L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 23 dicembre 2017

E' compito della politica garantire e perseguire la salute della comunità militare

“IL MONDO MILITARE CHE SFUGGE AL CONTROLLO LAICO DELLE ISTITUZIONI”. INTERVISTA CON L’ON. SCANU


(di Maria Enrica Rubino)
22/12/17 

Scioperi della fame, sit-in davanti a Montecitorio, lettere e telefonate ai ministeri. La cronaca delle settimane scorse racconta le proteste, anche simboliche, da parte delle associazioni che si fanno portavoce dei familiari dei militari e civili del comparto Difesa degli esposti e delle vittime dell’amianto. Ad essere contestato un emendamento presentato dall’on. Gian Piero Scanu, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta uranio impoverito, e inserito nella Legge di Bilancio 2018 che stabiliva “Disposizioni concernenti la tutela assicurativa per infortuni e malattie del personale del comparto sicurezza e difesa”. Mercoledì, in serata, l’On. Scanu fa sapere per mezzo nota stampa che il Governo ha ritenuto opportuno non approvare la proposta “per presunte ragioni di copertura finanziaria”, pur avendo espresso parere positivo tutti i ministeri interessati: Difesa, Interni, Lavoro, Giustizia.

Due giorni fa il Governo non ha approvato il Suo emendamento inserito nella Legge di Bilancio che trasferiva le competenze relative agli Infortuni del Lavoro e le problematiche di salute del Comparto Sicurezza e Difesa all’Inail.

L’emendamento ci avrebbe consentito di intervenire sulla prevenzione e sulla tutela della salute, ampliando le condizioni di accesso per gli istituti di tutela all’Inail in modo da offrire un’opzione in più rispetto a quanto oggi possano avere. Abbiamo cercato di evidenziare le grandi lacune che ci sono nel sistema con l’obiettivo di restituire una dignità che il negazionismo della Difesa e la debolezza della politica non hanno, invece, riconosciuto alle famiglie delle vittime. Purtroppo la politica continua ad essere troppo debole, invertebrata rispetto a mondi molto ben strutturati e molto forti come quello della difesa.

La proposta è stata piuttosto dibattuta e contestata dal mondo militare…

Questo poteva essere, per loro, un terreno da conquistare. Una riforma di questo tipo che guarda con grande attenzione alla vedova, all’orfano, al militare che subisce una menomazione, vale molto di più di un rinnovo contrattuale. Sulla proposta c’è stato parere favorevole di tutti i Ministeri di competenza: Difesa, Interno, Lavoro, Giustizia, ma parere contrario dell’Economia, in quanto la riforma era onerosa. Questa è la conferma che ai militari si intendesse dare un impianto normativo più ricco e più ampio, al pari di tutti gli altri lavoratori. Un militare che subisce una menomazione per causa di servizio ad oggi fa fatica a presentare domanda, mentre con la nostra proposta l’avvio della procedura sarebbe stato d’ufficio. Sapremmo ogni mattina quanti infortuni avvengono, com’è in tutto il mondo del lavoro.

Quali sono le principali criticità emerse nel corso dell’attività svolta dalla Commissione in questa legislatura?

La maggiore criticità è la scarsa attenzione politica rispetto ad una problematica talmente vasta da richiedere risposte immediate, che, però, non ci sono state. Tant’è che questa è la quarta Commissione e non sarà l’ultima, nonostante noi ci fossimo dati fin dall’inizio l’obiettivo di riuscire ad azzerare tutto il lavoro in modo tale da non essere più necessaria la presenza di una commissione. C’è un mondo, quello militare, che sfugge al controllo laico delle istituzioni perché è talmente autoreferenziale e abbozzolato su sé stesso da escludere ogni possibilità di verifica che possa essere utile per la sicurezza dei militari. Io la definisco ‘giurisdizione domestica’: fanno ciò che vogliono relativamente alla sicurezza dei posti di lavoro, alla tutela del personale. Ma, poiché i militari sono lavoratori come tutti gli altri e siccome le tutele debbono essere loro garantite, senza necessariamente scomodare l’articolo 3 della Costituzione, noi come Commissione d’inchiesta abbiamo cercato di scardinare questo sistema soffocante per laicizzarlo. Purtroppo ci non siamo riusciti. Siamo riusciti, tuttavia, ad ottenere ottimi risultati con una norma contenuta nella legge di stabilità.

Vuole spiegarci di cosa si tratta?


Si tratta di una norma che stabilisce che in tutte le aree di addestramento dei poligoni di tiro si potrà svolgere un’azione di controllo di tutte le attività che si svolgono facendo luce, quindi, in un settore opaco.

Perché ‘opaco’?

Un settore in cui quella giurisdizione domestica, a cui Le accennavo poco fa, avvolgeva per intero ogni tipo di attività. Con questa legge, per la prima volta le istituzioni hanno la possibilità di lavorare all’interno dell’ambito militare per regolarne il buon funzionamento.

Riguardo ai rapporti con la politica, cosa mi dice della collaborazione con i ministeri, in particolare con il ministro della Difesa?

Credo che il presidente di una Commissione d’inchiesta si debba porre fin dal primo momento l’esigenza di essere totalmente laico. Una Commissione d’inchiesta deve, per definizione, cercare la verità. E questa può avvenire soltanto se uno si libera della casacca di appartenenza e si mette laicamente alla ricerca delle verità. Il mio rapporto con le istituzioni è stato molto diretto, spesso molto ruvido, ogni volta che a mio giudizio si è reso necessario che lo fosse.

E riguardo ai rapporti con la rappresentanza militare? C’è stata collaborazione con i Cocer?

Faccio un’affermazione “apolitica”: questa Commissione è stata definita come una Commissione ‘dedita all’antimilitarismo’ dalle persone in malafede o superficiali, per il solo fatto di aver scavato per cercare la verità anche nel mondo militare. La verità è che non c’è niente di più diretto verso gli interessi dei militari del lavoro fatto da questa commissione. Questa Commissione si è sempre preoccupata della salute dei militari e ogni ombra di dubbio è stata creata ad arte per condizionare il lavoro della Commissione. Tutti i Cocer sono stati auditi anche formalmente. Sono stati attenti, ma non sono stati al nostro fianco.

Nel corso delle inchieste avete ricorso spesso all’esame testimoniale.

Gli esami testimoniali si svolgono nel giudizio dei poteri della magistratura. Pertanto, nel momento in cui avviene un esame testimoniale la persona esaminata va intesa come persona informata sui fatti, alla stessa stregua di quanto accade in un’aula di tribunale quando un testimone viene interrogato. Noi abbiamo fatto larghissimo uso di ricorso agli esami testimoniali perché ritenevamo fosse necessario non lasciare niente di intentato nella ricerca della verità.

Crede che sia stato positivo?

Credo sia stato molto positivo perché il sano condizionamento di chi sa di dover rispondere anche in sede penale di ciò che dice ha sciolto qualche lingua legata e a aperto qualche rubinetto di informazione rimasto chiuso.

La legislatura volge al termine, ma come si aspetta che prosegua in futuro l’attività d’inchiesta della Commissione?

Intanto a gennaio ci sarà l’approvazione della relazione finale. Abbiamo già predisposto due relazioni intermedie e la terza andrebbe a consegnare al Parlamento il testimone, definendo in maniera rigorosa le connotazioni del problema e dando dei suggerimenti su ciò che il Parlamento e il Governo che verranno dovrebbero fare.

Marcello Foa - come i dominanti creano fake news

Arriva la nuova edizione de “Gli stregoni della notizia”.- Per chi vuol capire come si manipolano i media


Marcello Foa
22 dicembre 2017

Alcuni di voi mi hanno scritto, preoccupati: “Cosa succede, Marcello; non scrivi più?”. Li ringrazio e li tranquillizzo: scrivo, scrivo … e nei prossimi giorni scriverò anche di più. La lieta novella è che, in un attimo di follia, ho accettato la richiesta dell’editore Guerini di pubblicare una versione aggiornata e ampliata del mio saggio “Gli stregoni della notizia”, che dal 2006 è diventato un classico per chi vuole capire le tecniche per orientare e manipolare i media. “Basta che tu scriva un capitolo iniziale e uno finale“, mi ha spronato Sandra Cossu, colonna storica della Guerini. E in fondo poteva anche avere ragione, perché le tesi di fondo sono state ampiamente confermate dall’attualità.

Ma in questi undici anni ho archiviato molto materiale e allora ho deciso di rivederlo capitolo per capitolo, cancellandone alcuni, riscrivendone altri e aggiungendone un paio alla fine. Come potrei non parlare di Renzi, di Macron, di Trump e, naturalmente, delle Fake News?

Così, con il consenso della mia splendida famiglia, impegnerò diverse mattinate delle mie vacanze natalizie, considerando che l’uscita è prevista per metà/fine marzo e che pertanto a metà gennaio dovrò consegnare le bozze. Ho già iniziato nel fine settimana, dedicando al saggio il tempo che di solito impiego per scrivere il blog. Ecco perché negli ultimi tempi sono apparsi meno post del solito. Mi scuso con voi, è solo una tregua ma – ne converrete – è per una giusta causa.

Tanti cari auguri a tutti voi per un sereno Natale!

Antonino Galloni - si può creare moneta fiduciaria, dal punto di vista tecnico, si tratta di una misura immediatamente applicabile, purché ci sia la volontà di applicarla. Lo Stato può emettere moneta sovrana o direttamente o tramite l’INPS, utilizzando la moneta elettronica (accredito sulla busta paga) o la busta paga cartacea”.

Stipendi mai così bassi, eppure si potrebbero dare aumenti sostanziosi riducendo il debito pubblico

- 22/12/2017

La busta paga di un docente della scuola pubblica

Mentre la trattativa sul rinnovo contrattuale si conferma viziata dalla mancanza di finanziamenti, tanto da mettere a rischio pure gli 85 euro di aumento pattuiti a fine novembre 2016, cresce il numero di docenti che si lamentano per la pochezza dell’incremento in arrivo in busta paga dal prossimo mese di gennaio. Anche perché andrebbe a foraggiare degli stipendi mai stati così bassi rispetto al costo della vita. Solo che se non ci sono i fondi necessari e il debito pubblico imperversa, come si fa ad incrementare in modo sostanzioso lo stipendio di oltre un milione di docenti e Ata della scuola?

