph Kabila. Le scuse non mancano e si concentrano sull’organizzazione delle elezioni. La Commissione Elettorale registrerebbe difficoltà a reperire le risorse finanziarie e logistiche necessarie per attuare la registrazione dei cittadini aventi diritto al voto su tutto il territorio nazionale. In queste condizioni 7 milioni di congolesi rischiano di essere esclusi dal voto, stima la Commissione Elettorale. Eppure il processo di registrazione del voto era cominciato nel ottobre 2015 e le elezioni erano state rinviate nel 2016 proprio per consentire di completare il processo. La Commissione Elettorale non ha potuto assolvere al suo compito per volontà politica.

L’opposizione protesta. «La Commissione Elettorale ha fatto una dichiarazione di guerra contro il popolo congolese» afferma Felix Tshisekedi, figlio del deceduto storico leader Etienne Tshisekedi. Felix è stato eletto leader del principale partito di opposizione nel ovest del Paese, UDPS (Unione Democratica per il Progresso Sociale), dopo aspre lotte interne che hanno indebolito il partito e diminuita la sua credibilità a livello nazionale. La Conferenza Episcopale e il Vaticano rimangono in silenzio. Solo Papa Francesco la scorsa settimana ha annunciato che la sua prevista visita in Congo sarà annullata per evitare che venga strumentalizzata politicamente da un governo chiaramente a lui avverso. Nella sede della Conferenza Episcopale a Kinshasa l’atmosfera è cupa e il rancore evidente.

La Chiesa Cattolica aveva tentato con tutte le sue forze di risolvere la crisi congolese scoppiata nel novembre 2015 quando Joseph Kabila annunciò la sua intenzione di accedere ad un terzo mandato presidenziale contro la volontà popolare e la Costituzione. Dopo le prime proteste represse nel sangue, la Conferenza Episcopale aveva tentato di portare sul tavolo delle negoziazioni governo e opposizione proponendo un compromesso capace di chiudere la crisi ed evitare spargimento di altro sangue. Le elezioni sarebbero state rinviate dal dicembre 2016 ai primi mesi del 2017. Kabila avrebbe mantenuto la carica presidenziale (scaduta il 19 dicembre 2016) fino alle elezioni ma avrebbe rinunciato a candidarsi. La proposta aveva trovato il consenso di governo e opposizione ed era stata formalizzata in un testo redatto il 31 dicembre 2016 e denominato ‘Accodi di San Silvestro’.

La proposta della Conferenza Episcopale era frutto di un intenso lavoro di coordinamento tra il Vaticano, il Nunzio Apostolico di Kinshasa e i vescovi congolesi. Aveva anche ricevuto il consenso di Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite. I primi stanchi del regime di Kabila in quanto la corruzione relativa al settore minerario ha raggiunto livelli tali da rappresentare un elevato costo per le multinazionali occidentali operanti in Congo. L`ONU desideroso di tirarsi fuori dal pantano congolese. Seppur la missione di pace MONUSCO rappresenti un ottimo affare economico per le Nazioni Unite le numerose ‘sbavature’ commesse dai Caschi Blu (violenze sessuali, mancata protezione di civili e profughi, traffico di armi e minerali preziosi, corruzione) ha contribuito a deteriorare l’immagine delle missioni di pace delle Nazioni Unite fornendo validi argomenti al Presidente Donald Trump che ora chiede una radicale riforma di questa istituzione sovranazionale.

La Chiesa Cattolica è l’unica entità riconosciuta a livello nazionale in Congo in quanto tutti i partiti di opposizione hanno una base regionale e tribale. Fin dall’ultimo decennio del regime di Mobutu Sese Seko la Chiesa Cattolica ha riempito il vuoto istituzionale nei settori sanità, educazione e servizi sociali, divenendo un attore politico di primo piano nel Paese. Nella sua opera di assistenza alla popolazione la Chiesa Cattolica è in grado di mobilitare sostanziosi fondi grazie alla Cooperazione del Vaticano, la CEI e alla sua influenza presso la Cooperazione Italiana, quella Europea, USAID e Agenzie Umanitarie ONU. In Congo varie ONG cattoliche anche italiane operano al fianco dei poveri e in coordinazione con il capillare network delle diocesi locali e dei missionari.

Dal 1998 al 2005 la Chiesa Cattolica aveva assunto una radicale posizione anti tutsi paragonabile solo alla sua crociata contro il Comunismo. Il clero cattolico e i missionari avevano formato un forte nucleo di resistenza contro le truppe di invasione ruandesi e ugandesi. Una resistenza che spesso ha sconfinato nel supporto attivo dei terroristi ruandesi FDLR autori del genocidio del 1994 in Rwanda. Nel 2007 le Nazioni Unite includono molti missionari anche italiani in un rapporto sui finanziatori di questo gruppo terroristico.

Con l’avvento di Papa Francesco viene promossa una nuova dottrina di pace e integrazione dei popoli nella Regione dei Grandi Laghi che sostituisce la vecchia dottrina di difesa ad oltranza delle popolazione bantu e hutu minacciate dall’imperialismo Hima (tutsi). La storia degli ultimi quaranta anni dimostra esattamente il contrario e l`Olocausto ruandese è la testimonianza indelebile della potenza della propaganda razziale HutuPower promossa nel 1957 proprio dalla Chiesa Cattolica, tramite la congregazione dei Padri Bianchi.

Il nuovo corso del Papa Francesco spezza la lunga e oscura epoca di supporto a ideologie di superiorità razziale che come quella nazista portarono alla soluzione finale. Una scelta coraggiosa e non condivisa dai farisei del Vaticano ma che ha avuto il pregio di diminuire drasticamente in Congo e in Burundi il sostegno al HutuPower offerto dalle associazioni cattoliche ortodosse e reazionarie. Una scelta purtroppo pagata a caro prezzo. I regimi razziali si sentono traditi ed iniziano i massacri del clero cattolico da Kamenge Bujumbura settembre 2014 al Congo febbraio 2017.

Gli accordi di San Silvestro erano orientati a favorire un cambiamento pacifico di regime per aprire in Congo una stagione democratica e di integrazione regionale dove non vi sia spazio per terroristi o forze genocidarie che infestano soprattutto le provincie orientali del Paese. Gli accordi di San Silvestro avevano due altri obiettivi. Impedire che le potenze vicini (Rwanda e Uganda) si orientassero a risolvere il problema Kabila tramite vecchi ma efficaci metodi sperimentati nel 1996 contro il dittatore Mobutu: la creazione di una guerriglia autoctona supportata militarmente e una guerra di liberazione. Il tentativo di rendere irreversibile il processo democratico in Congo mirava anche a isolare un altro regime nemico del Vaticano: quello del vicino Burundi e il suo brutale dittatore Pierre Nkurunziza elogiato da molti settori della Chiesa Cattolica e associazioni di ‘pace’ dal 1993 al 2015.

Nonostante l’autorità morale della Chiesa Cattolica e la sua proposta che offriva a Kabila una via d’uscita più che dignitosa e conveniente, gli strateghi del Vaticano si sono scontrati contro lo scoglio degli interessi economici della Famiglia Kabila strettamente collegati al Clan dei Mobutisti e a forze reazionarie e armate quali le FDLR ruandesi. Interessi economici garantiti da un network di affari ‘border line’ che generano circa 8 milioni di dollari al mese. Questo network, controllato dalla Famiglia Kabila, è riuscito a creare una potente quanto occulta holding economica e finanziaria dettagliatamente descritta nell’ultimo rapporto redatto da Congo Research Group. Questa holding possiede 80 compagnie minerarie e finanziarie, 450 miglia di concessioni di diamanti ai confini con l`Angola, il monopolio dell`oro e del coltan all`est del Paese, e compagnie internazionali che trattano direttamente con la Banca Mondiale e le Nazioni Unite.

