L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 27 gennaio 2018

Davos - Trump da il giusto peso agli euroimbecilli sono un niente e il dollaro basso, le emissioni lo dimostrano, sono solo cani al guinzaglio del padrone

IL FORUM

Trump a Davos ignora l’Europa e difende la strategia America First
 
Il presidente Usa usa toni più pragmatici sul commercio, per rassicurare il big business: «Crediamo nel libero scambio. Siamo pronti a negoziare accordi bilaterali di cui beneficino tutti i Paesi»

di Federico Fubini, inviato a Davos
26 gennaio 2018



È apparso preceduto da una banda di suonatori di ottoni in costumi dell’Ottocento, ma stavolta non è stata colpa sua. Almeno questa non è una gaffe di Donald Trump. È solo che dieci giorni fa Klaus Schwab, padre-padrone del World Economic Forum, era stato a un concerto dell’orchestra di Friburgo e il mattino dopo il direttore si è trovato una chiamata della moglie di Schwab con una strana proposta: suonare per il presidente degli Stati Uniti, quando avrebbe parlato a Davos. Fra tutti i brani proposti, gli Schwab hanno scelto la Marcia di Coburgo «la più solenne») ed ecco così ieri alle due Trump sull’attenti davanti a una platea di un migliaio di banchieri e uomini d’affari.

Pochi minuti di musica, e il presidente ha iniziato a leggere da due schermi trasparenti un discorso che fin dalle prime parole ha tradito il nome del vero autore. «Credo nell’America — ha detto quasi subito Trump —. Come presidente degli Stati Uniti metterò sempre l’America al primo posto, esattamente come gli altri leader dovrebbero mettere i propri Paesi al primo posto. Ma America First non significa America isolata». Quest’ultima frase è stata come un’impronta digitale: quella di Gary Cohn, l’uomo che era già venuto a Davos un’infinità di volte come presidente di Goldman Sachs e ieri ci è tornato da consigliere economico di Trump. Sono esattamente le parole che Cohn stesso aveva affidato al New York Times per un articolo del giorno prima, il cui senso è chiaro: sminare la retorica sciovinista del primissimo Trump, quella che l’aveva portato alla Casa Bianca promettendo barriere e muri nel commercio e nell’immigrazione. Un anno e mezzo dopo, Trump è un presidente marcato stretto nel centro congressi di Davos da tre stagionati uomini bianchi espressi dal Big Business: oltre a Cohn, il segretario al Tesoro Steven Mnuchin (ex Goldman anche lui) e l’ex capo di ExxonMobil Rex Tillerson.


Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Questo infatti è un Trump più pragmatico, che a Davos non parla come twitta. Il presidente rivendica, certo, successi che naturalmente attribuisce sempre e solo a se stesso: «Il mercato azionario batte un record dopo l’altro, 84 volte da quando sono stato eletto, e da allora ha aggiunto settemila miliardi di dollari di ricchezza» (ma l’America sta crescendo oggi del 2,6% in ritmo annuo, meno dell’area euro). Oppure: «Abbiamo cancellato 22 regolamentazioni ogni nuova regola aggiunta» (in realtà Bloomberg calcola che le ultime reali semplificazioni risalgano a Ronald Reagan e Bill Clinton). O ancora: «Con noi la disoccupazione degli afroamericani e degli ispanici è scesa ai minimi» (benché il calo duri da sette anni).

Ma il tono sul protezionismo, nervo scoperto per la platea di Davos che vive dei mercati globali, è molto sorvegliato. Anche con aperture nuove a trattative multilaterali: «Gli Stati Uniti credono nel libero scambio», ha detto Trump. «Siamo pronti a negoziare accordi che beneficino tutti i Paesi, in modo bilaterale e anche con gruppi di Paesi se ciò beneficia tutti». Canada, Giappone e altri undici Paesi del Pacifico stanno andando avanti su un accordo di libero scambio, anche Trump deve ammettere che l’America non può restare fuori. Non sono certo mancate le accuse alla Cina di rubare brevetti, sussidiare il proprio export e mantenere le imprese sotto il controllo soffocante del governo.

Grande assente nel discorso di Trump è stata piuttosto l’Europa: mai una parola in proposito, neppure un’allusione se non per dire che i Paesi emersi dal blocco sovietico dovrebbero comprare gas liquefatto americano per non dipendere dalle forniture russe. Eppure proprio qui a Davos due giorni prima Angela Merkel aveva speso tutta la sua forza per attaccare Trump: «Non ha capito le lezioni della storia», aveva detto la cancelliera tedesca. Emmanuel Macron era stato molto più cauto, consapevole che la Francia risorgente a cui aspira avrà sempre bisogno di un’intesa con gli Stati Uniti. Ma dell’Europa, Trump non sembra accorgersi minimamente.

Tutta questa indifferenza potrebbe non durare, specie se si avvererà la previsione espressa qui dall’investitore-filantropo George Soros: il potere del presidente finirà presto, forse già con una disfatta repubblicana alle elezioni di mid-term tra dieci mesi. Certo alla fine la platea dei ricchi di Davos ha riservato a Trump un applauso breve e fiacco, dopo l’ovazione per Macron. Ma forse non era ostilità. Magari era solo imbarazzo per il dono del taglio alle tasse, ricevuto da un uomo tanto più rozzo di loro. 
 

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