L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 8 settembre 2018

Costanzo Preve - “.. questa è un’epoca in cui gli intellettuali sono più stupidi della gente comune.”

Macron gioca alla guerra, ma Onu ed Europa tacciono

di Riccardo Ruggeri3 giorni fa1.9k Visualizzazioni 2 Commenti


Il filosofo Costanzo Preve, raffinato intellettuale di ispirazione marxiana e neohegeliana, sosteneva che “.. questa è un’epoca in cui gli intellettuali sono più stupidi della gente comune.” Teoria forse avventurosa a livello dei singoli, ma di certo vera a livello di elettori. Per esempio, checché ne possa pensare Mario Monti, i cittadini svizzeri non ”sbagliano” mai un referendum popolare, specie quelli “difficili” di tipo costituzionale (le loro élite spesso lo capiscono solo anni dopo). La politica non è una scienza, non è la fisica, non esistono i “competenti”, ogni uomo ha le sue sensibilità politiche e sa come trasformarle in un voto che lo rappresenti.

Prendiamo Emmanuel Macron, dopo un annetto di gesti (vocali) bonapartisti ha cominciato a sgonfiarsi, non ne ha più imbroccata una, gli scoprono ambigui altarini privati, non riesce a fare il bagno al mare, nella sua piscina in Provenza c’è più cloro che acqua, i ministri fuggono, gli scoop più feroci su di lui non li fa più LeCanard enchaîné ma il quotidiano delle élite Le Monde (un messaggio in codice del suo padrino Jacques Attali?). E Le Figaro fulmina il macronismo dicendo che non si può mischiare tutto e il suo contrario, trasformando la Francia in un banale frullato: “Ieri il macronismo appariva un’idea geniale, oggi pericolosa”. Tanti lampi, qualche tuono, ma con lui l’execution latita, Macron è sì un mago della pioggia, ma un eunuco quando c’è il sole (politicamente parlando, of course).

Macron, come il suo predecessore Nicolas Sarkozy adesso si è messo a giocare alla guerra in Libia, immagino senza aver capito il Paese. E dire che c’ero arrivato persino io a capirlo, quando negli anni Ottanta ci operavo come fornitore di grandi veicoli a trazione integrale, con stabilimento di montaggio annesso. Allora Mu’ammar Gheddafi (un genio del male, ma pure della politica, come Josip BrozTito) aveva avuto una geniale business idea. La ripeto come me la raccontò, con fierezza berbera, uno dei suoi tre o quattro numeri due. La Libia non solo era culturalmente spaccata in due, fin dal tempo di Roma (Cirenaica e Tripolitania), ma pure in un centinaio di Tribù, poche grandi, le altre medie e piccole. Che fece il Colonnello? Si guardò bene dal farsi Generale, trasformò la Libia in una Holding di partecipazioni, secondo un suo Manuale Cencelli assegnò alle singole Tribù pacchetti di azioni, posti e prebende. Si assegnò il ruolo di Ceo, dai manager europei pretendeva tangenti che ridistribuiva ai politici europei. A ogni libico, grazie al petrolio, assegnava un vero e proprio reddito di cittadinanza che gli permetteva, se voleva, di vivere senza lavorare, anzi a quell’epoca i cittadini della classe media avevano almeno un servitore straniero. Sistemata la pace sociale il Colonnello si mise a giocare a fare il profeta o lo statista o il dittatore, a seconda dei giorni. Cambiò stile e si diede una calmata solo quando Ronald Reagan si stufò delle sue pagliacciate e gli sganciò un po’ di bombe nel bunker-tenda di Bab el Aziziya. Se si fosse procurato uno straccio di atomica sarebbe ancora vivo, come Kim Jong-un.

Proprio causa la Libia (e Ventimiglia, e Bardonecchia) la quasi la totalità degli italiani (oltre il 90%) disprezza Macron e la sua politica arrogante sul petrolio e sull’immigrazione; pensa te, il genio dell’Ena voleva fare della Sicilia un campo di concentramento). Sul rapporto con la Francia noi italiani siamo sempre fermi a una domanda che dopo anni non ha ricevuto risposta alcuna: “Perché Nicolas Sarkozy, e i suoi compagni di merende David Cameron e Barack Obama non sono stati denunciati alla Corte dell’Aia e processati? Hanno fatto una guerra criminale senza neppure il bollino dell’Onu, anzi a uno hanno pure dato il Nobel per la Pace”.

E che fa Macron? Anziché il governo riconosciuto dall’Onu, lui supporta, briga, intrallazza, con il generale golpista Khalifa Haftar. E l’Onu? Tace. E l’Europa? Tace. Un mondo capovolto. E lui? Finalmente, l’abbiamo beccato, è il legno storto di “questa” curiosa Europa che, speriamo, finisca fra otto mesi.

Riccardo Ruggeri, 5 settembre 2018

Diego Fusaro - Disse una volta Preve che gli intellettuali oggi sono come un banco di pesci che si muove compatto, seguendo le comode correnti del politicamente corretto

“Amate le vostre catene”. L’ordine del rotocalco turbomondialista “La Repubblica”

-6 settembre 2018

Roma, 6 set – Il rotocalco turbomondialista “La Repubblica”, voce del padronato cosmopolita Disse il mio maestro, il compianto Costanzo Preve, che tra le prerogative della odierna “notte del mondo” (Hölderlin) si annovera anche la seguente: la nostra è la prima epoca in cui gli intellettuali sono più stupidi della gente comune. Aveva ragione, in effetti. Diagnosi spietata quanto pertinente. Potrete agevolmente far capire i drammi del mondialismo, del libero mercato, della deregolamentazione e delle altre nefandezze del nuovo ordine mondiale americanocentrico a un taxista e a un fruttivendolo, ma sarà opera asperrima fare intendere ciò a un intellettuale. Il quale deve sempre garantire il consenso all’ordine costituito, delegittimando en bloc tutto ciò che possa metterlo in discussione. Provare per credere. Provate a vedere i surreali dibattiti televisivi o i patinati convegni accademici: elogio salmodiante e senza tregua dell’Unione Europea, del one world unito sotto il segno del classismo e della alienazione, ecc.