A fornire una risposta interessante, decisamente fuori dal coro, è il Movimento Roosevelt per il rinnovo contrattuale, secondo cui alla scuola si possono assegnare stipendi adeguati riducendo pure il disavanzo pubblico.

“Il contratto della scuola – scrive il Dipartimento Istruzione e Formazione civica del Movimento Roosevelt – può essere rinnovato subito, con aumenti veri e sostanziosi, in grado di recuperare la grave perdita del potere di acquisto delle retribuzioni, ferme da 10 anni, senza gravare sul bilancio dello Stato, anzi, riducendo il disavanzo pubblico. La soluzione tecnica c’è, è percorribile immediatamente sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista tecnico e occorre solo la volontà politica di metterla in atto”.

L’economista: è tutto regolare

Ad entrare nel merito della proposta è l’economista di riferimento e vicepresidente del movimento, Antonino Galloni, secondo il quale rivendica, a questo scopo, l’emissione della “moneta sovrana, ovvero biglietti di Stato o buoni acquisto. Questi ultimi non vengono emessi a debito, ma potranno venir utilizzati in seguito dagli operatori che li accettano per pagare le tasse. L’emissione di biglietti di Stato o di buoni acquisto non è impedito dai trattati europei che regolano l’emissione di moneta europea (banconote e monete) avente corso legale in tutta l’Eurolandia”.

Galloni spiega anche i vantaggi fiscali della sua proposta: “I biglietti di Stato possono essere sia a corso legale nazionale – e sottolineo nazionale – sia semplicemente fiduciari. L’importante è che ci si possano pagare le tasse. La loro caratteristica è che non sono moneta a debito e che hanno lo stesso segno algebrico delle tasse, cioè il segno ‘+’, quindi fanno diminuire il disavanzo pubblico”.

L’idea, a dire il vero, non è originalissima. “Nel passato – ammette l’economista – si è sospesa l’emissione di questo tipo di moneta, perché gli Stati ne abusavano, con conseguenze gravissime sul piano della valutazione monetaria. Oggi, invece, è necessario ripristinare questa moneta sovrana non a debito, avente circolazione nazionale, per rilanciare la qualità della presenza pubblica nei servizi, di cui quello scolastico è uno dei più importanti”.

Una misura applicabile?

Galloni sostiene, infine, che dal punto di vista tecnico, si tratta di una misura immediatamente applicabile, purché ci sia la volontà di applicarla. Lo Stato può emettere moneta sovrana o direttamente o tramite l’INPS, utilizzando la moneta elettronica (accredito sulla busta paga) o la busta paga cartacea”.

Per sostenere se la proposta sia geniale oppure una boutade bisognerebbe interpellare un economista di esperienza. L’unica cosa certa che possiamo dire è che un Governo che tiene alla formazione dei suoi cittadini ha l’obbligo di escogitare sistemi straordinari. Anche a costo di emettere moneta “speciale”. Considerare gli insegnanti, alla pari o al di sotto degli altri lavoratori è una modalità di trattamento miope e inadeguata per un Paese moderno.
La proposta

Il Movimento Roosevelt è un movimento politico metapartitico di orientamento progressista, fondato sulla difesa dei diritti umani e sociali, della Costituzione (sfregiata e svuotata dai governi di centro-destra e di centro-sinistra, fino all’abominio dell’equilibrio di bilancio in Costituzione), della partecipazione democratica, di un’economia espansiva, keynesiana, della sovranità monetaria, di una ridiscussione dei trattati europei che hanno tradito l’ideale europeista autentico, di una inversione di rotta rispetto alla deriva neoliberista e neofeudale degli ultimi anni.
Il MR non correrà per le prossime elezioni politiche, ma sta producendo, grazie all’elevata qualità dei suoi iscritti, un programma articolato di riforme, fra le quali al primo posto una riforma della scuola (Introduzione programma ufficiale MR) che azzeri lo scempio delle finte riforme degli ultimi anni e restituisca alla scuola italiana il suo ruolo di organo costituzionale al servizio della democrazia, della formazione dei cittadini e dell’inclusività sociale. Nel laboratorio politico MR si confrontano cittadini di diversa provenienza culturale, ma unanimi nel porre al centro della politica la dignità umana, l’equità sociale ed economica e la democrazia sostanziale.
La proposta MR per il contratto della scuola è un contributo concreto che il Movimento vuole offrire alle forze politiche di governo per uscire dalla logica dissennata dei tagli alla scuola e della tassazione impropria e iniqua che viene applicata da anni al personale docente e non docente, al quale non viene riconosciuto il recupero salariale previsto dalla legge e dalla Costituzione e che sta perdendo di giorno in giorno potere d’acquisto e dignità. Il Ministro Fedeli ha più volte ribadito la necessità di valorizzare il lavoro dei docenti con una retribuzione più vicina alla media europea; ora ha la possibilità di farlo senza violare le regole di bilancio.
Va sottolineato il vantaggio complessivo della proposta per l’economia nazionale, perché accrescerebbe la capacità di spesa delle famiglie, aumentando i consumi e la moneta circolante, riducendo il disavanzo e costituendo un esperimento da applicare eventualmente ad altri settori della PA.
Se c’è la volontà politica, si potrà adottare subito. Altrimenti, il personale della scuola avrà qualche idea in più su chi non votare alle prossime elezioni.

Una verità condita da tante bugie. Dal 2007/08 non abbiamo recuperato competitività persa fin da quando abbiamo nei lontani anni '90 ingabbiato la nostra moneta in un cambio fisso che ha devastato con la crisi sopravvenuta la nostra economia a vantaggio della Germania. Da qui a cascata gli Npl regalati agli stranieri, l'impossibilità d'investimenti pubblici, l'obbligo a diminuire salari e reddito per tenere un minimo di passo con la concorrenza tedesca. Questo è stato permesso da una classe dirigente incapace e venduta

La politica e le tre partite vere sulle banche


Se la commissione d’inchiesta sulle banche non vorrà passare alla storia solo come il ring per un wrestling politico-finanziario a uso di vendette e contro-vendette tutte elettorali, dovrà tenere conto di almeno tre scenari emersi finora, ma sepolti dal rumore di fondo del match.

Il quadro economico. Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha affidato all’attenzione dei commissari due cifre, enunciate con lo stile asciutto della Casa: il nostro Pil oggi è ancora inferiore di 6 punti rispetto a quello pre-crisi del 2008, quello dell’Eurozona è invece sopra di almeno 7 punti. Ciò significa che l’Italia deve recuperare almeno 13 punti di competitività. Un’enormità. Che, se accoppiata al debito pubblico monstre, pesa molto agli occhi di Bruxelles (Ue) e di Francoforte (Bce). E che la situazione sia in rapido miglioramento non è ancora un alibi spendibile in quei consessi.

Gli Npl, i non performing loans, dell’Italia sono il vero frutto avvelenato della crisi e della perdita di un quarto della base produttiva del Paese: sono in via di smaltimento e, come ha detto ai commissari Ignazio Angeloni della Vigilanza Bce, «la ripresa economica offre una finestra di opportunità, di durata incerta, per completare il necessario risanamento più facilmente e mettersi alle spalle il problema». Tradotto: per l’Italia si prospetta ancora una fase contraddittoria di credit crunch (con le banche costrette a cedere le sofferenze a terzi svalutandone il valore a bilancio) nel momento in cui sarebbe necessario puntare tutto sugli investimenti: per quelli privati, le banche selezionano ancora di più il credito alle imprese e per quelli pubblici, vero anello mancante da anni, pesa il vincolo del debito pubblico.

Un «sentiero stretto», per usare la metafora del ministro Pier Carlo Padoan, che l’assalto alla diligenza fatto alla Camera sulla legge di bilancio sembra proprio aver ignorato. E se questo è il prologo, la campagna elettorale non promette niente di buono.

Il quadro regolatorio internazionale. La debolezza della lobby italiana nelle sedi dove sono state decise le “regole del gioco” per gli standard delle banche è evidente. L’ha ammessa Visco anche se in modo indiretto: «Numerose scelte tecniche assunte in sede europea sono state condizionate dall’orientamento di Paesi che erano intervenuti massicciamente con fondi pubblici per sostenere i sistemi bancari duramente colpiti dalla crisi finanziaria globale». In sintesi: una volta sistemate le partite in casa propria con fondi pubblici, Germania, Regno Unito, Spagna e Francia hanno imposto il metodo del bail-in ai Paesi meno influenti, Italia compresa: pagano gli azionisti e se c’è intervento pubblico diventa aiuto di Stato. E qui è Giuseppe Vegas, presidente della Consob, a rendere esplicito cosa è accaduto: «Le modalità concrete di attuazione del bail-in hanno introdotto elementi fortemente distorsivi per il nostro sistema finanziario. In particolare la normativa è stata applicata con effetto retroattivo». Così «dalla sera alla mattina… con un tratto di penna» strumenti finanziari come le obbligazioni subordinate sono diventati prodotti «rischiosi e inadeguati», pur essendo stati emessi anni prima con regole e in contesti del tutto diversi. Nemmeno il tentativo di creare una bad bank ha avuto successo e l’Italia si è trovata ancora una volta imbelle in Europa. Così come è in minoranza oggi nel sostenere l’urgenza del completamento dell’Unione bancaria con la garanzia unica dei depositi, senza rincorrere l’ossessione della pesatura del rischio sovrano in capo alle banche. L’Italia ha subìto il bail-in, è evidente. E la nota di Visco, che ancora una volta ribadisce alla classe politica il suo “noi ve l’avevamo detto”, lo conferma, anche se probabilmente pecca nell’autoassolversi. E anche Angeloni ha ribadito indirettamente l’orientamento sfavorevole all’Italia predominante nelle sedi internazionali: faro acceso sugli Npl e meno sugli asset illiquidi e sui derivati detenuti in grande quantità dalle banche di altri Stati. Orientamento che la Bce sta continuando a mantenere anche nell’Addendum in discussione per definire le «aspettative di vigilanza», una sorta di forward guidance come si fa per la definizione degli obiettivi di politica monetaria.