La Kabila Holding controlla vari settori economici: agricolo, minerario, bancario, finanziario, edile, telecomunicazioni e compagnie aeree private. Il Ministero delle Miniere è controllato dalla sorella del Presidente, Jaynet Kabila, mentre il fratello (violentissimo e psicopatico) Zoe Kabila ha l`assoluto controllo di tutte le joint ventures ed appalti minerari con le multinazionali straniere, compreso il complesso minerario di Sicomines creato da Pechino. Un complesso minerario capace di generare 2,4 miliardi di dollari annui d`affari. La Famiglia Kabila riscuote inoltre un pizzo e alte percentuali su tutti i contratti commerciali firmati in Congo e sulle attività commerciali e terziarie, compreso il servizio di taxi.

E’ anche in società con le mafie russa, nigeriana, libanese e italiana nel riciclaggio internazionale di denaro proveniente da attività criminali che è il primo fattore del boom edilizio nella capitale Kinshasa. In protezione dei suoi affari la Famiglia Kabila può contare su due forze armate che agiscono come compagnie private di mercenari: la Guardia Repubblicana (circa 15.000 uomini) e le forze speciali del Katanga (circa 10.000 uomini). All’est del Paese la difesa territoriale e degli affari di Kabila è affidata al gruppo terroristico ruandese FDLR che controlla anche 14 milizie congolesi denominate Mai Mai.

La ragionevole offerta di pace del Vaticano è di conseguenza antitetica agli interessi della Holding Kabila. Questo fattore non ha permesso fin dal inizio al Presidente di accettare l’offerta della Santa Sede. Gli strateghi del Clan dei Mobutisti (ex dirigenti del regime di Mobutu ora alleati e potenti consiglieri della Famiglia Kabila) hanno adottato una strategia vincente contro la potente Chiesa Cattolica.

Sotto loro consiglio, il Presidente Kabila ha formalmente accettato gli Accordi di San Silvestro senza però apporre la sua firma. Questo ha lui permesso di mantenere legalmente la Presidenza. Una volta riconosciuta dalle parti la sua carica ‘temporanea’ alla Presidenza dopo la scadenza del secondo mandato, Kabila ha scatenato forze incontrollabili tese a rafforzare il suo piano di Presidenza a Vita. Nelle Province orientali (Nord Kivu e Sud Kivu) ha lanciato una ondata di violenze etniche senza precedenti grazie alle FDLR e alle milizie Mai Mai. Violenze che hanno creato circa 2 milioni di sfollati interni e 24.000 vittime in meno di due anni.

Nelle zone di Lubero, Butembo e Beni (Nord Kivu) le violenze sono sfociate in una pulizia etnica contro la tribù Nande (originaria dell`Uganda) mentre nella piana della Ruzizi, Bukavu, Uvira e altopiano di Mulenge la pulizia etnica prende di mira l`etnia dei tutsi congolesi Banyamulenge. Il piano è quello di creare una situazione di instabilità permanente all’est del Congo che giustifichi i continui rinvii delle elezioni e impedisca il sorgere di un movimento armato di liberazione come successe nel 1996 e nel 1998. Il piano di violenze generalizzato è stato avviato anche nella provincia del Kasai e nel Bas Congo.

29 settembre 2017 - Antonio Ingroia: A Napoli per lanciare una grande sfida popolare nel seg...



Sabato 30 settembre e domenica 1 ottobre è in programma a Napoli l'assemblea del coordinamento "Attuare la Costituzione". Non solo l'occasione per far nascere un'associazione politico-costituzionale ma anche per lanciare un movimento di base, popolare, partecipato, per riaffermare i troppi principi largamente inattuati della Costituzione

PTV News 30.09.17 - La Siria non ci sta e chiede il ritiro delle truppe USA



- Catalogna: È stato Putin

- I NO TAV non sono terroristi

- Nuova tegola su Banca Carige

- Anche in Guatemala in azione il fuoco dei vulcani

- Cina: Festeggiamenti per l'anniversario della nascita di Confucio

29 settembre 2017 - Sottomarini nucleari ad Augusta - Massimo Zucchetti



Massimo Zucchetti, research affiliate e visiting scientist  presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, descrive i terribili rischi della presenza di sottomarini nucleari, veri e propri "reattori nucleari viaggianti”, ad Augusta

venerdì 29 settembre 2017

Gli ebrei si comportano da imbecilli o sono imbecilli?

“Fuori dalla Siria se vuole sopravvivere”. Il ministro israeliano che minaccia di morte Putin

Maurizio Blondet 29 settembre 2017 


“Se Putin vuole sopravvivere deve mantenere le sue forze armate fuori dalla Siria”, questo ha dichiarato pochi giorni fa Ayelet Shaked, il ministro della Giustizia di Israele, considerato “un falco” fra gli esponenti governativi.
Questo tipo di dichiarazioni si aggiungono a quelle fatte dal premier Netanyahu, il quale ha iniziato una pellegrinaggio fatto di viaggi frenetici tra Mosca e Washington che mettono in evidenza come Israele sia lo Stato che ha subito le sconfitte più dure per causa degli sviluppi del conflitto in Siria. Gli jihadisti sbaragliati dalle forze russe e siriane sono anche loro “creature” di Israele.
Oltre alle conversazioni diplomatiche, Israele si è vista costretta a passare all’azione diretta in Siria, senza intermediari, allo stesso modo che gli Stati Uniti. Nel 2015 Bashar al-Assad aveva definito il ruolo di Israele nella Guerra in Siria come “la forza aerea” della rete terroristica di Al-Qaeda. Di recente i droni israeliani hanno bombardato le posizioni vicine all’aeroporto di Damasco.

Tuttavia l’intervento di Israele nella guerra in Siria è andato molto più in là di quanto appaia. Nel corso della battaglia per la liberazione di Aleppo dai gruppi terroristi, nell’inverno dello scorso anno, una quindicina di agenti sionisti sono morti per l’esplosione di un missile da crociera russo del tipo “Kalibr” lanciato da unità navali russe situate nel Mediterraneo. Questi agenti israeliani si trovavano in un bunker nella città, assieme ad altri elementi occidentali della NATO e coordinavano la difesa delle postazioni terroriste della zona est di Aleppo, assediata dalle forze siriane. Naturalmente nessuna notizia è stata pubblicata dai media occidentali e tutto è rimasto riservato.
La falsificazione dei media atlantisti ha cercato sempre di giustificare le incursioni aeree israeliane sulla Siria come se fossero dirette non contro le forze siriane ma a colpire i depositi di Hezbollah, cosa del tutto falsa.

Accade quindi che una falsità viene coperta da un’altra, come accaduto all’inizio di questo mese quando un attacco aereo dell’aviazione israeliana contro l’Esercito regolare ad Hama si è giustificato affermando che aveva per obiettivo uno stabilimento di armi chimiche , uno degli abituali pretesti della propaganda di guerra svolta dai media atlantisti.

Tanto questi attacchi, come le dichiarazioni del tipo di quella fatta dalla ministra della Giustizia, potrebbero compromettere il buon clima esistente tra Israele e la Russia, che uno dei pochi pilastri che mantiene lo Stato sionista nel Medio Oriente.

Si deve considerare che circa un 15% della popolazione di Israele è di origini russe (1,25 milioni), un gruppo di pressione molto importante che risulta uno dei fondamenti delle buone relazioni tra entrambi i paesi.
La ministra Shaked è la stessa che poco tempo prima aveva proposto lo sterminio della popolazione palestinese, inclusi i bambini, oltre alla demolizione della loro case, come soluzione al problema dei territori occupati in modo da non dover più allevare dei potenziali terorristi.
Michael Lobovikow, presidente del Likud Russioa e membro del movimento degli ebrei sovietici, lo ha messo ben in chiaro affermando: “Israele soffre di grandi perdite per causa delle attività del BDS (Boicotta Israele) e questo ci obbliga a mantenere relazioni con una potenza mondiale che gode di molta influenza nel mondo intero come la Russia”.