Immaginate di avere dinanzi a voi il bardo cosmopolita Saviano, il Giove della privatizzazione Zucconi o il “pentito” Cacciari, che ha trasformato il fallimento della sua generazione sessantottina in fallimento metafisico di ogni progetto anticapitalistico(con conseguente riallineamento disincanto con il mondo così com’è). Disse ancora una volta Preve che gli intellettuali oggi sono come un banco di pesci che si muove compatto, seguendo le comode correnti del politicamente corretto, che è poi sempre hegelianamente un eticamente corrotto. La funzione del ceto intellettuale è garantire il consenso al rapporto di forza egemonico e, dunque, alla classe dominante liquido-finanziaria:facendo in modo che gli ultimi, anziché rivoltarsi, accettino di buon grado la propria servitù e siano financo disposti a battersi contro ogni eventuale processo di emancipazione reale.

Provare per credere, anche in questo caso. Si potrebbe addurre un mare magnum di esempi. Ne porto uno soltanto, recentissimo e adamantino. Che al grado massimo segnala l’avvenuta decadenza degli intellettuali, come appropriatamente la qualificava Bauman. “La Resistenza contro l’odio populista chiama in causa pure noi”. Così, senza perifrasi, sul rotocalco turbomondialista “La Repubblica”, voce del padronato cosmopolita il cui unico scopo è – quod demonstrandum erat – promuovere l’ebete adattamento degli ultimi alle proprie catene. Il titolo può così essere tradotto, decriptando l’usuale neolingua dei mercati deterritorializzati: schiavi della caverna platonica, combattete con solerzia contro chiunque voglia liberarvi. Amate la caverna, ché tutto il resto è peggio. E abbandonate senza indugi il sogno di un eventuale esodo.

Ogni qual volta si è tentato di uscire dalla caverna globalclassista – vanno ripetendo i padroni del discorso – si è prodotto il male sulla terra. Adeguatevi alla vostra miseria, dunque: con disincantata rassegnazione. E niente ritorni di fiamma utopica, per favore. Ordunque, tenete a mente queste parole: e avrete la chiave di accesso a ogni singolo articolo del rotocalco turbomondialista di cui sopra. Buona lettura, anche se un siffatto invito – lo so bene – può facilmente essere preso per una minaccia.

Diego Fusaro

Fabrizio Palenzona è il punto di congiunzione nel Sistema massonico mafioso politico. E' fondante. L'incendio di Fiumicino fu archiviato dal Partito dei Giudici, senza disturbare gli esperti era nella logica essere doloso doloso


La lobby del casello. Palenzona si gioca tutto pur di manovrare, trascinando nel caos pure la Lega e l’Anas 

7 settembre 2018 di Stefano Sansonetti


Al di là della data dei documenti, precedente al crollo del Ponte di Genova, pare innegabile che l’impostazione sia la seguente: l’Aiscat, la grande lobby dei concessionari autostradali, è sempre stata fortemente contraria alla diffusione dei contratti di concessione. E questo è il motivo per cui il ministro delle infrastrutture, Danilo Toninelli, ha deciso di fare il nome proprio dell’Aiscat quale fonte di pressioni sul ministero, esibendo ieri due documenti (uno di gennaio e l’altro di marzo). Del resto che l’associazione dei concessionari, i cui azionisti di maggioranza sono Benetton e Gavio, abbia da sempre un ruolo pervasivo nelle istituzioni è un fatto. Così come è un fatto l’infaticabile dinamismo di quello che da tempo immemorabile è il suo grande capo, Fabrizio Palenzona, così vicino ai Benetton da essere stato anche presidente di Adr (Aeroporti di Roma). Il fatto semmai poco noto è il modo in cui Palenzona, in più occasioni, ha finito col trascinare nel pressing sul Governo anche le altre componenti dell’Aiscat, sapientemente sfruttate per mantenere il suo potere. Componenti che spesso riportano allo Stato e a uno dei due partiti che reggono l’attuale maggioranza gialloverde, ossia la Lega Nord.

Facciamo qualche esempio. Tra le 27 associate dell’Aiscat un ruolo molto importante è rivestito dalla Milano Serravalle, che peraltro controlla con il 78,9% del capitale un’altra associata di peso, l’Autostrada Pedemontana Lombarda. Ebbene, non sempre si tiene a mente che la Milano Serravalle, attraverso la holding Asam che ne controlla il 52,9%, fa capo alla Regione Lombardia, da tempo governata dalla Lega (prima con Roberto Maroni adesso con Attilio Fontana). Lo stesso dicasi per un’altra associata Aiscat, la Tangenziale Esterna Spa, che al 47,6% fa capo alla Tangenziali Esterne di Milano, il cui 18,8% a sua volta è sempre in pancia alla Milano Serravalle. Ancora, si prenda un’associata come Autostrada del Brennero, il cui Ad, Walter Prandatscher, è addirittura vice di Palenzona nell’Aiscat. Parliamo di una concessionaria al 32,2% riconducibile alla Regione autonoma Trentino Alto Adige, con un 11% custodito da Provincia e Comune di Verona, guidate da giunte di centrodestra con dentro la Lega.