È bene che l’Italia tenga i sensori attivati e tragga giovamento dalla vecchia lezione. Sono in discussione i nuovi assetti internazionali di vigilanza e presto verranno decise le nuove regole per il cosiddetto Fintech, «una sfida e un’opportunità» secondo le parole dello stesso Visco in commissione. I numeri sono ancora piccoli, come dimostra una ricerca della Banca d’Italia pubblicata ieri, ma il 75% delle banche prevede di investire nel settore. Presto l’Europa (se non il mondo) sarà chiamata a definire i nuovi standard per l’uso di queste tecnologie di disintermediazione e anche questa volta la Germania sta già creando una rete informale in diversi Stati dell’Eurozona e quando sarà il momento di fissare le regole farà valere la sua massa d’urto e il suo peso strategico. Esattamente come ha fatto per la messa a punto delle regole sui salvataggi bancari. Su questo terreno l’Italia sembra ancora molto ai margini della partita. Ed è bene che i commissari – quindi la politica – ne tengano conto.

Il quadro di vigilanza interno. La disputa un po’ scolastica tra stabilità (in capo a Bce e Banca d’Italia) e trasparenza (in capo a Esma e Consob) è tornata di attualità quando in commissione si è assistito a uno scaricabarile tra le due istituzioni su più di un punto. Sono 19 le autorità che, ai vari livelli internazionali e nazionali, hanno voce in capitolo in tema di vigilanza sulle banche. Un sistema messo in discussione in sede europea e destinato a rapida razionalizzazione in seguito alla scelta della Vigilanza unica. La pletora di soggetti fa ritardare i tempi di intervento e oggi la rapidità decisionale è tutto. Ed è probabile che la razionalizzazione tra Eba (l’autorità europea sulla regolazione bancaria), Esma (l’autorità europea sulla trasparenza del mercato), Eiopa (l’autorità europea per assicurazioni e fondi pensioni) e la stessa Vigilanza Bce richieda una interlocuzione nazionale modellata sullo stesso schema. Vegas, che lamenta lo sbilanciamento del modello italiano a favore della stabilità e a detrimento della trasparenza, ripropone l’architettura vigente in Francia, Germania e Regno Unito come riferimenti possibili. Visco ammette che si può fare di più per migliorare i canali di comunicazione e che sono in corso lavori per la revisione degli attuali protocolli. L’equilibrio tra le due authority è tema centrale in questa stagione di presa di coscienza della questione bancaria e del ruolo della vigilanza. Su questo tema i commissari – e la politica – dovranno battere un colpo. Astenersi demagoghi e perditempo.

Snam Sulmona - come da copione durante le ferie, in questo caso durante le feste, quando la gente è distratta i governanti disonesti prendono le loro decisioni contro di loro

Sabato, 23 Dicembre 2017 02:18

Metanodotto Snam, da governo via libera a centrale di compressione di Sulmona. Gerosolimo: "Atto vile". Mazzocca: "Regione farà ricorso"




Proprio nel giorno in cui a Sulmona si è svolto l'incontro No Tap e No Snam, il Governo, in quello che è forse è stato l'ultimo consiglio dei ministri della legislatura, ha approvato un provvedimento che dà il via libera alla costruzione della centrale di compressione della Snam a Sulmona.

"Una notizia" scrive il quotidiano on-line della Valle Peligna Il Germe "che lascia basiti quanti, comitati in testa, hanno portato avanti la battaglia, soprattutto nei modi e nei tempi: perché il via libera del governo sull’opera arriva a scadenza di mandato, a pochi giorni dallo scioglimento delle Camere, e soprattutto prima che sia stato definito l’iter autorizzativo del metanodotto che, a questo punto, si trova un’autostrada aperta per la prossima approvazione".

La centrale di compressione, infatti, è parte integrante del progetto per il gasdotto, la cui procedura autorizzativa si era bloccata due anni fa. E' probabile, dunque, che il voto del governo sia solo il primo passo per concedere il via libera definitivo alla realizzazione dell'intero metanodotto, opera fortemente osteggiata sia dai territori che dalla Regione Abruzzo poiché ritenuta pericolosa in quanto ricadente in zona sismica.

"Ritengo tale atto di una gravità e viltà senza precedenti. Per di più compiuto a poche ore dalla fine della legislatura e proprio quando più nessuno di noi se lo aspettava. Personalmente nelle prossime ore avvierò una profonda riflessione perché la nostra terra viene prima di ogni cosa" ha scritto sul proprio profilo Facebook Andrea Gerosolimo, assessore regionale originario proprio della Valle Peligna.

Il sottosegretario alla presidenza regionale Mario Mazzocca annuncia che si farà promotore, nella prossima riunione della giunta, di un ricorso per impugnare l'atto approvato dal governo.

"Il recentissimo atto governativo" afferma Mazzocca "si sostanzia nella condivisione dei pareri favorevoli nel procedimento autorizzativo invocando il preminente interesse strategico nazionale dell'opera; fra questi pareri vi è il Decreto di Compatibilità Ambientale rimesso dal Ministero dell'Ambiente il 27 marzo 2011 (la Regione Abruzzo, assente in detta ed in altre pregresse occasioni, non espresse parere alcuno). La scelta ubicazionale del governo, per altro interessante un'area ad alto rischio sismico e ad elevato valore ambientale, negli ultimi tre anni è stata costantemente e competentemente osteggiata e respinta dalla Regione Abruzzo in tutte le forme possibili. La battaglia, pertanto, continua, per ora al TAR Lazio (sulla centrale di compressione), successivamente (in ordine al 4' tratto di metanodotto) nelle sedi deputate, ribadendo i paletti che riteniamo difficilmente sormontabili in ordine alla mancata osservanza di disposizioni legislative da tempo vigenti e relative al tema degli "usi civici".

Pezzopane: "Continuo a essere contraria. E non mollo la battaglia"

"Continuo ad essere contraria. E non mollo la battaglia. Il clima natalizio non ha purtroppo impedito che dal Consiglio dei Ministri di ieri venisse fuori una notizia davvero preoccupante. È stato infatti dato l'ok al progetto per la centrale di compressione a gas Snam nel comune di Sulmona invocando il 'preminente interesse nazionale' dell'opera. Questa scelta del CdM è avvenuta in aperta contraddizione con la volontà della regione Abruzzo, ribadita anche ieri dal vicepresidente Giovanni Lolli, presente alla riunione. Voglio rimarcare per l'ennesima volta che l'area individuata per l'impianto ricade in zona ad alto rischio sismico e che proprio dalla commissione Grandi Rischi essa viene considerata come un'area in cui potrebbero accadere eventi sismici di portata rilevante. Il Governo ci ripensi, considerando che la Regione già in queste ore sta predisponendo ogni iniziativa anche legale per scongiurare il progetto. In particolare, si valutino altre possibilità, sia come area, sia come impianto. Proprio non ci voleva, considerando che questi sono stati giorni molto positivi per l'Abruzzo, visto i numerosi importanti risultati contenuti nel decreto fiscale, nella legge di bilancio e, proprio ieri, con l'approvazione della legge del bimillenario di Ovidio".

Lo dichiara la senatrice del Pd Stefania Pezzopane.

Mauro Bottarelli - le prospettive europee verso l'alta tensione, la primavera incombe

SPY FINANZA/ Estexit, il nuovo rischio per Bruxelles

Il risultato delle elezioni catalane, con l'indebolimento di Rajoy, rappresenta solamente uno dei tanti problemi che l'Ue si trova ad affrontare in questo periodo. MAURO BOTTARELLI

23 DICEMBRE 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Chi ha vinto le elezioni catalane? Gli indipendentisti con la loro maggioranza assoluta o Ciudadanos, divenuto primo partito della regione? Paradossalmente, ciò che conta è chi ha perso. E qui non vi sono dubbi: Mariano Rajoy. Al netto del risultato del suo Partido popular, ridotto ulteriormente ai minimi termini dal risultato delle urne, è stato l'intero impianto della gestione del caso Catalogna a essere stato respinto dagli elettori, i quali hanno infatti scelto l'opzione Ciudadanos per mandare un segnale unionista al voto: il 52% dei catalani, infatti, non vuole l'indipendenza e per dimostrare il suo legame politico e statuale con Madrid non ha scelto il partito del premier. Più chiaro di così, appare difficile esprimersi. 

Certo, Rajoy ha pagato gli eccessi della Guardia Civil nei seggi il 1 ottobre, l'azzardo dell'articolo 155 attivato per la prima volta nella storia, l'incarcerazione di tutto il governo catalano, ma la conferenza stampa che ha tenuto ieri è parsa una resa, più che una presa d'atto, il cupio dissolvi di un leader a metà che ora avrà come primo problema la resa dei conti all'interno del partito, più che la mediazione con Barcellona. La quale, dal canto suo, difficilmente potrà proseguire sulla strada oltranzista scelta da Carlos Puigdemont, non fosse altro per i segnali che giungono dall'economia: toccherà mediare e non sarà un processo facile. Ma, onestà per onestà, la Catalogna non è un problema, perché come anticipato il voto di giovedì è stato di fatto un proxy, uno stress test del terzo voto politico in meno di un anno che temo la Spagna dovrà affrontare la prossima primavera, stante l'equilibrio precario della maggioranza di Rajoy, di fatto retta finora dai socialisti proprio in virtù dell'emergenza nazionale scaturita dal referendum catalano del 1 ottobre. 