Si può dire che – per lo meno in parte – Israele è nata a suo tempo grazie all’appoggio della URSS di Stalin e che – se tutto procede come adesso – in futuro potrà sopravvivere soltanto con l’appoggio della Russia. Le dichiarazioni della ministra mordono quindi la mano che assicura la sopravvivenza. Inoltre dimostrano come il Governo di Tel Aviv sia molto lontano da mantenere una politica accorta verso la Russia.

Immigrazione di Rimpiazzo - il governo del corrotto Pd ci si è messo di impegno per sostituire il popolo italiano

Il governo da la casa agli immigrati. E se critichi "hate speech"

Adraiano Scianca
27 settembre 2017

Roma, 27 set – Il governo dà casa agli immigrati. E se protestate, l’occhio del Grande Fratello è pronto a punirvi. In margine al suo “Piano nazionale integrazione per i titolari di protezione internazionale”, il Viminale si prepara già ad azzerare ogni obiezione. È per questo che prevede di “promuovere campagne di comunicazione e strutturare azioni di counter speech sui social media e social network che contrastino il fenomeno dell’hate speech e favoriscano una contronarrazione”, che in boldrinese significa dare la caccia alle opinioni sgradite e approntare una propaganda di Stato. Perché questo bisogno di “blindare” il testo dalle critiche degli italiani? Forse perché a qualcuno le mosse dell’esecutivo per favorire la presunta “integrazione” potrebbero non piacere.

Cominciamo col dire che si tratta di un piano che riguarderà solo i beneficiari di protezione internazionale, che comunque non sono esattamente quattro gatti: parliamo di 74.853 persone. Solo 27.039 sono rifugiati, mentre 47.814 sono titolari di protezione sussidiaria, ovvero cittadini stranieri che non possiedono i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornassero nel Paese di origine, correrebbero un rischio effettivo di subire grave danno. Insomma, nel dubbio accogliamo. Nel piano, infatti, sono previsti per gli immigrati l’accesso all’assistenza sanitaria e all’alloggio. Di quest’ultimo si dice che “gli enti locali prevedono che l’uscita dall’accoglienza dai centri Sprar venga accompagnata con un supporto all’autonomia abitativa, anche tramite la selezione di annunci immobiliari, la locazione di stanze in appartamenti con connazionali, o un supporto economico per l’affitto”. Ecco quindi che occorre “creare le condizioni perché i piani per l’emergenza abitativa regionali o locali prevedano percorsi di accompagnamento per i titolari di protezione in uscita dall’accoglienza”.

Insomma, troviamo loro casa. E a questo punto, già che ci siamo, troviamo loro anche un lavoro. Ed ecco infatti che il piano prevede di “favorire la diffusione di esperienze pilota (quali Inside, Percorsi e Protocolli con Confindustria e UnionCamere)”, nonché di “promuovere la progettazione di interventi volti ad allargare ai beneficiari di protezione internazionale la possibilità di usufruire delle agevolazioni fiscali previste nella legislazione sulle cooperative sociali, per almeno i primi due anni dopo il loro riconoscimento”. E anche di “promuovere la capacità d’impresa, soprattutto in settori innovativi, anche tramite la promozione di strumenti quali il micro-credito, i servizi di supporto allo start-up d’impresa, favorendo l’accesso al credito da parte dei beneficiari di protezione internazionale”.

Ma poiché la cosa poteva ancora non invogliare tutti ad invaderci, il governo ha deciso di mettere mano anche al ricongiungimento familiare, dato che “la possibilità di poter ricostruire un minimo nucleo familiare, crea la base per una vera integrazione”. O forse crea le basi per una sostituzione di popolo, al termine della quale non ci sarà più bisogno di integrare nessuno. Via, quindi, a un considerevole snellimento delle procedure anche in questo senso. Ma non protestate: sarebbe hate speech.

Vladimiro Giacchè - Gli euroimbecilli italiani sono accecati da un pregiudizio ideologico. Diciamola tutta, fra di noi, sono servi consapevoli degli stranieri

Giacché: “In Germania ha vinto la protesta. L'UE è irriformabile, come non capirlo?”




intervista a Vladimiro Giacché di Giacomo Russo Spena

Non lo definisce “vento populista”, preferisce chiamarlo più semplicemente “vento della protesta” anche quando si tratta di commentare le elezioni tedesche e il grande exploit dei nazionalisti dell'AfD. Vladimiro Giacché, economista e presidente del centro Europa Ricerche, ne è convinto: “Se l'Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht”.

Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell'estrema destra dell'AfD, sono questi i due aspetti predominanti del voto tedesco? 

Aggiungo il crollo della CDU e della CSU, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica.

Ma, in realtà, in Italia il Pd è in testa ai sondaggi come primo partito, crede veramente rischi la pasokizzazione?

Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo. L’operazione politica che ha dato vita al Pd si rivela per quello che era: un’operazione trasformistica priva di respiro. Oggi è il bersaglio di tutti coloro che ritengono socialmente regressiva ed economicamente sbagliata la politica seguita dal 2011 in poi. Mi riesce difficile dar loro torto. 

Torniamo alla Germania: malgrado la vittoria di Merkel, dal voto si evincerebbe una crisi di Sistema?

Oggi viene letto tutto in termini di instabilità, ma non credo che sia la lettura corretta: semplicemente, l’elettorato ha votato contro la gestione di questi partiti nei 10 anni che ci separano dall’inizio della Grande Recessione. Può essere sorprendente che questo avvenga anche in un Paese come la Germania, che è considerato da molti il vero vincitore di questa crisi. Ma il punto è che non tutta la Germania ha vinto, anzi. 

In effetti in Germania negli ultimi dieci anni la povertà relativa è salita dall'11 al 17%; con l'introduzione dei mini Jobs sono raddoppiate a due milioni le persone che fanno un doppio lavoro per vivere, la crescita del Pil è stata costante ma i pensionati poveri sono arrivati al 30%. E la concentrazione della ricchezza in poche mani in Germania è seconda solo a quella Usa. E' per questo che Merkel vince ma non stravince, nel senso che perde voti rispetti alle precedenti elezioni?

Proviamo a dirlo in “economese”. La Germania in questi anni ha coerentemente praticato una politica mercantilistica, basata sulle esportazioni, sacrificando la domanda interna e gli investimenti. La capacità esportativa tedesca si è avvalsa per un verso della costruzione di una rete di subfornitori con manodopera a basso prezzo nei paesi dell’Est (che perlopiù non hanno adottato l’euro, e quindi hanno potuto beneficiare di svalutazioni rispetto ad esso), per l’altro di una vera e propria compressione dei salari. I salari tedeschi, nei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono scesi in termini reali, tra il 1999 e il 2008, di qualcosa come il 9% (sono dati forniti da Bofinger, uno degli esperti economici che assistono il governo tedesco: http://voxeu.org/article/german-wage-moderation-and-ez-crisis). Con l’Agenda 2010 del socialdemocratico Schröder sono stati precarizzati i rapporti di lavoro (i minijobs), riducendo al contempo fortemente le indennità di disoccupazione. Nel frattempo, le tasse alle imprese e alla parte più ricca dei cittadini venivano diminuite. Ecco spiegata l’ampliarsi della disuguaglianza, e anche il mistero di una Germania che “va bene”, ma in cui tanti cittadini sono scontenti. E votano di conseguenza.

Se, come viene detto, la vittoria dell'Afd sarebbe dovuta alla campagna contro i rifugiati perché otterrebbe grandi consensi nella Germania dell'Est dove in realtà c'è una bassa affluenza di migranti? 