E che dire di Autovie Venete, altro polmone dell’Aiscat? Qui, con il 72,9% delle azioni, abbiamo Friulia, la finanziaria del Friuli Venezia Giulia governato dal leghista Massimiliano Fedriga. Mentre con un 4,8% troviamo la Regione Veneto, guidata dall’altro leghista Luca Zaia. Ritroviamo poi la stessa Regione Veneto nel capitale di Concessioni Autostradali Venete-Cav Spa, altra associata Aiscat, di cui detiene il 50% del capitale. Il tutto mentre l’altra metà delle azioni è in mano all’Anas, società di Stato (controllata al 100% da Fs ma in prospettiva da ricondurre sotto l’ombrello del Tesoro). Ed è curioso notare anche come sia forte la presenza “indiretta” della stessa Anas in Aiscat. La spa pubblica, guidata da Gianni Armani, detiene infatti anche il 51% della Sitaf (traforo del Frejus), e il 32% della Società italiana per il traforo del Monte Bianco, entrambe associate Aiscat. Questo a dimostrazione del fatto che l’associazione dei concessionari è sì dominata dai Benetton e dai Gavio, a partire da Autostrade per l’Italia e da molte società del gruppo Sias, ma dentro c’è anche dell’altro. E Palenzona, referente dei signori del casello, quando si muove fa pesare anche il resto della torta.

Vitrociset - corto circuito tra Fincantieri e Leonardo con l'avallo del Ministro Tria

Vitrociset, che cosa è successo fra Leonardo-Finmeccanica, Fincantieri e governo



Leonardo (ex Finmeccanica) compra Vitrociset annullando l’offerta di Fincantieri. Fatti, nomi, numeri e indiscrezioni sulla inedita concorrenza fra società a partecipazione statale. Decisione all’unanimità del cda di Leonardo, compresi il rappresentante del Tesoro (Turicchi) e il maestro del premier Conte (Guido Alpa)

Leonardo esercita il diritto di prelazione e acquista il 98,54% di Vitrociset, dove è già presente con una quota dell’1,46%.

Decisione all’unanimità del cda di Leonardo: hanno dunque dato l’ok sia il rappresentante del Tesoro (Antonino Turicchi, direttore Finanza del Mef) sia maestro del premier Conte (il professor Guido Alpa).

Il gruppo presieduto da Gianni De Gennaro ha messo così fuori gioco Fincantieri che un mese fa aveva presentato un’offerta, insieme con Mer Mec, per l’azienda romana.

CHE COSA FA VITROCISET

Il gruppo Vitrociset opera nella difesa, sicurezza, spazio, servizi al traffico aereo, con molti appalti di ministeri (Difesa, Interno, Esteri), organizzazioni internazionali (Nato), agenzie europee (Esa), aziende (Lockeed Martin per l’F-35, Unicredit, Enav), forze armate e forze di polizia. (qui i dettagli su tutte le commesse)

LA MOSSA DI LEONARDO-FINMECCANICA

La mossa del gruppo capitanato dall’ad, Alessandro Profumo, per quanto non chiuda del tutto le porte per il futuro a Fincantieri (Leonardo lascia aperta “la possibilità di ingresso di altri attori”) scalza tuttavia le mire del gruppo della cantieristica navale capitanata da Giuseppe Bono in una partita che ha visto coinvolto anche il governo.

IL RUOLO DELLA POLITICA

L’offerta di Fincantieri era stata apprezzata dai partiti della maggioranza (M5S e Lega) e aveva avuto di fatto il via libera della Cassa depositi e prestiti (80% del Tesoro). Infatti Fincantieri è controllata con il 71,6% da Fintecna (Cdp, all’80% del Tesoro, ora guidata dal nuovo ad, Fabrizio Palermo, voluto dal M5S e Lega).

Emerge dunque un corto circuito: la Cdp del Tesoro tramite Fintecna non aveva ostacolato la mossa di Fincantieri e ora il Tesoro ha dato l’ok a Leonardo per sgambettare Fincantieri. Una linea del governo quanto meno altalenante.

LE MIRE DI BONO

Con Vitrociset Bono intendeva acquisire capacità nell’elettronica e nei sistemi, anche per dotarsi di queste competenze nel progetto di alleanza nelle navi militari messo a punto insieme alla francese Naval Group, che ha nell’azionariato Thales, concorrente di Leonardo. Uno scenario, quello francese, che provoca non pochi timori nel gruppo di piazza Monte Grappa partecipato dal Tesoro.

I TIMORI DI DE GENNARO

Ma il progetto di Bono di costituire di fatto nel perimetro di Fincantieri una sorta di Finmeccanica-2 (anche con i consigli di un altro ex capo azienda di Finmeccanica come Pierfrancesco Guarguaglini) ha destato preoccupazioni nel gruppo presieduto da De Gennaro. Mentre in passato Leonardo aveva sempre detto alla famiglia Crociani di non essere interessata a rilevare l’azienda romana.