L'appoggio proseguirà o si coglierà la palla al balzo per togliere lo sgabello da sotto i piedi di un Rajoy in attesa di impiccagione politica? A quel punto, se sarà davvero di nuovo crisi di governo e ritorno alle urne, i mercati potrebbero non restare relativamente calmi come hanno fatto ieri, non fosse altro per la quasi certa concomitanza del voto iberico con quello italiano, anch'esso non certamente destinato a svolgersi in un clima di serenità, come ci ha mostrato il diluvio di fango fuoriuscito dalla Commissione d'inchiesta sulle banche. E primavera sarà anche tempo di rese dei conti economiche, perché si capirà il destino reale del Qe, ma, soprattutto, quello dell'addendum sugli Npl, partendo dal presupposto che per allora la Germania avrà un governo e la priorità sarà divenuta la successione di Mario Draghi alla guida della Bce, atto tutt'altro che formale e che già oggi ci regala una certezza: dopo la stagione dell'espansionismo monetario, toccherà a quella di un falco del rigore. Sia esso Jens Weidmann o meno. E per noi non saranno ore liete, chiunque esca vincitore dalle urne, al netto di una legge elettorale nata apposta per non averne. 

Insomma, un potenziale flashpoint politico-economico pronto a svilupparsi nei due Paesi più importanti del cosiddetto Club Med. A cui, però, rischia di unirsi un accelerante all'incendio doloso potenziale: la questione polacca, di fatto punto di equilibrio o di rottura con i Paesi dell'Est, il cosiddetto Gruppo di Visegrad. Non fosse bastata la disputa sulle quote di ripartizione dei migranti, infatti, fra Varsavia e Bruxelles è esploso il caso del cosiddetto articolo 7, ovvero la decisione dell'Unione europea di attivare un processo pre-sanzionatorio verso il governo polacco per le sue presunte violazioni dei valori europei, in primis la riforma della giustizia che eliminerebbe il principio di autonomia della magistratura e la confinerebbe totalmente sotto il controllo dell'esecutivo. In caso Varsavia non ponga rimedio entro tre mesi, l'Unione potrebbe quindi attivare l'articolo 7, applicando sanzioni contro il Paese, fino alla sospensione dal diritto di voto in sede comunitaria. 

E qui casca l'asino. Se infatti il processo pre-sanzionatorio necessita dei due terzi dei voti per essere deciso, la sua implementazione necessità l'unanimità e proprio ieri il premier ungherese, Viktor Orban, ha detto ufficialmente che si opporrà a qualsiasi decisione punitiva verso Varsavia. Di fatto, opzione già neutralizzata in fieri. Di più, nonostante la diffida di Bruxelles, il governo polacco è andato avanti come un treno con l'iter di approvazione della legge contestata, aprendo un fronte diretto di scontro con le autorità europee. Certo, ora ci sono tre mesi per discutere e mediare, ma i sondaggi parlano chiaro: i cittadini polacchi, per la maggior parte, stanno con il governo e l'appeal dell'Ue nel Paese sta precipitando nei consensi. 

Siamo di fronte a un potenziale Estexit dall'Unione, di fatto la pietra tombale? Qualche presupposto serio esiste, inutile negarlo. E l'Ue si fa forte di un unico elemento qualificante: il fatto che uno dei suoi uomini più potenti e rappresentativi, il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, sia polacco, quindi destinato al ruolo di mediatore naturale per evitare lo strappo. Ma lo scambio di cortesie fra quest'ultimo e Jean-Claude Juncker non più tardi della settimana scorsa sul tema dei migranti potrebbe non essere affatto un gioco della parti, ma la spia di un malessere che cova sempre più profondo. Unite a questo il fatto che, stranamente, l'intero blocco Est dei Paesi europei giovedì si sia astenuto nel voto su Gerusalemme capitale di Israele all'Onu, di fatto chiamandosi fuori dalla sfida pressoché globale agli Usa e alla loro politica internazionale e qualche dubbio sorge, perché potrebbe sostanziarsi nella scelta strategica di ricerca di un alleato forte in caso di rottura con Bruxelles. E gli Stati Uniti non vedono l'ora di poter mettere becco nell'ex Unione Sovietica, restituendo al tempo stesso lo sgarbo all'Ue

Ci aspetta una primavera davvero scoppiettante. Altro che Catalogna.

Banca Etruria - diventa il pomo della discordia dei dilettanti allo sbaraglio


Banca Etruria, il silenzio di Lotti sul caso Carrai-Boschi

Nel Giglio Magico renziano il ministro dello Sport continua a mantenersi defilato. E tace sia su "Marchino" sia sulla sottosegretaria. Così le voci di attriti coi due si fanno sempre più insistenti.

22 dicembre 2017

C'è chi sostiene che in fasi complesse come questa, con una commissione banche infuocata e le opposizioni in subbuglio, sia difficile capire quali siano i rapporti interni al Giglio magico di Matteo Renzi. In particolare, non è dato conoscere con certezza quelli tra Luca Lotti e Maria Elena Boschi, rispettivamente ministro dello Sport e sottosegretario alla presidenza del Consiglio, da tempo considerati dalla stampa i più rissosi tra gli esponenti dello zoccolo duro del renzismo. Sarà perchè hanno visioni differenti su come fare politica - il primo è più defilato rispetto alla seconda - o sarà perchè la seconda ha preso il posto del primo sotto il governo Paolo Gentiloni. Saranno vari ingredienti, forse anche il finale di legislatura, ma da mesi i giornali raccontano di come tra i due non corra buon sangue. In questi giorni, le voci sono ancora più insistenti, perché Lotti è tra i pochi del Giglio magico a non commentare o a prendere posizione a difesa né di Maria Elena né di Marco Carrai, quest'ultimo tirato in ballo da Federici Ghizzoni per dei non del tutto chiariti solleciti su Etruria.

TIRA UNA BRUTTA ARIA NEL RENZISMO. Lo scontro tra il Lampadina e la Mary è un storia che va avanti ormai da anni. E che si somma pure a quello tra Lotti stesso e Carrai, tanto che il nostro Occhio di Lince citò l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio come colui che fece partire un pizzino sul caso Mps contro quello che doveva diventare lo 007 per la cybersecurity di Palazzo Chigi. Tensioni e incomprensioni che invece vengono smentite da altre fonti, le quali sostengono che tutti si aiutano come si può in una fase così difficile. Eppure qualcosa non quadra in questi ultimi giorni di legislatura. Lo stesso renziano di ferro Angelo Rughetti, molto vicino al ministro Graziano Delrio, ha consegnato al Giornale, in un pezzo a firma Yoda, un commento non allineato con quello del segretario: «Corriamo verso il suicidio. Dilettanti allo sbaraglio. Dovevamo mettere al centro Bankitalia o Mps. Invece, c'è finito in mezzo il Giglio magico». È un commento che fa il paio con il video di Matteo Richetti, poi smentito, dove l'uomo comunicazione di Renzi critica alcune mosse dell'ex premier. In sostanza, tira una brutta aria tra le fila del renzismo. In parlamento c'è chi sostiene che Lotti ormai faccia partita a sé, si dedichi solo allo Sport e agli incontri istituzionali, l'unica cosa che gli interessa. O anche che sia lui, insieme proprio a Delrio, a spingere affinchè Boschi non sia ricandidata.

UN SILENZIO CHE FA RUMORE. Il silenzio di uno degli uomini più fidati dell'ex premier fa rumore. E diventa ancora più importante in una fase in cui il renzismo è sotto schiaffo dell'establishment bancario italiano e vede sondaggi che danno il Partito Democratico in picchiata. Un mese fa Boschi e Lotti pubblicarono una foto insieme su Instagram per respingere i rumors. Erano i giorni in cui si spargeva la voce che i due litigassero non solo sui collegi dove correre alle elezioni e sui propri candidati, ma anche sugli spazi da ritagliarsi su Democratica, il giornale piddino rimasto dopo la chiusura de L'Unità. È una “guerra dei petali” che rischia di far appassire definitivamente il Giglio magico, che fino al 4 dicembre dello scorso anno aveva portato così bene non tanto al Partito Democratico quanto al blocco di potere renziano. Del resto, le prime crepe già si intravedevano prima del referendum costituzionale, quando le opposte visioni sulla partita avevano messo in crisi il rapporto tra due esponenti storici del Giglio. Non solo. Dopo quel maledetto 4 dicembre la scelta di campo dello stesso Renzi è stata tutta in favore di Boschi, e la conferma è arrivata a marzo di quest'anno.

Lotti pagò allora la vicinanza a Denis Verdini, il leader di Ala condannato in primo grado a 9 anni per il crac del Credito Fiorentino, un'allenza su cui poggiava il patto del Nazareno con Berlusconi, poi naufragato. E se tre anni fa fu lui a gestire il delicato dossier sulle nomine nelle partecipate, da Leonardo-Finmeccanica a Eni, nelle settimane dei rinnovi cruciali a Palazzo Chigi lavorarono al dossier Luca Bader, storico consigliere del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni sin dai tempi del ministero degli Esteri, e la stessa Boschi. Dietro ci sono le ombre del caso Consip dove il ministro dello Sport è indagato per rivelazione del segreto d'ufficio e favoreggiamento per aver riferito dell'esistenza dell'indagine. La sua è una posizione delicata e appesa alle decisioni della procura di Roma che si trova a vagliare posizioni discordanti e ritrattazioni. Il grande accusatore del ministro rimane l'ex amministratore delegato della centrale acquisti della Pubblica amministrazione Luigi Marroni che ha raccontato ai pm di Roma di come sia stato Lotti a riferirgli dell'inchiesta in corso. Una versione confermata ai pm di Napoli il 20 dicembre 2016, quando Marroni dichiarò che fu Lotti a dargli notizia di «operazioni di intercettazioni telefoniche e anche ambientali, mettendomi in guardia», così come fece anche il presidente di Consip Luigi Ferrara

I QUESITI INSOLUTI DEL CASO CONSIP. Dall'altra parte ci sono le versioni contrastanti di Filippo Vannoni, presidente della partecipata del Comune di Firenze Publiacqua, feudo renziano dove la stessa Boschi ebbe una poltrona dal 2009 al 2013. Il 21 dicembre 2016 Vannoni sostenne a verbale davanti al pm di Napoli Henry John Woodcock di essere stato informato dell'inchiesta Consip anche da Lotti, salvo poi ritrattare a luglio dicendo di aver tirato in mezzo il ministro dello Sport «per levarmi dalla situazione», cioè dall'interrogatorio davanti a Woodcock. Rispondendo a una domanda del suo avvocato nel corso dell'interrogatorio romano a luglio ha ribadito: «Lotti non mi ha detto di intercettazioni su Consip». E più avanti ha affermato di non conoscere «il generale Emanuele Saltalamacchia e neanche Luigi Ferrara», ovvero gli altri due indagati per la fuga di notizie insieme al ministro dello Sport. Dunque rimane da capire da chi avesse appreso dell'esistenza dell'inchiesta sulla centrale acquisti della Pubblica amministrazione. Quesiti insoluti che probabilmente verranno affrontati nel corso del dibattimento.