Il tema dell’immigrazione ha fatto da detonatore a un disagio sociale presente già da tempo. All’Est le sue motivazioni si possono sintetizzare in due dati: una disoccupazione doppia che all’Ovest, e stipendi inferiori di un quarto. Si tratta di una situazione che affonda le sue radici nelle modalità dell’unificazione tedesca, e in particolare – come ho spiegato anni fa nel mio libro sull’unificazione, Anschluss – in un’unione monetaria affrettata e realizzata con un tasso di cambio assurdo (parità tra marco ovest e marco est nonostante che il tasso di cambio reale fosse all’epoca di 1 a 4,4), che ha distrutto l’economia della ex Germania Est. A questo punto tutti gli asset industriali dell’est furono svenduti attraverso la Treuhandanstalt (curiosamente riproposta come modello durante questa crisi, da Juncker e da altri, alla Grecia). Il risultato furono milioni di disoccupati, emigrazione di massa e la distruzione dell’industria dell’Est. Una distruzione cui non hanno potuto porre rimedio i massicci trasferimenti statali successivi: molto semplicemente, al di là di poche isole felici, l’Est del Paese non è a tutt’oggi autosufficiente.

Alternative für Deutschland prende i voti delle classi popolari e dei ceti meno abbienti?

L’AfD non vince soltanto all’Est, ma anche in zone certamente tutt’altro che povere come la Baviera, dove la motivazione anti-immigrati è senz’altro prevalente. 

In Italia se ne è parlato poco: la Linke, la sinistra radicale tedesca, ha preso quasi il 10 per cento. Il vento di protesta si muove anche a sinistra?

La Linke prende mezzo milione di voti dalla SPD, ma cede poco meno alla AfD. In questi numeri sta scritto tutto quanto ci è necessario sapere, e quanto del resto confermano le evidenze sulle zone di maggiore radicamento della Linke stessa: che guadagna voti all’Ovest ma li perde ad Est; che conquista consensi nei quartieri della borghesia riflessiva, ma li perde nelle zone operaie. Non ha pagato la linea sull’immigrazione (“refugees welcome” non è una politica), e questo ha neutralizzato il fatto (importante) che una parte dell’elettorato deluso dalla Grosse Koalition si è rivolto a sinistra, preferendo la Linke alla SPD. A questo proposito va detto che all’interno della stessa Linke chi aveva avanzato idee sensate sulla necessità di un’immigrazione regolata (Sahra Wagenknecht) è stata attaccata violentemente: i risultati si sono visti nelle elezioni. 

Nei suoi libri ha spiegato bene come la Francia fosse ad un bivio: o accodarsi all'Agenda 2010 della Germania e proseguire sulla linea dell'austerity o far cambiare marcia all'Europa opponendosi al dominio della locomotiva tedesca. Mi sembra netta la scelta di Macron, no?

Ha imboccato la prima strada, in questa direzione vanno senza alcun dubbio le (cosiddette) riforme del lavoro annunciate. È una pessima notizia per la Francia e per l’Europa. Se Macron riuscirà a realizzare queste misure proseguirà e si rafforzerà la tendenza alla deflazione salariale e alla compressione della domanda interna in Europa.

Detta così, l'Europa a due velocità ha imboccato un vicolo cieco. Il vento populista ha terreno fertile? 

Sì, direi che più importante della velocità è qui la direzione: che è quella sbagliata. Si è troppo spesso confuso l’internazionalismo con l’europeismo, e l’Europa con l’Unione Europea. Per contro, si è data troppo poca importanza al tema della democrazia e a quello, connesso, della sovranità popolare: la verità è che l’Europa di Maastricht è profondamente antidemocratica. Lo è per essenza, e non per accidente. È un’architettura disegnata nel periodo trionfale del neoliberismo, quello immediatamente successivo al crollo dell’Urss. Il suo impianto non è soltanto antisocialista, ma antikeynesiano. 

Lei spesso pone un problema di incompatibilità di questa Europa con i nostri dettami costituzionali...

Quando Tietmeyer (presidente della Bundesbank) nel 1998 si compiacque per il fatto che i politici europei, spogliandosi della sovranità monetaria – conferita a un’unica banca centrale indipendente - avevano avuto la saggezza di sostituire “il plebiscito quotidiano dei mercati” al “plebiscito delle urne”, sapeva cosa diceva. Per di più durante la crisi, una classe politica e tecnocratica assai poco lungimirante ha deciso di dare un ulteriore giro di vite a questa macchina neoliberale con il fiscal compact. Quel fiscal compact che oggi si vorrebbe includere nei Trattati. Faccio fatica a trovare un’idea più miope e regressiva.

Come uscirne? 

Capendo fino in fondo che l’assetto attuale dell’Unione Europea è il problema, e non la soluzione. 

In tutto questo, quali possibili scenari intravede?

Sinceramente non sono ottimista. Mi sembra che la consapevolezza dei problemi a livello politico sia assolutamente inadeguata. Si continua a perdere tempo con problemi nella migliore delle ipotesi secondari, non si ha alcuna strategia, e quindi si soggiace a quelle altrui. È quello che emerge dall’esame di tutti i principali dossier degli ultimi anni: dall’Unione bancaria al problema dell’immigrazione, alla politica energetica. Non conosco un solo caso in cui la soluzione adottata non sia stata svantaggiosa per il nostro Paese, e favorevole ad altri. 

L'Italia dovrebbe maggiormente battere i pugni sul tavolo a Bruxelles, è questo il problema?

Non si tratta soltanto né soprattutto di incapacità negoziale, che sarebbe comunque sconfortante. C’è un pregiudizio ideologico: ogni passo avanti dell’integrazione europea è considerato positivo a priori. E c’è la convinzione – contraria a ogni evidenza – che solo il “vincolo esterno” ci possa salvare. Quasi che, per qualche tara genetica, fossimo incapaci di governarci da soli. In genere la storia non è stata tenera nei confronti delle classi dirigenti e dei popoli dominati da questo tipo di convinzioni. 

(28 settembre 2017)

Gli euroimbecilli si preparano ad armarsi per andare in guerra, questa è la loro strategia per uscire dalla crisi di sovraproduzione, quando il capitale non riesce a remunerare più gli investimenti. Ciechi non vogliono uscire dal loro orticello potrebbero, ma non vogliono investire sul sociale , sull'ambiente, sul sistema di produzione che non guardi il profitto ma il risultato per migliorare le condizioni di vita delle comunità umane

UE: Complesso militare-industriale al posto di una politica industriale

28.09.2017 - Tobias Baumann

Quest'articolo è disponibile anche in: Tedesco

(Foto di pixabay | CC0 Creative Commons)

Nell’attuale era post-Brexit, Berlino sta verosimilmente sfruttando e tentando di riempire il vuoto strategico-militare che Londra lascerà nello scacchiere militare europeo nel 2019. Finora Regno Unito e Francia sono stati militarmente i garanti dell’Unione, in futuro il ruolo passerà all’asse franco-tedesco.

Il Regno Unito ha lasciato di fatto l’UE già da diversi anni, non solo nella difesa ma anche nella politica industriale. Già nel 2000 i britannici si astennero dalla fondazione dell’EADS (European Aeronautic Defense and Space company), momento in cui hanno deciso di rimanere fuori da questo progetto comunitario e lasciarlo in mano a francesi, tedeschi e spagnoli. Nel 2006 anche la BAE (British Aerospace Electronic systems) si è ritirata dal gruppo Airbus. [1]

Nel 2016, con la Brexit, le élite della City londinese si sono definitivamente accordate in favore di una strategia nazionale, annunciata come bellica già con la guerra in Iraq del 2003, e di politica industriale (2000/2006), accompagnata parallelamente da un appoggio ancora più stretto agli Stati Uniti. La politica industriale non è solamente da vedere come divisa tra area anglosassone contro area continentale europea, quest’ultima dominata dalla Germania, ma dovrebbe anche essere uno stimolo potenziale per lo sviluppo industriale e quindi sociale della periferia UE, dove al momento si ha l’urgenza di creare nuovi posti di lavoro.