LA MOSSA IN EXTREMIS DI LEONARDO

Risultato: Leonardo ha deciso in extremis, allo scadere dei 30 giorni dopo l’offerta di Fincantieri e Mermerc per Vitrociset, di esercitare il diritto di prelazione. E il ministro dell’Economia, Giovanni Tria “si è incaricato di provare a vedere se c’era spazio per una mediazione – ha scritto Lettera 43 – L’idea era quella di vedere se Leonardo e Fincantieri potessero condividere l’intervento su Vitrociset. Ipotesi immediatamente accolta da Profumo, mentre Bono ha puntato i piedi chiedendo a tutti i costi di avere comunque la maggioranza”.

I NUMERI DELL’OPERAZIONE

Così Leonardo, con il via libera di fatto del Tesoro, ha comprato Vitrociset alla stesse condizioni di Fincantieri. “Le cifre, non rese note, prevedono un esborso di cassa di 50-60 milioni per Vitrociset e alcuni immobili, oltre a circa 60 milioni di debiti finanziari”, ha scritto il Sole 24 Ore.

I CONTI DI VITROCISET

Quali sono i conti 2017 di Vitrociset? Secondo una “sintesi pro-forma Ias dei risultati economici della capogruppo Vitrociset spa”, il valore della produzione è scesa dai 141 milioni di euro del 2016 a 137 milioni di euro. Il prospetto poi indica in 984mila euro la perdita delle attività di funzionamento nel 2017 rispetto a un utile di 655 mila euro dell’anno precedente.

Libia - e la presa in giro francese per il prossimo speranzoso voto, lì sono le armi che parlano e danno il là

Il fardello della leadership italiana in Libia

7 settembre 2018 


da Il Messaggero/Il Mattino del 5 settembre 2018

Solo nei prossimi giorni sarò possibile comprendere se la tregua stabilita ieri sera reggerà, ponendo così fine alla recente battaglia di Tripoli che in Italia ha avuto ripercussioni sia per il rischio che potesse crollare il governo libico di accordo nazionale (GNA) con le inevitabili conseguenze per gli interessi nazionali sia per le immancabili polemiche di politica interna.

L’annuncio che Roma non avrebbe inviato forze militari in Libia a sostegno del governo di Fayez al-Sarraj da un lato potrebbe rafforzare il fronte degli oppositori del GNA togliendo deterrenza al ruolo dell’Italia, ma dall’altro permette a Roma di restare un arbitro non troppo sbilanciato della crisi libica.


Del resto l’Italia già da tempo appoggia militarmente (circa 400 i militari schierati nella nostra ex colonia) il governo libico voluto dall’Onu, con la missione sanitaria a Misurata e quella della Marina che dal porto di Abu Sittah coordina le operazioni della Guardia costiera libica equipaggiata anche con motovedette donate dall’Italia.

E’evidente poi che un intervento diretto dell’Italia negli scontri avrebbe offerto il destro al generale Khalifa Haftar per denunciare nuovamente il neocolonialismo italiano, dipingendo al-Sarraj come un fantoccio di Roma.

Inoltre, la partecipazione di truppe italiane ad azoni belliche comporterebbe rischi che vanno valutati in modo realistico: sarebbe un autogol partire con le bandiere al vento se poi, dopo i primi caduti in battaglia, venisse a mancare la tenuta politica e sociale necessaria a continuare le operazioni.


Limiti pesanti tenuto conto che il ruolo dell’Italia ci obbliga a essere protagonisti, non comparse, specie dopo che Donald Trump ha riconosciut, nell’incontro con Giuseppe Conte alla Casa Bianca la “leadership italiana” in Libia.

Una responsabilità che impone attivismo, eventualmente anche militare, e talvolta anche di correre qualche rischio. Così un eventuale appoggio alle forze di al-Sarraj, qualora dovesse rendersi in futuro necessario, potrebbe esprimersi meglio con operazioni segrete condotte da forze speciali che al fianco delle milizie governative individuino e “illuminino” bersagli da colpire con ordigni aerei di precisione.

Operazioni sulla falsariga di quelle più volte attuate da statunitensi e israeliani, o dai franco-britannici proprio in Libia dove nel 2011 loro truppe prive di uniforme affiancavano i ribelli anti-Gheddafi.

Sul piano politico è poi evidente che la complessità della crisi libica non può risolversi nel dualismo tra i governi di Tripoli e Tobruk. C’è chi rimprovera il governo italiano di non aver “coltivato” rapporti adeguati con la Cirenaica e chi, al contrario, sottolinea come le recenti visite di ministri italiani in Egitto (principale sponsor di Haftar) avrebbero indebolito indirettamente al-Sarraj.


Pragmaticamente, con Tobruk abbiamo sempre tenuto le porte aperte ma, inevitabilmente, gli interessi energetici e la necessità di fermare i flussi migratori illegali impongono a qualunque governo italiano rapporti privilegiati con Tripoli, il cui esecutivo instabile resta l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale.

Pur se a bassa visibilità, l’intesa tra Roma e Washington sulla Libia sembra dare buoni frutti anche sul fronte dell’intelligence: i droni decollati dall’Italia hanno tenuto d’occhio gli sviluppi della battaglia di Tripoli anticipando il rapido esaurimento degli scontri intorno alla capitale poichè i ribelli non avrebbero più capacità offensiva dopo il contrattacco delle fazioni che sostengono al-Sarraj, rafforzate da una parte delle milizie di Misurata.

Una prospettiva confermata dall’accordo quadro per il cessate il fuoco raggiunto con la mediazione varata dall’inviato speciale dell’Onu, Ghassan Salameh,


Del resto gli scontri sono determinati più dalla richiesta dei ribelli di avere accesso alla spartizione dei proventi dell’export petrolifero e degli aiuti internazionali, che da motivazioni politiche.