QUALCUNO HA MENTITO. La possibilità dunque è che i pm chiedano il rinvio a giudizio per tutti gli implicati per poi chiarire le posizioni a processo, anche perché Lotti tra i due interrogatori di Vannoni ha raccontato ai pm romani, come ha riportato Il Fatto Quotidiano, che lo stesso 21 dicembre dopo l'interrogatorio il presidente di Publiacqua si è presentato negli uffici di Largo Chigi dicendo di aver mentito sulla posizione del ministro. Insomma, uno dei due non aveva detto la verità, e la toppa di Vannoni in seguito ha convinto poco gli inquirenti.

venerdì 22 dicembre 2017

Il comportamento di Amazon inaccettabile e poi...

20 dicembre 2017
Amazon, sciopero a Piacenza dopo la rottura delle trattative

L'azienda non si presenta al tavolo: i sindacati hanno chiamato il questore. La dirigenza: «Troppa pressione».

News dalla Redazione

Dopo lo sciopero del black friday quello, più ridotto, due ore a fine turno, dei pacchi di Natale. È ancora scontro al magazzino di Castel San Giovanni (Piacenza) di Amazon, dopo che il colosso dell'e-commerce non si è presentato all'incontro, già rimandato due volte, convocato in mattinata in Prefettura a Piacenza. I sindacati (Cgil, Cisl, Uil e Ugl) hanno risposto proclamando uno sciopero immediato. Tensione, però, c'è stata anche subito dopo l'incontro andato a vuoto, quando i sindacalisti hanno denunciato il tentativo dell'azienda di non farli entrare per le assemblee con i lavoratori, già programmate.

I SINDACATI CHIAMANO IL QUESTORE. Motivo per il quale i sindacati hanno chiesto aiuto alle forze dell'ordine. «Dopo che Amazon non si è presentata in prefettura», ha detto Fiorenzo Molinari segretario della Filcams-Cgil di Piacenza, «non voleva far entrare i sindacati in azienda per svolgere assemblee già concordate e previste a partire alle 11,30 di questa mattina. È stato necessario l'intervento del questore e dei carabinieri per far valere la legge. È grazie alle forze dell'ordine che ci hanno accompagnato dentro l'azienda se siamo riusciti ad incontrare in assemblea i lavoratori, per questo ringraziamo il questore di Piacenza e i carabinieri. Di fatto Amazon dimostra di voler giocare in un campo senza regole in cui l'unica legge che vige è quella del più forte».

«TROPPE PRESSIONI». L'incontro era previsto per le 8.30: sarebbe servito per cercare una mediazione dopo le proteste che da settimane vanno avanti in Amazon e culminate con lo sciopero del black friday, giornata di super lavoro per il massiccio afflusso di ordini, con la richiesta di nuove condizioni contrattuali e di lavoro nello stabilimento. «Troppa pressione», hanno fatto sapere al prefetto i dirigenti Amazon, probabilmente anche per l'annunciata presenza di un presidio di lavoratori davanti alla Prefettura, che però è stato annullato. In seguito l'azienda si è dimostrata disponibile a incontrare il prefetto in separata sede. Secondo fonti sindacali, la strategia del colosso americano dell'e-commerce è quello di rimandare il confronto a dopo Natale, facendo così trascorrere il periodo nel quale il lavoro nello stabilimento piacentino è più intenso: per far fronte a tutti gli ordini si ricorre infatti a oltre duemila lavoratori interinali che si aggiungono ai circa 1.600 dipendenti a tempo indeterminato.

IL GOVERNO: «INACCETTABILE». Della questione si interesserà il governo. Il sottosegretario alla presidenza del consiglio, la piacentina Paola De Micheli, ha definito «inaccettabile» il comportamento di Amazon. «Sugli ultimi sviluppi della situazione», ha detto, «ho aggiornato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e insieme al Governo ci riserviamo di valutare eventuali nuove iniziative da prendere per ricondurre la vicenda sui binari del confronto rispettoso delle istituzioni e del dialogo fra le parti».

La casa editrice si oppone, a buon ragione, ad Amazon che toglie qualsiasi margine di profitto portandola alla morte

E/O DICE NO AD AMAZON


DIC
21

Ecco il comunicato stampa di Sandro Ferri e Sandra Ozzola, fondatori delle Edizioni E/O:

“Da anni ormai Amazon è diventato il più grande negozio on-line di libri (e non solo) nel mondo. Ovunque tende al monopolio e in alcuni paesi già controlla la maggior parte del mercato. Ha creato occupazione, ma ha costretto alla chiusura tantissime librerie (con conseguente perdita di posti di lavoro). Numerose testimonianze giornalistiche documentano le cattive condizioni di lavoro nei magazzini del colosso on-line. Attualmente è in corso un’agitazione sindacale nel magazzino di Piacenza a causa delle condizioni di lavoro che i sindacati definiscono “insostenibili” e Amazon non si è neppure presentata all’incontro di mediazione convocato in Prefettura. La chiusura delle librerie causata dalla concorrenza spietata di Amazon significa anche impoverimento economico e culturale del territorio: vengono a mancare essenziali luoghi di ritrovo e di cultura. Molti consumatori però accettano Amazon per i suoi prezzi (in genere più scontati quando le leggi nazionali lo consentono) e per l’efficienza. Abbiamo visto con quali conseguenze per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti e per l’impoverimento del territorio, Amazon riesce a ottenere questa efficienza.

I suoi prezzi spesso vantaggiosi sono il risultato di una politica che a volte è arrivata ai limiti del dumping (vendere a prezzo minore o pari a quello d’acquisto dai fornitori); di una frequente elusione delle tasse (nell’ottobre 2017 Amazon è stata condannata dalla Commissione Europea a pagare alla UE 250 milioni di tasse non versate; “¾ dei suoi profitti non sono stati tassati”, ha denunciato la Commissione); di condizioni economiche inaccettabili richieste agli editori. Noi siamo appena stati oggetto di tali richieste. Ci è stato richiesto uno sconto (quello che gli editori pagano ai distributori e alle librerie come loro “quota” del ricavo finale) a loro favore troppo gravoso per noi e neppure giustificato dal volume dei loro affari con la casa editrice. Di fronte al nostro rifiuto, Amazon ha sospeso l’acquisto di tutti i nostri libri e ha reso quelli che aveva in magazzino. (Attualmente sul loro sito i libri E/O cartacei sono in vendita solo attraverso soggetti terzi, quindi a condizioni più sfavorevoli per tempi di consegna e per costi di spedizione addebitati al cliente).

A questo punto i consumatori potrebbero dire che si tratta di negoziazioni tra imprese e che a loro interessa solo avere un buon prezzo e un servizio efficiente. Il nostro punto di vista è che siamo in presenza di un’azienda che tende pericolosamente e con parziale successo ad avere una posizione dominante nel mercato del libro, sicuramente per quanto riguarda il settore dell’e-commerce. Quindi non un’azienda qualsiasi, ma QUELLA che potrebbe in futuro essere l’unica (o quasi) venditrice di libri. È evidente che il pericolo per la libertà di espressione è reale, costante e quotidiano. Inoltre le case editrici hanno bisogno di margini economici sufficienti per investire nella ricerca di nuovi autori e di nuove proposte. Se questi margini vengono troppo erosi, le case editrici rischiano di sparire (assieme alle librerie, agli autori e a tutto il mondo del libro).

Per questo abbiamo detto NO. Per questo chiediamo il vostro sostegno di lettori, di cittadini che non possono ridursi a essere solamente consumatori ma sono consapevoli di essere anche parte di un territorio (che non può essere desertificato), lavoratori e soggetti degni e liberi di una comunità plurale”.

“Negli Stati Uniti, la realtà non ha più importanza”

Sgretolmenti irresistibili dell’Ordine Mondiale ed eurocratico.

Maurizio Blondet 22 dicembre 2017 

Poche ore, e l’ordine globalista, unilateralista è cambiato, quello eurocratico-atlantico è sgretolato tutto d’un colpo.

In Catalogna, i separatisti vincono la maggioranza. E’ cominciata una frammentazione irreversibile non solo della Spagna (non si potrà formare un governo per mesi), ma dell’Europa che cova i suoi secessionismi e particolarismi: fremono già la Corsica, la Scozia, perché no il Sudtirolo o il Donbass o la Sardegna — e se un voto ha legittimato una secessione, perché non vale anche per la Crimea?

La Polonia scavalca la UE e stringe accordi militari con la Gran Bretagna. Ciò, nonostante l’ordine eurocratico (dunque di Merkel) che tutti i rapporti con Londra fossero negoziati direttamente da Bruxelles nel quadro del Brexit e non unilateralmente da stato a stato. Ma Varsavia vuole meno Europa e più NATO: la sua insubordinazione mette fine alla finzione che UE e NATO siano la stessa cosa.