Comunità industriale europea: una chimera

Nel quadro della liberalizzazione e della privatizzazione forzate dell’Europa di Maastricht, la priorità è quella di evitare di essere sanzionati dalla Corte di Giustizia Europea per violazione della libera concorrenza. Una politica industriale progressista, più volte richiamata nei Trattati di Roma del 1957, non è più oggi facilmente realizzabile. L’ex presidente di EADS[2], Louis Gallois, ha individuato il punto: „la giurisdizione europea vieterebbe oggi il lancio di un progetto come Airbus“[3].

Il nuovo presidente del gruppo Airbus, il tedesco Thomas Enders, ha assunto nel 2016 un cittadino statunitense a capo della divisione Ricerca e tecnologia, Paul Eremenko, ex quadro del Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) americano… Gli industriali europei si considerano evidentemente come, portaerei delle multinazionali nordamericane“ (cit. Jean-Michel Quatrepoint) e degli Hedge funds.

Dunque sono sfumati i sogni di un patriottismo europeo con impostazione politico-industriale, tanto cari alla sinistra francese. La deindustrializzazione è massiccia non solo in Francia, ma anche in Italia. Il modello di sviluppo industriale italiano del dopoguerra è stato negli ultimi anni in gran parte soppiantato e assorbito da fondi di investimento anglosassoni e Ordoliberismo tedesco.

UE: cortile USA in territorio eurasiatico

La mancata risposta agli aumenti di dazi doganali sull’acciaio tedesco da parte americana del marzo 2017, dimostra che la dipendenza politica degli Stati UE da Washington è accompagnata anche dalla subordinazione economica. Le stesse sanzioni antirusse dell’estate 2017, che colpiscono anche le imprese europee che cooperano con Gazprom, non hanno ottenuto controrisposte. Il Ministero degli Esteri tedesco si è limitato ad un comunicato stampa, firmato congiuntamente da Sigmar Gabriel e dal cancelliere austriaco Kern, a cui non ha fatto seguito alcuna azione. Gli Stati europei maggiormente colpiti dalle nuove sanzioni americane contro la Russia, quali Germania, Austria e Francia, dovrebbero appellarsi al Tribunale internazione dell’Aia e al Dispute Settlement Panel del WTO a Ginevra. Anche l’ONU nel 2000 condannò le sanzioni unilaterali e nel 2014 rimarcò le disastrose conseguenze di tali sanzioni a livello dei diritti umani. Ciononostante, né la Commissione Europea né i governi di Berlino, Vienna o Parigi se la sentono di reagire a tali sanzioni che condizionano la politica energetica e la sovranità dell’Unione Europea.

Il dominio USA sull’economia europea e l’allontanamento dal partner commerciale russo crescono ogni anno, in particolare a partire dal 2014. Allo stesso tempo, grazie al predominio del dollaro, gli Stati Uniti hanno la possibilità dagli anni ‘40 in poi di manipolare il prezzo del petrolio, anche grazie ai rapporti privilegiati con l’Arabia Saudita, maggior Paese esportatore mondiale. L’attuale frammentazione dell’OPEC è una conseguenza di tale concentrazione di potere. Ricordiamo che il Venezuela, paese nel “cortile degli USA”, contribuì alla fondazione dell’OPEC nel 1960, ma i suoi interessi nazionali contrastano da decenni quelli del maggior paese importatore di petrolio, gli Stati Uniti appunto[4]. Ora sarebbe necessaria una nuova forma di strategie industriali progressiste in Europa, che tuttavia dovrebbe mettere in discussione radicalmente i fondamentali finanziari e politici.
Nipponizzazione dell’UE: spirale di indebitamento

Non solo il costituzionalismo neoliberale, ma anche a livello sovranazionale si impedisce uno sviluppo sociale nella periferia Sud dell’Unione. Anche la BCE, non soggetta al diritto primario europeo, non persegue alcuna strategia industriale per le regioni marginali. Inoltre le banche, la macropolitica e la finanza della BCE appoggiano una soluzione della crisi dell’euro che promuove solo speculazione e sovraindebitamento al posto di industria e produzione.

La Frankfurter Allgemeine Zeitung del 13/04/2016 ha commentato i tassi negativi della BCE con il titolo “I tassi negativi sono una follia” (intervista con l’investitore Mohamed El-Erian). La fiducia nelle banche centrali diminuisce drammaticamente. “In linea di principio, ciò sconvolge completamente il nostro sistema finanziario, se eliminiamo gli interessi, cioè le rendite, e non li sostituiamo con nulla. Inoltre i tassi negativi aumentano la sfiducia nel sistema.” Questo modello è già fallito in Giappone, dove lo si utilizza già da tempo. I fondi pensione, le banche e le assicurazioni avranno prevedibilmente problemi con gravi conseguenze per tutti i cittadini!

Il Tagesspiegel del 30/07/2016 ha titolato: “Giappone laboratorio per l’Europa”. Il Giappone si trova infatti da più di due decenni in una spirale deflazionistica, “come quella che presumibilmente è appena cominciata in Europa”. La BCE si è incaricata del “finanziamento diretto statale” a partire dal 2015, secondo il modello di Tokyo, comprando azioni private in gran quantità, ma la politica monetaria espansiva “non mostra comunque gli effetti desiderati”.

Anche la Frankfurter Allgemeine Zeitung (09/06/2016) osserva: “Nuovo programma della BCE: un atto di disperazione”. Per complessivi 5 miliardi di euro al mese la BCE sostiene il gruppo Renault, ma anche “un birrificio belga-brasiliano”… Gli acquisti vengono organizzati a livello nazionale tramite le banche centrali di Finlandia, Francia, Germania, Belgio, Italia e Spagna. La BCE si configura quindi non come sovranazionale, ma come organizzazione intergovernativa. “Inoltre il denaro andrebbe alle aziende con buon ranking (minimo BBB), che potrebbero accedere al credito anche senza alcun sostegno. La conseguenza è che le aziende emettono nuove obbligazioni, le vendono alla BCE e ricomprano in seguito le loro stesse azioni. Alla fine del gioco si hanno solamente più debiti”.

La Reuters segnala in proposito che la BCE acquisisce molte obbligazioni aziendali a tassi negativi, quindi presta denaro e paga per farlo! Circa un quinto degli acquisti nell’estate 2016 è avvenuto in tal modo, ad esempio col gruppo svizzero (!) Nestlé e con il fornitore energetico francese Engie. La BCE ha già acquisito nel 2016 più di 450 obbligazioni da più di 175 società, permettendo ai grandi gruppi di indebitarsi in modo estremamente vantaggioso.

Clemens Fuest descrive nella Süddeutsche Zeitung del 9/08/2016 che la BCE non è specializzata nella valutazione del rischio di credito, in modo che “le perdite per la BCE verrebbero scaricate sui contribuenti”!

Lo stesso quotidiano del 4/08/2016 ricorda, nell’articolo “Am Ende hilft doch der Staat” (“Alla fine aiuta comunque lo Stato”), di Markus Zydra, che “istituti di credito come Deutsche Bank sono diventati mostri impenetrabili”, che “guadagnano in molti settori”. Inoltre l’autore fa presente che ancora durante la crisi bancaria in Svezia nel 1992, le banche furono non solo nazionalizzate, ma anche risanate e soggette a vigilanza, di modo che le perdite non toccassero i contribuenti! Cosa che non avviene più a partire dal 2008, come ci dimostra il caso Monte Paschi di Siena.
La Costituzione tedesca dichiara illecita la politica della BCE, eppure la legittima

La Frankfurter Allgemeine Zeitung del 16/06/2016, nell’articolo “Karlsruher Warnung” di Reinhard Müller, informava che la Corte Costituzionale tedesca “ha decretato il programma della BCE illegittimo, ma può considerare un’interpretazione conforme alla normativa europea”, legittimando così la stessa BCE. Ancora una volta viene avallato il superamento del mandato BCE.