Circa queste ultime va precisato che la Francia non è il nostro unico rivale in Libia ad avere potenzialmente interesse a mettere in difficoltà al-Sarraj. Anzi, il caos di questi giorni dimostra come il progetto di Parigi di indire elezioni in dicembre sia un’utopia, rafforzando invece il piano italiano che prevede prima la conferenza di pace e poi il voto.

A contrastare l’influenza italiana contribuiscono anche le milizie legate ai Fratelli Musulmani fedeli all’ex premier di Tripoli, Khalifa Ghwell, spettatore non disinteressato degli scontri di questi giorni che ha le sue roccaforti tra Tripoli e Misurata e gode di appoggi importanti in Qatar e Turchia.

Foto: Reuters, AFP e AP

Il 4 marzo 2018 gli italiani hanno spazzato via il corrotto euroimbecille Pd la le scorie il veleno a lento rilascio che hanno sparso a piene mani continua ad agire


Poltrone incandescenti alla Difesa. Le trame del generale renziano per il posto di Capo di stato maggiore. Magrassi in manovra su un dossier che non si sblocca 

8 settembre 2018 di Stefano Sansonetti


Niente da fare. Neanche l’altro ieri, in occasione del Consiglio dei ministri, si sono create le condizioni per nominare il nuovo Capo di Stato maggiore della Difesa. Stallo di non poco conto, visto che da quella figura, ancora per poco incarnata da Claudio Graziano, dipendono tutte le attività di pianificazione e impiego delle Forze armate. Qual è l’ostacolo che, ormai da inizio luglio, sta impedendo di trovare una quadratura del cerchio? Il vero nodo, a quanto pare, attualmente si sta ingarbugliando intorno a un’altra poltrona di spicco al Ministero della Difesa, quella di segretario generale. Qui, dall’ottobre 2015, c’è il generale Carlo Magrassi, che dopo essere stato consigliere militare dell’allora premier Matteo Renzi a palazzo Chigi, è quindi transitato da Roberta Pinotti (Pd) all’attuale ministra, la pentastellata Elisabetta Trenta.

L’incarico di Magrassi, però, è in scadenza a ottobre. Insomma, questo fa capire perché sia da tempo attivo per trovare una sistemazione. Il fatto è che lo stesso Magrassi non pare intenzionato a mettere da parte l’ambizione di diventare proprio Capo di Stato maggiore della Difesa, nonostante il Codice dell’ordinamento militare glielo impedisca: dal 1° febbraio, infatti, non è più in servizio permanente effettivo, requisito fondamentale per diventare il numero uno delle Forze armate. Per questo Magrassi nelle scorse settimane ha cercato di capire se ci sono margini per cambiare la norma e rientrare in pista. La posizione della Trenta è per ora sfumata. Ma Magrassi sembra avere ancora molta voce in capitolo, anche perché da Segretario generale (che è anche Capo della Direzione nazionale armamenti), fino a poco tempo fa ha avuto alle sue dipendenze il tenente-colonnello Claudio Passarelli, marito della ministra, spostato da quest’ultima all’ufficio affari generali per una questione di opportunità. Di sicuro Magrassi, che dal 2013 al 2014 è stato anche capo di gabinetto dell’allora ministro Mario Mauro (Governo Letta), negli anni ha seguito da vicino l’acquisizione dell’Air Force Renzi, l’ormai famoso Airbus assurto a simbolo di spreco di Stato, il cui contratto di leasing è stato rescisso su iniziativa dei Cinque Stelle. Rescissione rivendicata con orgoglio dal vicepremier, Luigi Di Maio, e dal ministro delle infrastrutture, Danilo Toninelli. Insomma, per i Cinque Stelle sarebbe complicato assecondare la nomina a Capo di Stato maggiore della Difesa, per giunta con una specie di norma ad personam, di un ex strettissimo collaboratore di Renzi e Pinotti. Sta di fatto che per ricoprire la carica restano in ballo l’attuale capo di stato maggiore dell’Aeronautica, Enzo Vecciarelli, e il Capo di stato maggiore dell’Esercito, Salvatore Farina. Chance non marginali, infine, vengono accreditate al Sottocapo di Stato maggiore della Difesa, Roberto Nordio.

Nel frattempo continua a far discutere anche la situazione di stallo al vertice del Gse, la società pubblica che gestisce 16 miliardi l’anno di incentivi alle rinnovabili. Il tutto, come rivelato da La Notizia, con la spada di Damocle di almeno 10 procure che stanno indagando su un presunta truffa sui certificati bianchi. Per la sostituzione di Francesco Sperandini, attuale presidente e Ad, vicino al Pd, nelle ultime ore si sta facendo anche il nome di Nicola De Sanctis, attuale Ad dell’Acquedotto pugliese, nominato dal Governatore Michele Emiliano. Un profilo, quindi, a quanto pare sempre di area Pd, peraltro già contestato dai grillini per gli incarichi plurimi nello stesso Acquedotto pugliese e per una maxi buonuscita percepita quando era Ad di Iren.

Cina-Stati Uniti-Russia - Sono i tre giganti che determineranno il prossimo presente futuro

Terza questione di geopolitica: il “cuore della terra” sul fronte orientale

L’ipotesi di Russasia
di Uber Serra e Giorgio Gattei
7 settembre 2018


1. Dal duello al “triello”.

A dar retta a diversi commentatori, all’ultimo incontro di Helsinki del 16 luglio 2018 Donald Trump avrebbe dovuto aggredire Vladimir Putin rinfacciandogli (almeno) l’occupazione della Crimea e l’intervento militare in Siria. Se così si fosse comportato, Trump avrebbe agito come l’ennesimo combattente “da guerra fredda” sopravvissuto alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Invece Trump non ha agito così, quasi consapevole (lui o i suoi spin doctors) che l’equilibrio geopolitico è ormai mutato e la vecchia logica della contrapposizione bipolare tra USA e URSS è superata. Le cose si sono fatte più complicate e la situazione va considerata in modo nuovo.