Il nuovo primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e il premier britannico Theresa May il 21.12.2017 a Varsavia. (Foto: dpa)

In Austria, il nuovo governo si propone un taglio massiccio dei benefici ai richiedenti asilo, particolarmente dando solo più benefici in natura (oggi ricevono prestazioni in denaro, 840 euro mese) e nessun alloggio individuale, identificazione accurata di coloro che non hanno dato una chiara identità, attraverso “la lettura o il ripristino dei dati del telefono cellulare e altri mezzi di comunicazione come i social media, per ricostruire l’itinerario” del sedicente richiedente asilo. E rimpatrio rigoroso per quelli che non vengono da paesi in guerra. Se l’Austria si unisce al Gruppo di Visegrad, darà al blocco dell’Est una forza reale e simbolica impossibile da contornare e con ciò ai sovranisti del resto d’Europa, che l’eurocrazia aveva “sconfitto”.

Notevole che ciò avvenga mentre la Germania è in catalessi politica, assente, non ha nulla da dire perché non ha un governo – come non lo avrà la Spagna , e da marzo nemmeno l’Italia: è la frammentazione estrema delle opinioni pubbliche conseguente all’individualismo liberista come pensiero unico economicista e consumista: che ha liberato l’uomo occidentale di ogni forma di identità collettiva: religione, valori tradizionali, la gerarchia, la coscienza nazionale, per cui ognuno sceglie la propria religione, la propria nazione, e oggi il proprio sesso”. Per quale motivo allora “stare insieme” se conviene “ognuno per sé”? I puri interessi non uniscono mai, dividono.

All’Onu, gli Usa sono rimasti per la prima volta isolati sulla questione di Gerusalemme capitale ebraica. Hanno ricevuto uno schiaffo in piena faccia da 128 paesi, e sono rimasti a votare con Sion e alcune isole della Micronesia.

Verdi i voti contro Usrael

Il voto all’Onu contro Washington e Tel Aviv è un fallimento politico senza precedenti: persino la Gran Bretagna non ha votato secondo i desideri di Trump, persino l’Italia e la Germania. Il Canada s’è astenuto. E ciò, nonostante Nikki Haley, la sciagurata ambasciatrice all’ONU, sia scesa ai livelli più infimi della bassezza minacciandomi segno i nomi” di quelli che non voteranno come voglio io, e il taglio degli aiuti americani ai paesi disobbedienti. “Voglio che sappiate che il presidente e gli Stati Uniti prendono questo voto personalmente”, ha annunciato: “Il presidente osserverà questo voto con molta attenzione …e ha richiesto che io gli riferisca su quei paesi che voteranno contro di noi”.

Nikki Haley: “Mi segno i nomi!”

La sciagurata Niki è così riuscita a porre le basi per aggravare il fallimento diplomatico: mostrando ciò che sarebbe meglio dissimulare più a lungo, che la Superpotenza non fa più paura al resto del mondo, e i suoi ruggiti sono quelli della tigre di carta. Una Casa Bianca ragionevole dovrebbe sostituire al più presto la fanatica incapace dannosa per la nazione. Invece Trump ha sostenuto la Nikki rincarando la minaccia: “Questi ci prendono centinaia di milioni di dollari, anche miliardi, e poi ci votano contro. Che votino contro di noi, e noi risparmieremo un sacco. Che ci frega”.

E la Haley che, appena subìto il disastro, ha rincarato: “Noi ci ricorderemo quando ci si chiederà ancora una volta di versare il più importante contributo alle Nazioni Unite. E ce ne ricorderemo quando numerosi paesi verranno a chiederci, come fanno tanto spesso, di pagare di più e di impiegare la nostra influenza a loro vantaggio”.

Che dire? Sembra che la lobby israeliana abbia portato gli Usa allo scacco. Sembra la crisi del ”diritto talmudico” internazionale basato sul delirio di onnipotenza israelo-americano, che possiede l’America dall’11 Settembre e dal mega-false flag criminoso. Il diritto talmudico poggia sull’ideologia o teologia che il popolo eletto essendo l’unica umanità, e gli Usa la sola “nazione necessaria” (come ripetuto molto da Obama), essi dettano la legge ai goym e ai noachici che sono animali parlanti. Applicano le leggi americane (ebraiche) al pianeta.

Lo ha ben notato Dimitri Orlov, vedendo nelle decisioni di Trump “un insieme di tratti che non sono specificamente suoi ma più generalmente americani [ebraici] e vengono sempre più esibiti via via che gli Stati Uniti entrano nella fase terminale della degenerazione.

Premessa: lo status di Gerusalemme come corpo separato perché sacro alle tre religioni è “riconosciuto in diritto internazionale e de jure”, nonostante la città sia illegalmente occupata “de facto” da Israele dal 1967. La decisione unilaterale di Sion di farne propria capitale è stata condannata dalla risoluzione 478 del Consiglio di Sicurezza (dunque anche dagli Usa) del 1980.

Il primo tratto generale della Superpotenza in degenerazione è “che il diritto internazionale è ignorato, come fanno generalmente gli Stati Uniti. In forza di quale autorità giuridica le truppe americane sono piazzate sul territorio siriano, che è il territorio di una nazione sovrana membro dell’ONU? Nessuna”.

Avevano giurato a Gorbachev: “Mai allargheremo la NATO”.

Ben più grave: come risulta da documenti recentemente scoperti, nel 1990-91, il presidente Bush padre promise a Gorbachev che la NATO non si sarebbe mai allargata ad Est inglobando i paesi dell’ex Patto di Varsavia. L’allora segretario della NATO, il tedesco ed ex ministro della Difesa Manfred Woerner, ripeteva nel 1990 che considerava questo impegno come una “garanzia di sicurezza” data all’URSS in cambio dell’assenso di Mosca alla riunificazione delle due Germanie.

Il segretario di stato James Baker, in una lettera ad Helmut Kohl, aveva scritto che la NATO “non si sarebbe mossa di un pollice” dalla posizione che aveva allora. Tutti i capi europei, da Mitterrand alla Thatcher ai tedeschi fino al capo della CIA Robert Gates, si premurarono di rassicurare Gorbachev: garantiamo noi! Tranquillo! Il russo non si fece mettere per iscritto l’impegno: come dubitare di questi paladini e maestri del diritto? Così Bill Clinton nel ’94 ha cominciato a violare la parola allargando la NATO.

Bush assicurò Gorby: ma non per iscritto….

Questo è specificamente diritto internazionale talmudico: doppiezza, inganno, malafede, disprezzo degli esseri inferiori, violazione della parola data – data a chi? Ad animali parlanti?

(dobbiamo la scoperta a due ricercatori del “Washington University National Security Archives”, Svetlana Savranskaja e Tom Blanton)


Altro caso segnalato da Orlov:

“Per esempio, il segretario di Stato Rex Tillerson esorta la Russia ad adempiere ai suoi obblighi previsti dagli accordi di Minsk sull’Ucraina. Voi potete domandare: quali sono gli obblighi della Russia in base agli accordi di Minsk? Ebbene: non ci sono. Leggete i testi degli accordi: non ne troverete uno”. Qui, la totale indifferenza e ignoranza verso il diritto internazionale si unisce all’altro tratto caratteristico che Orlov segnala: “Negli Stati Uniti, la realtà non ha più importanza” . Tratto che è proprio della mentalità talmudica: essendo il Regno d’Israele già realizzato ed avendo il potere sul mondo e sulla realtà, “i fatti sono cose imbarazzanti che possono contraddire la narrativa preferita forzandovi a cambiarla”. Ma un potere talmudico-imperiale non può riconoscere di essere soggetto alla realtà, perché equivarrebbe a riconoscersi non divino.

Tipicamente, la ostilità bellicista verso Mosca basata sulla narrativa che “Putin ha fatto eleggere Trump”, racconto senza alcun indizio ma ripetuto all’infinito, ha imposto al Comitato Olimpico di vietare “agli atleti russi di partecipare alle Olimpiadi invernali. Ciò, sulla base di false prove comprate dagli americani ad un criminale latitante russo di nome Rodchenkov.”

Ora, questo disprezzo del diritto internazionale, il calpestare il diritto di Westfalia, la persecuzione e distruzione bellica di Stati legittimi con false prove, l’imposizione delle proprie “leggi” al mondo, ha successo (limitato) solo finché gli Stati Uniti e il suo Suggeritore e Falso Agnello sono percepiti come ultra-potenti, e pronti a schiacciare i deboli (animali parlanti) in guerre e stragi senza fine.

Ma ecco che di colpo “tutti sanno che gli USA non hanno assolutamente nessuna opzione per forzare la Corea del Nord al disarmo nucleare”. Avendo visto cosa è accaduto a Irak e Libia “che avevano volontariamente disarmato” credendo (come Gorbachev) alla parola di Washington, i nord coreani hanno preferito elevarsi al rango di potenza atomica e l’hanno dimostrato. “La realtà è che non resta che una strada: negoziare”. Ma negoziare con animali parlanti? “Gli preferiscono vivere in un mondo immaginario in cui potrebbero distruggere totalmente la Corea el Nord con uno schiocco di dita”

Isolata nel suo mondo

Washington è sempre più chiaramente esclusa dai negoziati più essenziali nel Medio Oriente (ovvio: come credere alla sua parola?) tanto che alle discussioni per la pacificazione della Siria partecipano la Russia, l’Iran e la Turchia, ma gli Usa non sono presenti. Non sono presenti nemmeno ai colossali progetti della Cina, nuova via della Seta, One Belt One Road. E Pechino sta per lanciare un “future” per comprare petrolio in yuan [non in dollari!], per di più convertibile in oro; con ciò, minando la base stessa dell’egemonia mondiale ed economica americana, basata sull’obbligo per i goym di comprare e vendere le materie prime (anzitutto il petrolio) in dollari, ciò che consente a Washington di stampare la sola moneta “di riserva” mondiale, esportando fra l’altro i suoi deficit e le sue svalutazioni agli altri paesi.