Fondamentalmente l’acquisto di titoli di Stato sarebbe “un’infrazione della divisione di competenze nell’Unione”, perché potrebbe “interferire come un aiuto nel quadro della politica di salvataggio dell’euro, che è di competenza centrale degli Stati membri”. Quindi la Corte ha fatto riferimento alla Corte di Giustizia Europea, che favorisce l’autoreferenzialità della BCE.

Il Prof. Murswiek nella FAZ ha commentato: “Come uno schiacciasassi la BCE passa sopra ad ogni scrupolo legislativo. Per Mario Draghi e la maggioranza del consiglio direttivo pare che non esistano limiti al proprio mandato”. Il Quantitative Easing sarebbe “un enorme programma di acquisto di titoli di Stato”, un abuso di competenza contro i Trattati del 1993. “Nel dibattito pubblico non si criticano quasi mai le infrazioni da parte BCE. Il motivo sta probabilmente nel fatto che il diritto non ha alcun ruolo, quando si tratta di maggiori questioni politiche”. La BCE non è legittimata e interviene direttamente nella politica economica dell’Eurozona. “La sua azione consiste in un auto-incaricarsi,senza fondamento democratico”.

La via di uscita per le élites: la soluzione militare

Come nelle crisi sistemiche delle epoche passate le élites considerano, a soluzione delle crisi di sovraindebitamento e sovraccumulazione, solamente l’iperinflazione o un nuovo conflitto su scala mondiale.

La nuova tendenza in UE è l’annunciata predisposizione di un complesso militare-industriale secondo il modello della forte industria della difesa francese (presente a partire dalle guerre di decolonizzazione al periodo De Gaulle).

La fusione tra Europa e Nord-America nel complesso militare-industriale dell’UE è anch’essa di avanguardia: qui troviamo infatti aziende e gruppi di credito come Deutsche Bank, Allianz, Raytheon (maggior esportatore di armi americano), Airbus, Shell, BMW, Merck, Microsoft…

La Germania e la Francia lasciano brillare il loro spirito di fondatori dell’Europa e giocano d’anticipo”

Secondo la Süddeutsche Zeitung del 12/09/2016, Berlino e Parigi giocano d’anticipo con le loro “molte proposte, come il rafforzamento di un quartier generale EU o la formazione degli Eurocorp, già da anni nell’aria”; la Brexit offre l’opportunità unica di realizzare tali idee sotto guida tedesca! Infatti finora Londra e Parigi sono stati i riferimenti incontestati nella difesa. “I tedeschi e i francesi si dedicano all’industria della difesa: è forte il desiderio di sviluppo di un drone di fabbricazione europea”. Nel quadro dei piani di Ursula von der Leyen, Ministro della difesa tedesco, e Jean-Yves Le Drian[5], si tratta di “rivitalizzare l’intera politica di sicurezza e difesa comune”. Tra le altre cose si ipotizza una scuola ufficiali europea comune…

[1] cfr. Jean-Michel Quatrepoint, L’Europe en retard d’une guerre industrielle, in Le Monde Diplomatique, del giugno 2017, pag. 18

[2] EADS è stata nel frattempo rinominata “Gruppo Airbus”

[3] ibidem, pag. 19. Gallois fu presidente di EADS dal 2006 al 2012

[4] Anche l’interesse nazionale russo è, da un secolo, sistematicamente incompatibile con le ambizioni anglosassoni in Medioriente, indipendentemente da circostanze ideologiche o politiche

[5] Jean-Yves Le Drian è stato Ministro della Difesa sotto il Presidente Hollande ed è oggi Ministro degli Esteri con Macron, nel frattempo è stato decorato con una croce al merito dal governo di Berlino

Traduzione dal tedesco di Diego Guardiani

24 maggio 2017 - Prof. Stefano Montanari: Vaccini: brutti sporchi e cattivi?





Pubblichiamo l'intervista rilasciata dal Prof. Stefano Montanari, esperto di fama europea sulle patologie epigenetiche derivanti dall’assunzione di polveri sottili. Montanari rivela la presenza, inequivocabile e documentata, di additivi e inquinanti in tutti i vaccini, e spiega con semplicità e completezza i rischi ad essi legati.

L'intervista è stata rilasciata lo scorso gennaio a Telecolor.
Link al video originale:

29 settembre 2017 - "Tre lezioni sulla Sopravvivenza" di Piero San Giorgio - Prepararsi a te...



"Tre lezioni sulla Sopravvivenza" di Piero San Giorgio - Prepararsi a tempi futuri difficili

Mauro Bottarelli - non è un caso che la Strategia della Paura è intervenuta con un atto terroristico a Barcellona

SPY FINANZA/ Il filo che lega Brexit e Catalogna

Per MAURO BOTTARELLI il silenzio che Bruxelles sta tenendo rispetto a quello che accade in Catalogna è piuttosto sospetto. Ed è forse legato a quel che avviene nel Regno Unito

29 SETTEMBRE 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

«L'Europa ha fatto orecchie da mercante sul desiderio della Catalogna di votare per l'indipendenza dalla Spagna. E il pugno duro di Madrid alimenterà solo l'affluenza al voto». Parole del leader catalano, Carles Puigdemont, interpellato da Ap, quando mancano ormai solo due giorni al referendum sull'indipendenza, duramente osteggiato da Madrid che lo ritiene illegale. Non entrando nel merito della questione catalana, qualcosa fa riflettere e sembra dare ragione al leader separatista: l'Ue mette becco normalmente in qualsiasi cosa, organizza vertici anche se si intasa il gabinetto all'Europarlamento e non dice una singola parola su un conflitto interno all'Unione che vede addirittura due forze di polizia, la Guardia Civil spagnola e i Mossos d'Esquadra catalani, uno contro gli altri, dopo la decisione di Madrid di porre i secondi sotto il controllo di un generale della prima, di fatto commissariandone l'autorità e l'indipendenza? Non so a voi, ma a me l'idea che domenica due entità statali armate siano su sponde contrapposte fa paura e inquieta da morire, altro che Kim Jong-un: come fa l'Europa a tacere? 

Madrid ha addirittura affittato una nave da crociera per ospitare gli agenti della polizia nazionale da dispiegare in caso di disordini, qualcosa come 16mila uomini in totale, alcune migliaia dei quali in queste ore hanno chiuso altri due siti di movimenti indipendentisti catalani favorevoli al referendum di domenica. Nella notte sono state oscurate le pagine web di Omnium - insieme all'Anc una delle due grandi sigle della società civile indipendentista - e del partito Cup, mentre negli ultimi giorni sono stati chiusi oltre 140 siti. Una situazione paragonata a quelle di Turchia e Corea del Nord dal portavoce del governo autonomo, Jordi Turull. Difficile dargli torto e, alla luce dello strepitare di Bruxelles rispettivamente alle situazioni di quei due Paesi, suona stonato il silenzio totale delle autorità comunitarie. Le quali, ieri, si sono limitate a questo: "Rispettiamo l'ordine costituzionale della Spagna", ha dichiarato un portavoce della Commissione Ue, Alexander Winterstein, ribadendo la posizione dell'esecutivo comunitario, alle domande dei giornalisti. Un po' pochino, alla luce dei rischi potenziali. 

Perché se ieri migliaia di studenti hanno manifestato pacificamente a Barcellona in appoggio al "diritto di decidere" del popolo catalano, al grido di "No alla sospensione della democrazia", poche ore prima - proprio a Bruxelles, nel corso di una conferenza stampa -, il ministro degli Esteri del governo autonomo catalano, Raul Romeva, era stato molto chiaro: «Se vincerà il sì nel referendum di domenica in Catalogna, 48 ore dopo la pubblicazione dei risultati il Parlamento approverà una dichiarazione di indipendenza unilaterale. Se c'è una maggioranza che voterà no, dovremo accettare i risultati. Ci dimetteremo, convocheremo nuove elezioni regionali e la vita continua». Non a caso, alla luce di questa escalation, in una lettera ai colleghi delle 27 capitali Ue, il sindaco di Barcellona, Ada Colau, ha chiesto ieri una mediazione della Commissione europea nella crisi catalana. 