La logica della guerra fredda è stata quella di un duello in cui chi spara per primo vince. Tuttavia nella realtà di quella guerra nessuno dei due antagonisti ha potuto pensare di “buttare la bomba atomica” per primo perché la ritorsione immediata sarebbe stata devastante anche per lui, il che ha consentito, ad esempio, di chiudere per via di telefono (sic!) la pericolosissima crisi di Cuba del 1962. Eppure quel duello è finito, ma come mai? Solo perché l’Unione Sovietica si è fatta esplodere una bomba atomica tra i piedi (a Chernobyl, in Ucraina, nel 1985), dopo di che è stata per lei tutta una frana fino all’ammaina-bandiera rossa dal Cremlino nel 1991. Così il “nemico americano” è rimasto unico e vincitore, sebbene questo “dominio unipolare” sia durato ben poco se già nel 1999 a Mosca era arrivato un Vladimir Putin (ex KGB) intenzionato a riportare alla dignità militare un paese fin troppo umiliato dalla NATO, mentre nel 2001 Washington ha dovuto accettare l’ingresso di una Cina “rossa” nella Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) pur di avere un alleato in più nella “crociata” contro il fondamentalismo islamico attentatore alle Torri Gemelle di New York.

E così militari russi e mercanti cinesi hanno lentamente trasformato la logica del duello in quella di un triello tra USA, Russia e Cina, a fronte del quale valgono nulla un Medio Oriente dilaniato dall’odio religioso tra sunniti e sciiti ed una Unione Europea tuttora in formazione attorno a un euro che è una moneta “in comune” e niente affatto una moneta unica. Ora nella logica del “triello” il primo che spara muore perché il terzo lo uccide, a meno che tra due degli avversari non sia stato predisposto un qualche accordo che riporti alla logica del duello. Così le possibilità combinatorie risultano tre: Stati Uniti+Russia contro Cina oppure Stati Uniti+Cina contro Russia oppure ancora Russia+Cina contro Stati Uniti. Tuttavia queste combinazioni non sono fra loro tutte equivalenti se vi aggiungiamo la considerazione geopolitica genuina (di Halford Mackinder in Il perno geografico della storia, 1904) secondo la quale sul pianeta esiste un luogo privilegiato il cui governo è capace di consentire il dominio del mondo. E’ questo l’Heartland, ovvero il “cuore della terra”, coincidente (non per scelta politica, ma per collocazione geografica) con l’estensione euroasiatica della Russia, che però soffre della limitazione di essere rinchiuso dentro il continente non avendo alcuno sbocco sui mari caldi. Ecco perché la sua “vocazione geopolitica” non può essere se non quella di traboccare su una di quelle terre di confine che invece vi si affacciano, come l’Europa sull’Oceano Atlantico, i Balcani sul Mediterraneo, il Medio Oriente sull’Oceano Indiano o la Cina sull’Oceano Pacifico. Ma siccome al momento la Russia è impedita nella sua proiezione verso l’Europa e i Balcani dal “dispositivo NATO” (vedi la Prima questione) ed è coinvolta nel Medio Oriente in un groviglio islamico al momento irrisolubile (vedi la Seconda questione), non le resta, per espandersi verso un mare caldo, che volgersi verso est, e quindi verso la Cina e l’Oceano Pacifico. Ma questa prospettiva, se mai si realizzasse, darebbe origine ad una inedita Russasia tutta terrestre che potrebbe segnare la fine di quel dominio marittimo sul pianeta conservato dagli Stati Uniti dal 1945 fino ad oggi.

2. La Cina e le inquietudini del dollaro.

Ma, sempre secondo la logica geopolitica autentica, nel caso di Russasia salirebbe al governo del mondo pure quella “terra di confine” che si è alleata al “cuore della terra”, ossia la Cina che, superata la crisi di regime del 1989 con la repressione brutale di piazza Tien an Men, rimane tuttora dichiaratamente comunista. E come mai? Perché, in cambio del mantenimento di quella connotazione politica, il governo di Pechino ha consentito al suo popolo di aprirsi ad un consumismo interno assicurato da uno sviluppo economico trainato, dopo l’ingresso nel WTO, dall’esportazione fuori dai confini di prodotti cinesi a prezzi stracciati per il basso costo della manodopera impiegata. E chi più ne ha approfittato (è proprio il caso di dire) è stata la grande distribuzione americana che li ha smerciati ai propri consumatori per accrescerne, senza bisogno di aumentarne i salari monetari, il potere d’ acquisto.