In mancanza di diritto internazionale, l’America (come Sion) e avendo perso la forza assoluta di minaccia, “non fanno che dappertutto esacerbare e favorire i conflitti, all’estero ma anche alll’interno”. Istigate guerre civili in Libia, Siria, Irak, Somalia, Sudan, e in Ucraina nel cuore d’Europa, adesso il governo Trump ha firmato, il 13 dicembre, una vendita di specifiche armi al regime di Kiev – decidendo dunque di invelenire anziché acquietare la ferita aperta del Donbass, sperando di giungere a una guerra mondiale – che le consentirebbe di recuperare l’assoluta egemonia perduta, il prestigio che ha buttato nella fogna e la primazia economica basata sulla moneta falsa, il capitalismo finanziario da rapina in sé distruttore di risorse, e le manipolazioni dei mercati monetari.

Se tra il 1948 e il 1991 gli Stati Uniti hanno compiuto 46 interventi militari, dal 1992 al 2017 ne hanno fatto il quadruplo, 188 interventi bellici.

Il bello è che gli Usa incendiano i conflitti anche in patria: donne contro uomini (con la isteria delle molestie sessuali), bianchi contro neri (Black Lives Matter), liberals contro conservatori. Per Orlov, questa guerra di tutti contro tutti “è attivamente promossa con un obbiettivo unico e semplice: generare una cortina fumogena abbastanza spessa da nascondere quello che è il conflitto principale, quello tra l’oligarchia kleptocratica e la popolazione americana. L’obiettivo è di portare la popolazione – il cui lavoro non è più necessario e il cui mantenimento è semplicemente un costo – a scomparire il più rapidamente possibile. I conflitti internazionali servono allo stesso titolo della epidemia di oppiacei (59 mila morti americani nel 2016), i i suicidi aumentati del 25% dall’11 Settembre ad oggi (43 mila morti l’anno), i pazzi solitari che fanno stragi in scuole e concerti (sicuramente in numero maggiore dei 103 americani uccisi all’interno del paese dal terrorismo “islamico” o etichettato come tale negli ultimi 16 anni dall’11 Settembre 2001 ad oggi.
Comincia il disordine mondiale.

Il perché la “Kleptocrazia” abbia bosogno di far questo, Orlov lo dice con un aforisma magistrale: “Una regola fondamentale della kleptokrazia è che meno resta da rubare, più bisogna rubare”. Aforisma che vediamo applicare dalla cleptocrazia italiana e dai parassiti politici pubblici: da due settimana ci strillano nelle orecchie della Boschi ed e di Banca Etruria, e intanto tacciono del mezzo miliardo che De Benedetti non restituisce al Montepaschi, né dei regali che i politicanti hanno fatto a se stessi e alle loro clientele di parassiti pubblici con la legge di bilancio finale di questa dittatura dei ladri.

Tutto ciò, per concludere: sicuramente adesso comincia un periodo di sgretolamento finale degli “ordini” precedenti, globalisti ed burocratici, dominati dall’unilateralismo planetario americano ; tali “ordini” dal governo mondiale dell’economia tramite Organizzazione mondiale del Commercio, dollaro, “lotta al riscaldamento climatico”, “lotta al terrorismo globale” (armandolo) “E’ colpa di Putin” sono caduti nella crisi terminale non solo di legittimità, ma anche di efficienza. Per tutti noi sarà un periodo di turbolenze incalcolabili, di perdite di certezze e di alleanze (falsamente) credute solide, di leadership mancanti e di particolarismi virulenti. L’egemone folle americano, farà una fine sicuramente “cattiva e brutale”. Con Orlov, possiamo solo pregare che sia anche”corta”.


Buon 2018.

Banca Etruria - la Boschi indifendibile, hanno-avevano ragione i 5S, deve dimettersi politicamente è ancora più zombi di Renzi

Pd, la Boschi è in bilico. Renzi pronto a scaricarla

Imminente il faccia a faccia tra i due: «Non le chiedo passi indietro, ma così non si può andare avanti»

Adalberto Signore - Gio, 21/12/2017 - 14:09

L’uno-due arriva a metà mattina, quando Federico Ghizzoni conferma davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche l’interessamento di Maria Elena Boschi per le sorti di Etruria.


Un colpo quasi da knockout per il Pd, perché l’ex ad di Unicredit non solo ribadisce la versione di Ferruccio de Bortoli, ma aggiunge un particolare che fa vacillare persino i renziani più ortodossi. Anche Marco Carrai, infatti, ha seguito la vicenda con una certa attenzione, al punto che il 13 gennaio 2015 inviò una mail a Ghizzoni.

«Mi è stato chiesto di sollecitarti per dare una risposta su Etruria», scriveva il migliore amico di Matteo Renzi, tuttora suo consigliere e uomo fidatissimo. Che il rapporto tra i due sia quasi osmotico è cosa nota ed è proprio per questa ragione che a Largo del Nazareno si inizia subito a pensare al peggio. Anche perché se le parole hanno un peso quel «sollecitare» messo nero su bianco da Carrai non fa che confermare una condotta quantomeno discutibile da parte del cosiddetto «giglio magico». Basta sfogliare il vocabolario Treccani: «Sollecitare», ovvero «fare pressione, insistere presso altri perché facciano al più presto quanto avevano promesso o quanto si era loro richiesto».

Che la situazione abbia superato il livello di guardia lo capisce presto anche Renzi, che passa la giornata attaccato al telefono per tamponare la falla. Uno squarcio enorme se a Carrai servono ben sei ore per abbozzare una versione vagamente credibile per giustificare la sua mail. Una difesa debole, contraddittoria e inutile, perché quella che Renzi aveva immaginato come la Commissione per «processare» Bankitalia, Consob e magari anche la «dalemiana» Mps per l’acquisto di Antonveneta e Banca 121 è ormai diventato un plotone di esecuzione che punta proprio contro di lui.

E ovviamente contro la Boschi, che ci mette del suo con un surreale post su Facebook nel quale elogia Ghizzoni per aver «confermato» la correttezza del suo operato. Da ieri, insomma, per il Pd la «crisi Etruria» rischia di diventare ingestibile. Il territorio è in rivolta e pure i vertici del partito più vicini al leader gli chiedono un intervento drastico. Renzi ne è consapevole («siamo all’apice del casino», ha ripetuto durante una delle tante telefonate) ed è per questo che a breve, questione di ore, dovrebbe avere un faccia a faccia con la Boschi. «Non le chiederò mai di fare un passo indietro, ma è chiaro - si è sfogato il segretario del Pd in una delle sue conversazioni telefoniche - che così non possiamo andare avanti».

Parole che forse per la prima volta incrinano un rapporto di fiducia non solo politico ma anche personale che non è mai stato in discussione. D’altra parte, in politica ci sono momenti in cui avere la lucidità di fare un passo indietro è fondamentale per poter difendere la propria credibilità. Senza considerare che ormai da settimane il dossier della ricandidatura della Boschi è argomento di discussione serrata nel partito, con più di una segreteria regionale dem - quella della Campania pare fosse una delle più accese - che ha minacciato dimissioni in blocco se le dovesse essere imposto l’ex ministro delle Riforme in un collegio uninominale.

E da ieri, seppure a malincuore, Renzi sembra aver preso atto del fatto che ostinarsi nella difesa dell’indifendibile non è più una strada percorribile. Il crollo dei consensi registrato dai sondaggi (pubblici e riservati) da quando è riesploso il caso Banca Etruria è stato vertiginoso e se il leader del Pd vuole provare a invertire la rotta l’unico modo è smarcarsi perché - ha fatto sapere ad un deputato dem - «sono stufo di pagare per le colpe di altri». Non è un caso che a sera il Pd - e dunque Renzi - abbia alla fine deciso di scaricare Carrai. «La mail? Chiedete a lui, non a noi», la butta lì il renzianissimo presidente del partito Matteo Orfini.

Società matriarcali - Una civiltà matriarcale è una comunità di persone basata sulla centralità della figura femminile

Eco Internazionale



Società matriarcali, nessun dominio femminile ma un rapporto paritario

PUBBLICATO 22 dicembre 2017
Sabrina Landolina

Spesso si confonde il matriarcato con l’idea di “dominio della donna”. In realtà, in siffatte organizzazioni sociali, ci si basa su una vera e propria partnership uomo-donna, che continua a tener vivo un diverso modello di civiltà per donne e uomini.

Una civiltà matriarcale è una comunità di persone basata sulla centralità della figura femminile, dove permangono i fenomeni della matrilinearità e della matrilocalità, e ad oggi ne esistono oltre cento nel mondo.

Per matrilinearità si intende un sistema di discendenza per linea materna, nel quale i figli ereditano la posizione sociale e il possesso dei beni dalla madre anziché dal padre; mentre il ruolo del padre risulta prevalentemente affettivo, la madre occupa una posizione di grande potere e prestigio, pur essendo affiancata, in particolare nell’educazione dei figli, da uomini della sua stessa linea di discendenza. Invece, la matrilocalità è la consuetudine secondo la quale la coppia di sposi novelli si stabilisce nel territorio del gruppo sociale cui appartenente alla sposa. Le più numerose al mondo d’oggi sono: i Minangkabau dell’Indonesia, con tre milioni di persone, seguita dalla società Moso in Cina e da quellaYuchiteca in Messico.

Molti studiosi hanno appurato l’origine matriarcale delle società preistoriche dai ritrovamenti delle cosiddette Veneri, statuine ritrovate in Europa e Asia, risalenti al Paleolitico, ovvero, 25 mila o 20 mila anni. Per l’attribuzione del sesso femminile alla divinità principale, si deduce la centralità del ruolo delle donne, o quanto meno, non inferiore a quello degli uomini.