Colau, eletta con Podemos, sottolineava che il conflitto catalano non è una questione interna spagnola e deve essere affrontato nella sua dimensione europea: «L'Europa non può non reagire alle minacce ai diritti e alle libertà fondamentali che l'offensiva di Madrid provoca in Catalogna». Reazione? Zero. Anche perché, in concomitanza con una delle situazioni più delicate che l'Ue vive dal weekend del voto sul Brexit, anticipato dall'omicidio della deputata Jo Cox, le autorità comunitarie si riuniranno a Tallin per un vertice nel quale si deciderà nulla o poco più come sempre, ma che garantirà un piacevole fine settimana agli alti papaveri, altrimenti costretti ad annoiarsi a casa con mogli e figli. Mariano Rajoy, premier spagnolo, non ci sarà: resterà a Madrid per monitorare la situazione e, se necessario, prendere decisioni d'emergenza. Non sarebbe stato un bel segnale da parte dell'Ue posticipare l'inutile, ennesimo vertice per dimostrare attenzione verso quanto sta accadendo in Catalogna? E poi, ripeto, com'è possibile che nessuno si sia sentito in dovere di cercare una mediazione, quando parliamo di Guardia Civil che sequestra schede, sigilla seggi ed è pronta ad arresti di massa? Stiamo parlando della Spagna, non del Ciad. 

Qualcosa non torna e lo dico non limitando il mio ragionamento al mero scenario catalano: guardate questa copertina, passata stranamente sotto silenzio. È quella dell'Economist della scorsa settimana e vede Jeremy Corbyn in veste di delicato e rassicurante inquilino del 10 di Downing Street. Come sapete, immagino, l'Economist non si limita a raccontare i leader, li indica e li incorona prima ancora dei parlamenti, dei congressi e delle elezioni. Fu infatti il settimanale della City a tirare per primo la volata alla Cool Britannia del New Labour con una campagna martellante a favore della figura di Tony Blair. E, tornando all'oggi, il tutto andando in edicola il giorno precedente al discorso di Theresa May a Firenze sul Brexit, una data a dir poco simbolica e un passo formale destinato a colpire al cuore proprio l'Unione europea. La quale, ciliegina sulla torta, due giorni dopo ha dovuto prendere atto, non certo con soddisfazione e sollievo, del risultato delle elezioni politiche tedesche. 


E cosa ha detto giovedì Jeremy Corbyn al congresso annuale del Labour a Brighton, parlando di «socialismo per il ventunesimo secolo e nuovo modo di fare politica»? «Siamo alla soglia del potere», alludendo ai sondaggi che danno sempre più in difficoltà i Tories e il loro governo di minoranza. E come si è conclusa l'assise? Con l'intero palazzo che cantava "Bandiera rossa" con il pugno alzato? Non vi pare strano che l'Economist tiri la volata a un soggetto e a una prospettiva politica simile? No, affatto. Perché le elites, quando sono stanche degli utili idioti che hanno spinto al potere per operare in base a un'agenda nascosta e predeterminata, li cacciano. In un modo o nell'altro. Basti vedere alcune strane fini ingloriose e repentine come quelle di Dominique Strauss-Kahn all'Fmi (stranamente, dopo aver parlato di fine del dollaro come moneta benchmark globale) e Ignacio Lula in Brasile, quando cominciava a esagerare troppo con certe politiche populiste. Jeremy Corbyn serve soltanto a bloccare il Brexit, il cui termine operativo è già stato spostato dalla May al 2021: adorato dai giovani, spendibile sui media, profilo alla Sanders ma tranquillizzante, è lui l'uomo giusto per far cambiare idea ai britannici senza far scoppiare una rivolta. 

Le elites hanno deciso. E così sarà, vedrete. Tanto più che l'esecutivo May ha la resistenza di un wafer agli scossoni politici e l'appoggio del Dup nordirlandese non ci vuole molto a farlo saltare, toccando i tasti giusti. Non sarà per questo che l'Ue tace su quanto sta accadendo in Catalogna? Non sarà che dopo lo shock del Brexit, ogni altro precedente secessionista va stroncato sul nascere con ogni mezzo, anche ricorrendo a misure apertamente franchiste e liberticide? In compenso, se scrivi un post contro l'immigrazione su Facebook, ti ritrovi la Digos alla porta in ossequio alle politiche contro il "linguaggio dell'odio". Io non vedo altra risposta all'inazione e al silenzio di un'istituzione come l'Ue che solitamente mette becco in tutto e ora, invece, fa parlare i portavoce con dichiarazioni protocollari. 

Pensateci, perché per quanto la legge sia dalla parte di Madrid in punta di sentenza, qui c'è in ballo qualcosa di più dell'indipendenza di Barcellona.

Sogin - anni e anni che la politica non decide e noi continuiamo a pagare e a rischiare sempre di più

Sogin, ma quanto ci costa smantellare le centrali nucleari?

La fine del decommissioning atomico slitta in continuazione, mentre i costi in bolletta per i cittadini diventano sempre più alti. La società pubblica Sogin appare in grave crisi


Pubblicato il 27/09/2017
FRANCESCO FERRANTE *

C’è una vicenda che si dovrebbe definire farsesca, se non presentasse alcuni aspetti assai pericolosi per la vita dei cittadini italiani, che racconta forse meglio di altre il rapporto distorto e sbagliato tra “tecnica” e “politica”: il decommissioning nucleare. Oramai oltre trent’anni fa, con il primo referendum antinucleare, i cittadini di questo paese decisero di non imbarcarsi in quella avventura (scelta peraltro ribadita a larga maggioranza anche nel 2011). 

Un Paese serio avrebbe impiegato questi decenni per affrontare il problema - tecnicamente complesso ma non trascendentale, come dimostrano ormai diverse esperienze all’estero - del decommissioning di quelle poche centrali che avevamo realizzato tra gli anni sessanta e settanta. Peraltro avremmo potuto accumulare un know how che in questi prossimi anni nei quali il phasing out del nucleare interesserà molti Paesi avremmo potuto spendere proficuamente anche all’estero. 

Niente di tutto questo. Non si è fatto praticamente nulla. Di deposito - più o meno definitivo - se ne parla da anni senza fare un solo passo avanti, ma quello che è più grave forse sono gli spaventosi ritardi accumulati da Sogin (il soggetto pubblico responsabile) dell’”ordinaria” attività di decommissioning. Un ritardo che perpetua il rischio in quei siti dove scorie nucleari sono ospitate precariamente (si pensi a Saluggia in Piemonte e ai rischi connessi a possibili alluvioni in un sito che ospita 230 metri cubi di rifiuti nucleari liquidi dagli anni settanta) e che costa a tutti noi risorse ingentissime. Sprechi spaventosi e inutili pagati dalle nostre bollette. Altro che incentivi alle rinnovabili (quelli almeno servono a produrre elettricità pulita, questi li stiamo buttando dalla finestra, in dosi annuali più piccole ma per tempi che di questo passo potrebbero essere spaventosamente lunghi). 

Prendiamo solo quest’ultimo decennio. Nel 2008 Sogin presenta un piano per cui il decommissioning si sarebbe dovuto concludere nel 2019 con una spesa complessiva di 4,5 miliardi di euro. Due anni dopo aggiorna quel piano spostando la previsione di conclusione dei lavori al 2024 con una spesa aumentata a 5,7 miliardi. Nel 2013 prendono atto di aver fatto poco o nulla e spostano conclusone dei lavori al 2025 aumentando la spesa prevista a 6,32 miliardi di euro! Nel frattempo però Sogin costa e se si leggono i suoi bilanci possiamo calcolare che dal 2001 - l’anno in cui il Governo con la direttiva Bersani fissava al 2019 la fine del decommissioning - fino appunto al 2019 verrà a costare 4,3 miliardi di euro: quasi quanto nel 2008 si prevedeva sarebbe venuto a costare l’intero piano di decommissioning. Peccato che - parole dei suoi stessi dirigenti - siamo a un quarto di quel piano. 