A conseguenza di queste importazioni negli Stati Uniti si è creato un deficit commerciale (Import > Export) nei confronti della Cina che nel 2017 ha toccato i 375 miliardi di dollari (“La Repubblica”, 26.7.2018). Ma come è stato pagato negli anni questo disavanzo? Naturalmente con dollari, che tuttavia sono stati restituiti agli Stati Uniti in cambio di titoli del loro debito pubblico per lucrarne gli interessi fino alla data del rimborso. Così la Cina, da esportatrice netta di merci, si è trasformata in paese creditore, mentre gli USA, importatori netti, sono diventati nei suoi confronti un paese debitore per un ammontare, nel novembre 2014, di 1250 miliardi di dollari (ma essi sono in debito anche verso il Giappone per 1241 miliardi ed altri paesi per un totale complessivo di 6112 miliardi). E questo rappresenta un elemento di fragilità per il paese debitore perché che cosa mai succederebbe se la Cina intendesse liberarsi del suo credito vendendolo anticipatamente sul mercato? Che, per evitare che il valore di quei titoli precipitasse, la Federal Reserve sarebbe costretta ad acquistarli in cambio di dollari, stampando ancor più moneta il cui valore necessariamente diminuirebbe. Ne seguirebbe una crisi di fiducia nel “biglietto verde” che potrebbe indurre anche altri paesi a vendere i titoli pubblici americani posseduti, nonché a non accettare più quei dollari svalutati negli scambi internazionali a favore di un’altra moneta mondiale più credibile, qualora ci fosse. Potrebbe essere lo yuan? Non al momento, come osservano gli economisti, perché manca alla Cina la condizione necessaria per imporre al mondo la sua moneta, e cioè un sistema finanziario così sofisticato da consentirle di gestire il passaggio da nazione creditrice a debitrice netta con il resto del mondo (cfr. F. Sisci, Pechino non è pronta a insidiare il dollaro, “Limes”, 2015, n. 2) e questo perché, come spiegato da M. De Cecco e F. Maronta in Il dollaro non teme rivali sullo stesso numero di “Limes”, «la centralità monetaria è pagata al prezzo di un alto deficit commerciale, a sua volta sostenuto (anche) da un indebitamento pubblico e privato reso possibile proprio da questo signoraggio».

Eppure la prospettiva di una “de-dollarizzazione” è sempre più incombente e siccome vale la regola keynesiana (formulata al tempo di quell’accordo di Bretton Woods che ha sancito il trapasso ufficiale, quale moneta mondiale, dalla sterlina al dollaro) per cui l’aggiustamento dei conti «è obbligatorio per il debitore e volontario per il creditore… perché, mentre le riserve di un paese non possono scendere sotto lo zero, non esiste un massimale che definisce un limite superiore» (cit. in B. Steil, La battaglia di Bretton Woods. J. Maynard Keynes, Harry D. White e la nascita di un nuovo ordine mondiale, Donzelli, Roma, 2015), spetta agli Stati Uniti attivarsi al più presto per ridimensionare i suoi conti con l’estero.

Risalendo alla causa dello scompenso finanziario, è il deficit commerciale, soprattutto nei confronti della Cina, che va ridimensionato. Ma come? Nel rispetto del libero scambio Barak Obama aveva provato, nel 2015, a minacciare sul piano militare, contestando la rivendicazione cinese di alcune isolette del Mar della Cina Meridionale (come le Spratly e le Paracelso) tra le quali passano ogni anno merci per più di 5000 miliardi di dollari. Ne è seguito un “braccio di ferro” navale ed aereo sempre a rischio d’incidente, ma senza che si sia mai arrivati ad un confronto militare diretto tra le due super-potenze perché entrambe armate di quelle bombe atomiche che impediscono il superamento dell’“ultimo miglio”.

3. L’assalto alla Cina.

Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca lo stile del confronto con la Cina si è fatto invece immediatamente economico. Non più tante prove muscolari militari, bensì piuttosto dazi diretti sulle merci cinesi importate negli Stati Uniti, così da renderne l’acquisto non più conveniente. Certamente Trump avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato svalutando il dollaro così da incentivare le esportazioni americane, ma non sarebbe stato rispettata la sua parola d’ordine di America first, compreso evidentemente anche il dollaro! Così a Davos, nel gennaio 2017, lo si è visto proclamarsi paladino di un “protezionismo prossimo venturo”, mentre il presidente cinese Xi Jinping, in un paradossale scambio delle parti, si è dichiarato strenuo difensore del libero commercio. Ora è del tutto evidente che per entrambi vale solo il proprio interesse economico, però Trump ha buoni motivi per accusare la Cina di approfittare della ”clausola di favore” (dazi più alti sulle proprie importazioni rispetto a quelli consentiti agli Stati Uniti) che le venne assegnata al momento del suo ingresso nel WTO in quanto “economia emergente”, ma che dopo 17 anni di sviluppo economico sfrenato fa un po’ ridere. Infatti per Trump il free trade è legittimo solo se è fair trade, ossia solo se è “equivalente”, e quello tra Cina e Stati Uniti non lo è più, se mai lo era stato.

Per questo vanno cambiate le regole del commercio e, se Pechino non intende abbassare i suoi dazi, sarà Washington ad aumentare i propri. E se sul momento nessuno lo aveva preso sul serio, Trump era invece così determinato da introdurre, all’inizio del 2018, dazi del 25% sulle importazioni d’acciaio e del 10% su quelle di alluminio. Giustificazione presidenziale: «quando un paese non produce più alluminio e acciaio non è quasi più un paese» (“La Repubblica”, 2.3.2018). Naturalmente la misura non vale solo per le importazioni dalla Cina, ma pure per quelle dall’Europa, dalla Germania soprattutto, e già che ci siamo perché non alzare dazi anche contro le automobili tedesche e giapponesi? Giustificazione presidenziale: «le automobili e i loro componenti sono cruciali per la nostra forza come nazione» (“La Repubblica”, 25.5.2018). Vengono così poste le premesse per una “guerra commerciale” con Pechino che, per ritorsione, elenca 5.207 prodotti made in USA da colpire con un dazio del 25%, mentre Bruxelles intenta presso il WTO un’azione legale sia contro gli Stati Uniti che contro la Cina per violazione degli accordi internazionali.