Sull’idea di un passato matriarcale dell’umanità, già nel 1800 lo storico Johann Jacob Bachofen sosteneva che alcune diatribe e rappresentazioni in alcuni miti greci non erano il frutto di problemi psicologici con l’altro sesso, ma il ricordo di conflitti sociali veri, che poi portarono al patriarcato, cioè al dominio del maschio sulla femmina. Ad esempio, Perseo che uccide Medusa, un’antica matriarca, dipinta poi come mostro nel racconto mitico. Bachofen affermò che la vittoria della società patriarcale si ebbe quando gli uomini si impossessarono del potere religioso riservato alle donne.

La studiosa italiana Momolina Marconi confermò l’ipotesi dell’esistenza di una civiltà matriarcale chiamata Pelasgi, la quale si sviluppò dalla Puglia alla Sardegna, alle coste africane e dell’Anatolia, religione della quale era incentrata sulla Grande Madre Mediterranea.

Nel 2005 a San Marcos, in Texas, archeologi e antropologi da tutto il mondo si sono riuniti in un convegno di “studi matriarcali”, confrontando dati archeologici e osservazioni su alcune popolazioni attuali. Risultato: la civiltà megalitica del Neolitico era incentrata sulle donne.

Fondamentale è uno studio sui Minangkabau di Sumatra, una comunità di circa 4 milioni di persone, condotto dall’antropologa Peggy Reeves Sanday dell’Università della Pennsylvania, e dal quale si evincono importanti caratteristiche: i valori dei Minangkabau sono incentrati sulla cura, sui bisogni della comunità invece che sui principi patriarcali di “giustizia divina”, sacrifici e rigide prescrizioni sessuali dettate dall’alto. I valori di cura, i cerimoniali in onore dei cicli della natura e dono discendono da antenate mitiche divinizzate. Fra i Minangkabau, come negli altri gruppi studiati, è presente una cultura di bilanciamento dei ruoli. Le spose restano a vivere nel villaggio della madre dove l’organizzazione e la cura dei figli si avvale degli uomini, ma questi sono in genere fratelli della sposa, zii e nonni.

L’antropologa Heide Göttner-Abendroth, dell’Accademia internazionale Hagia di Winzer, fondatrice dei moderni studi sul matriarcato, ne ha descritto le caratteristiche principali, presenti e passate. «Viene praticata in genere l’orticoltura o una agricoltura di autosostentamento» spiega. «Si vive nel villaggio materno prendendo il nome della madre e se ne ereditano i beni. Ci sono matrimoni di gruppo fra clan e relazioni coniugali basate sulla “visita”, con conseguente libertà sessuale dei partner». Inoltre i clan matriarcali funzionano su base assembleare: una famiglia manda il suo rappresentante, donna o uomo, all’assemblea del clan. Se non c’è accordo si torna a consultare coloro che hanno dato la delega. Lo stesso succede quando i delegati del clan vanno a un’assemblea di villaggio, oppure quelli del villaggio a una regionale.

La società matriarcale dei Moso si distingue da altre società simili perché non pratica il matrimonio. Oggi i Moso sono riconosciuti dal governo cinese come minoranza etnica nazionale autonoma. Ogni componente dei diversi clan in cui è suddivisa la popolazione prende il nome della donna più anziana, la “madre del clan”. Allo stesso modo, tra i Moso, il titolo di proprietà di una casa e della terra vengono ereditati solo dalla stirpe femminile. Le ragazze diventano membri del clan a 13 anni, dopo una cerimonia di iniziazione con la quale viene conferita loro la chiave della loro camera da letto.

Infine, le donne di Juchitàn, in Messico, sono le stesse a cui si ispirava l’artista Frida Kahlo nel suo abbigliamento. Si tratta di una società matriarcale, una realtà poco conosciuta ma molto interessante. La popolazione indigena della città messicana è riuscita a mantenere la maggior parte dei suoi canoni, nel cuore della società messicana. Si tratta di un esempio straordinario di matriarcato urbano, testimone della solidarietà tra donne, della loro capacità di essere indipendenti e libere rispetto al mondo esterno, rifuggito nonostante i continui tentativi “maschili” di intervenire.

Il valore di queste società non è soltanto storico: la loro struttura politica, economica, sociale e spirituale può essere di grande importanza per noi occidentali, in quanto ci insegna a organizzare e promuovere società non violente e mutuali, dove le donne sono al centro dell’ordinamento sociale, ma non per questo ricorrono a forme di dominio per guidare la propria comunità.

https://ecointernazionale.com/2017/12/22/societa-matriarcali-nessun-dominio-femminile-ma-un-rapporto-paritario/

Banca Etruria - speriamo che lo zombi Renzi e tutto l'euroimbecille Pd candidi la Boschi e che tutti insieme nel baratro per sempre

Repubblica chiede al PD di non ricandidare Boschi

“Un fardello troppo pesante”, scrive il direttore in prima pagina, chiedendo “gesti netti e chiari”

 
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, Roma, 19 gennaio 2015 (Cimaglia / LaPresse)

Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto oggi un editoriale molto critico sul caso Banca Etruria chiedendo alla sottosegretaria Maria Elena Boschi di «farsi da parte» dal Partito Democratico «e dalle sue candidature», perché «sta diventando un fardello troppo pesante».

Ieri la Commissione parlamentare bicamerale di indagine sulle banche ha raccolto la testimonianza di Federico Ghizzoni, ex presidente di Unicredit. Ghizzoni ha raccontato di alcuni contatti legati a Banca Etruria che ebbe con Boschi e con Marco Carrai, imprenditore e stretto collaboratore del segretario del PD Matteo Renzi, negando però che questi gli abbiano fatto delle «pressioni» perché intervenisse nella crisi di Banca Etruria. Qui è raccontata la storia per intero.

Calabresi inizia il suo editoriale spiegando che un anno fa Repubblica commentò la nascita del governo Gentiloni criticando la scelta di promuovere Maria Elena Boschi, principale autrice della riforma costituzionale bocciata al referendum, che avrebbe invece dovuto farsi da parte, secondo lui. «Riconfermarla, scrivemmo, era “una scelta evitabile che rafforza diffidenze, gonfia il qualunquismo e lascia un retrogusto di furbizia e immaturità”». A quel tempo la scelta «sarebbe stata dettata dalla sola opportunità politica» e «avrebbe evitato un finale come quello che è davanti ai nostri occhi». Un anno dopo, dice infatti Calabresi, «la situazione è ben più complicata e grave, le ombre sul cosiddetto Giglio magico si sono moltiplicate e l’affare Etruria è diventato la palla al piede di un partito che appare ostaggio del caso di una piccola banca meno rilevante di quelli avvenuti nel Nord-Est».

Calabresi scrive che «l’uscita di scena di Boschi, non dal governo ma dal Partito democratico e dalle sue candidature, è ora il passo necessario e indispensabile per provare a contenere i danni e per mostrare ai propri elettori di aver compreso la differenza tra interesse generale e interesse familiare». Calabresi cita Marco Carrai («che di Matteo Renzi è da sempre non solo l’uomo di fiducia ma anche una specie di gemello siamese») e spiega che a Maria Elena Boschi continua a sfuggire «il concetto dell’opportunità e contemporaneamente quello del conflitto d’interessi»:

«La vicenda Boschi va esaminata su due piani, diversi ma connessi. È comprensibile, perfino fisiologico, che un politico si occupi del territorio in cui viene eletto. Cura gli interessi dei suoi elettori, è deputato a fare questo. Del resto, le crisi bancarie in Italia sono sempre state risolte attraverso fusioni e acquisizioni. È stata la linea seguita da tutte le nostre Istituzioni.

Per la sottosegretaria, però, non è in discussione questo piano. Ma l’altro. Non è accettabile che un ministro della Repubblica si occupi di una questione che fa riferimento diretto al padre. Il rapporto di parentela con l’allora vicepresidente di Banca Etruria è il nucleo di un conflitto di interessi che sarebbe censurato in qualsiasi democrazia occidentale. Le regole morali e politiche del conflitto di interessi non possono funzionare a giorni alterni o a governi alterni. Questo è il cuore del problema, non se siano stati commessi illeciti. Di cui nessuno è a conoscenza. E questa ostinazione mostra quel grumo di potere locale da cui, evidentemente, la sottosegretaria non riesce a prendere le distanze».

Calabresi spiega che il PD «non può farsi carico di questa situazione», che Maria Elena Boschi «sta diventando un fardello troppo pesante per la principale forza riformista di questo Paese» e che lei stessa «dovrebbe con responsabilità liberare da questo peso il partito che le ha consentito di approdare in Parlamento e al governo».

Il direttore di Repubblica conclude l’editoriale parlando di Renzi e del PD. E dice:

«(…) Il segretario [dovrebbe] accettare l’idea che il bene del Paese e del Pd vengono prima della difesa di un componente del suo gruppo dirigente. A meno di non voler avallare l’idea che il vertice del Partito democratico possa liberamente essere sovrapposto al fantomatico Giglio magico.

Perché in discussione non c’è solo l’esito delle imminenti elezioni, già piuttosto incerte. Il Pd deve porre ora le premesse per assicurarsi la possibilità di rimanere competitivo nei prossimi anni. Il centrosinistra affronta stavolta la partita più difficile. La posta in gioco non è la vittoria o la sconfitta — questo appartiene alla fisiologia di una democrazia — ma che rimanga in vita la prospettiva di un moderno centrosinistra capace di governare i processi e le sfide di questo millennio. E per provare a invertire la rotta e risalire la china ci vogliono gesti netti e chiari, non sterili rivendicazioni che ipotecano il futuro».

Questa mattina, intervistato su TGcom24, Matteo Renzi ha risposto indirettamente all’editoriale di Calabresi dicendo che «un politico si fa giudicare dai cittadini: quindi saranno le elezioni a giudicare se qualsiasi politico, non soltanto Maria Elena Boschi, debba essere riportato in Parlamento oppure no. Quindi per noi questa è una discussione che non esiste». E ancora: «Vorrei che la campagna elettorale fosse sui contenuti. Condivido le parole che il ministro Boschi ha detto oggi sulla Stampa, dove ha parlato di “caccia alla donna” e ha confermato di volersi candidare».