La scorsa settimana infatti l’Ad di Sogin, Desiata, aveva dichiarato che la spesa totale prevista adesso è arrivata a 6,8 miliardi - salvo correggersi qualche giorno dopo (sic!) in occasione dell’assemblea generale dell’Aiea a Vienna portando la stima a 7,2 miliardi - e che sono al 26% di quel piano, nel novembre scorso in audizione in Parlamento aveva detto 25% (con un incremento dell’1% all’anno finiremmo intorno al 2090!). Peraltro nel 2013 l’allora ad Casale aveva parlato del 22%. 

Anche quest’anno peraltro Sogin non riuscirà nemmeno a spendere i soldi che aveva previsto di impegnare (se tutto va bene ne spenderà una sessantina invece degli oltre 80 che aveva promesso, riducendo peraltro le previsioni che pochi mesi prima indicavano per il 2017 130 milioni di attività di decommissioning). In questo caso non spendere, non è un risparmio: perché vuol dire che non si fa niente e che i costi lieviteranno inevitabilmente. Infatti quelli fissi (stipendi, mantenimento in sicurezza dei siti, funzionamento, ecc.) - che a questo punto si possono tranquillamente definire “improduttivi” - continuano a lievitare e quest’anno toccheranno la cifra record di 130-140 milioni: più del doppio delle risorse concretamente spese per fare il lavoro che Sogin dovrebbe fare, mettere in sicurezza siti e scorie. 

Oggi nel 2017, quel lavoro di trattamento dei rifiuti pregressi che secondo il Bersani del 2001 si sarebbe dovuto concludere nel 2010, praticamente non è ancora nemmeno cominciato, per le resine di Trino e Caorso, per i rifiuti liquidi di Trisaia e Saluggia, ecc. E per la fine del decommissioning adesso si parla del 2035 (non si sa con quale credibilità ed è comunque impressionante che in 4 anni ne abbiano accumulato altri 10 di ritardo) con una spesa che considerando i ritardi in realtà non potrà essere inferiore agli 8 miliardi (se tutto va bene). 

Si potrebbe pensare che tutto ciò sia responsabilità di tecnici non in grado di lavorare. Ma non è così. In Sogin ci sarebbero le competenze, se non si sono del tutto esaurite per sfiancamento da inoperosità in questi anni persi, ma è la mancanza di una politica che abbia il coraggio di scegliere a costituire il vero vulnus. A cominciare dalla scelta del management, che i risultati sin qui illustrati dimostrano non all'altezza dei compiti, per continuare con la definizione di atti di indirizzo che ridefiniscano strategie e priorità, visto che quelli individuati nel 2001 sono rimasti lettera morta. 

In questo quadro, si inserisce la vicenda della (mancata) localizzazione del deposito nucleare, che, meglio chiarirlo a scanso di equivoci, ha poco a che fare con i ritardi e gli sprechi di Sogin. Dopo l’improvvida indicazione di Scanzano (e parliamo del 2003, in piena era berlusconiana) fatta senza alcuna verifica e contrattazione territoriale e per cui inevitabilmente bocciata, si scelse una procedura - persino un po’ barocca - per assicurare quella condivisone senza la quale impossibile pensarne la realizzazione che però si sarebbe dovuta basare come primo passo sulla pubblicazione della CNAPI, la carta del Paese dove indicare i possibili siti. Sogin e Ispra conclusero nel 2015 quel lavoro, ma i ministeri competenti (Sviluppo economico e Ambiente) si sono ben guardati dal farla pubblicare. Paura di perdere consenso. Ora dicono che lo faranno nel quarto trimestre di quest’anno. Con le elezioni alle porte? Con Sogin che annaspa? Lecito dubitarne. 

E così siamo invece alla vigilia di un ennesimo probabile rinvio. E noi continueremo a pagare. E a rischiare. 

* Ecologista, vicepresidente del Kyoto Club

Venezuela bene

Diritti umani: l’ONU approva il Venezuela e sospende la Spagna

28.09.2017 - Redacción Barcelona

Quest'articolo è disponibile anche in: Spagnolo

(Foto di Pressenza)

In calo il potere mediatico della destra mondiale

Resumen Latinoamericano /YVKE – La Commissione sui Diritti Umani dell’ONU ha espresso le proprie considerazioni sull’attuazione dei diritti civili e politici in Spagna, Venezuela, Regno Unito, ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, Canada, Uzbekistan e Francia. Contrariamente all’opinione diffusa di quasi tutti i mezzi di comunicazione spagnoli, la commissione ONU per i diritti umani ha approvato il Venezuela, al quale fa alcune raccomandazioni, mentre ha duramente disapprovato la Spagna su 26 sezioni.

Le osservazioni finali della Commissione sui diritti umani dell’ONU fanno riferimento agli aspetti positivi dell’attuazione, in Venezuela, del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (PIDCP) ratificato dal paese nel 1978. Sono inoltre evidenziate, da parte degli esperti, le principali aree di preoccupazione in merito, e vengono dettagliatamente specificate raccomandazioni di azione da parte della Commissione allo stato esaminato.

Simultaneamente sono state rese pubbliche le osservazioni finali sulla sesta relazione periodica della Spagna.

La Spagna dovrà ripetere il corso sui Diritti Umani, dopo la sospensione, da parte delle Nazioni Unite, di una serie di argomenti dal titolo tremendo: espulsioni a caldo, razzismo di polizia, disuguaglianza di genere, violenza di genere, traffico di esseri umani, legge bavaglio, sterilizzazione di portatori di handicap, aborto illegale, centri di detenzione per stranieri.

Una rappresentanza della Spagna – sei ministeri, l’ufficio del Procuratore generale e la Missione alle Nazioni Unite – è comparsa davanti alla Commissione sui diritti umani dell’ONU, che valutava diversi paesi in merito all’attuazione del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici da parte degli stati membri.

Dopo l’analisi di quanto presentato dalla Spagna, le Nazioni Unite hanno emesso i risultati: sospeso. Il rapporto conta fino a 26 “preoccupazioni” per la mancata attuazione del Patto e critiche per la persistenza di leggi e pratiche contrarie ai diritti umani.

– RAZZISMO DI POLIZIA. Le Nazioni Unite osservano l’esistenza di “controlli di polizia basati su profili razziali ed etnici, in particolare di rumeni”. Chiede alla Spagna che “elimini l’uso di profili etnici per polizia e funzionari”, che si “incrementi la formazione di questi agenti sulla sensibilità culturale” e che “porti i responsabili davanti alla giustizia”.

– DISCRIMINAZIONE. Il rapporto esamina “discriminazioni” nei confronti di immigranti e minoranze etniche “nell’accesso all’alloggio, all’educazione, all’occupazione e alla salute”.

– STERILIZZAZIONI FORZATE. L’ONU critica la “sterilizzazione forzata su persone con disabilità, la cui capacità giuridica non è riconosciuta”. La commissione esige che “si ottenga il consenso informato da parte delle persone con disabilità”.

– DISUGUAGLIANZA DI GENERE. Le donne sono “rappresentate in modo insufficiente nelle posizioni decisionali”. Preoccupano le “notevoli differenze salariali tra uomini e donne”.

– VIOLENZA DI GENERE. Le Nazioni Unite notano la “persistenza” della violenza di genere e avvertono dell’“alto grado di violenza subita dalle immigrate, che in genere non denunciano le violenze sofferte”. Propongono di “aumentare” la protezione nei riguardi delle donne di origine rumena e di “indagare” sulle denunce di donne “particolarmente vulnerabili ed emarginate”.

Traduzione dallo spagnolo di Matilde Mirabella