Ora sia chiaro che il protezionismo non è un disvalore a fronte del valore del free trade: è soltanto una particolare misura di politica commerciale che può essere utilizzata, se necessaria, in un particolare momento storico, come avvenne negli anni Trenta del Novecento (il caso è sempre citato perché sarebbe stato l’innesco della Seconda guerra mondiale) ma pure negli anni Ottanta dell’Ottocento (e questo caso è meno ricordato sebbene poi ne seguì la Belle Epoque). E se è pur vero, come dicono gli inglesi, che la qualità del budino si misura col mangiarlo, anche la svolta daziaria di Trump (accompagnata, non lo si dimentichi, nel dicembre 2017 da una riforma fiscale favorevole al ritorno dei capitali americani dall’estero) va giudicata dal suo risultato. Il quale ha portato i capitali internazionali, preoccupati dai diversi “rischi-paese” in giro per il mondo, a ritrovare il loro miglior approdo negli Stati Uniti, mentre da par suo la Federal Reserve li ha invitati rialzando il tasso di sconto (al momento i Treasury bonds pagano ormai più del 3% d’interesse). L’effetto è stato un PIL stimato per il 2018 al 4,2%, il miglior dato da quasi quattro anni, mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 4%, al minimo degli ultimi vent’anni (“La Repubblica”, 30.8.2018). Euforia presidenziale: «Siamo l’invidia economica del mondo. Finalmente l’America torna ad essere prima» (“La Repubblica”, 29.7.2018). Insomma, non è che il “delitto” di protezionismo sia pagante?

4. La reazione di Pechino.

Però non si può dire che la Cina abbia atteso il blocco protezionistico trumpiano alle proprie merci in vendita oltremare per preoccuparsene, avendo cavalcato da tempo due direzioni “di protezione” distinte. La prima, la più istintiva, è stata quella (per usare una terminologia inconsueta introdotta da Michal Kalecki negli anni Trenta del secolo scorso) delle cosiddette esportazioni interne, ossia dei consumi nazionali sostenuti da una politica di progressiva crescita delle remunerazioni salariali. La seconda è stata invece quella delle esportazioni esterne ma terrestri approfittando della contiguità territoriale con la Russia siberiana. Si sa che la Siberia è quasi priva di popolazione, ma è facilmente percorribile per via ferroviaria fin dal tempo della mitica Transiberiana che da Mosca conduce a Vladivostok. E allora, piuttosto che la vecchia Via della Seta di Marco Polo che attualmente finisce nella instabilità medio-orientale, perché non aprirne una nuova – che si potrebbe anche chiamare la Via della Steppa – che congiunga Pechino a Mosca per via siberiana (cfr. A. Marcigliano, Lungo i corridoi dell’Eurasia, “il Borghese”, febbraio 2014)?

Al momento la Russia resta una economia monodimensionale centrata sull’esportazione di materie prime (gas e petrolio) in direzione europea, che però le sanzioni internazionali introdotte su sollecitazione americana per la secessione unilaterale della Crimea mettono in difficoltà. Così gli unici elementi di supremazia che le restano sono l’eccellenza relativa della sua industria bellica e l’attivismo militar-diplomatico manifestato di recente nel Medio Oriente. E’ per queste limitazioni che la Russia può essere particolarmente sensibile ad una collaborazione di scambi economici con la Cina: materie prime e armamenti da una parte contro manufatti industriali e di consumo dall’altra e da fatturarsi in rubli oppure in yuan, basta che non siano dollari! E’ pur vero che storicamente le relazioni politiche tra Mosca e Pechino sono sempre state problematiche a causa delle tensioni sul confine condiviso. Però nel tempo questa frontiera è diventata più porosa e nella parte russa si sono insediati stabilmente o stagionalmente una gran quantità di cinesi “siberiani” che stanno dando luogo ad una popolazione meticcia, in crescita numerica, che vive principalmente lavorando nelle aziende di trasformazione del legno, dell’estrazione dei minerali e del commercio frontaliero. Pur restando guardinghi, negli ultimi anni i russi si stanno orientando in direzione di un piano di reciproco vantaggio economico, come si è visto ad esempio nel caso della costruzione del grande ponte ferroviario sul fiume Amur, da inaugurarsi nel 2019, che consentirà l’integrazione dei trasporti nel cosiddetto Corridoio Economico Cina-Mongolia-Russia (CMREC) (cfr. F.W. Engdahl, Russia e Cina costruiscono una nuova geografia economica, “New Eastern Outlook”, 16.11. 2017). Ma ciò che più dovrebbe cementare la convergenza di interessi saranno le imminenti manovre militari russo-cinesi a Tsugol, dove si incontrano i confini tra Russia, Cina e Mongolia, che avranno, come annunciato nella dichiarazione ufficiale, «una dimensione di scala senza precedenti sia per estensione di territorio che per numero di truppe coinvolte» (cit. in L. Lago, Di fronte alle minacce degli Usa la Russia e la Cina uniscono le loro forze, controinformazione.info, 27.8.2018).

Più in generale, nel grande progetto cinese della Nuova Via della Seta (yi dai yi lu = one belt, one road) le relazioni economiche con la Russia darebbero luogo ad un nuovo modello di geopolitica funzionale rivolto a costruire moderne infrastrutture connettive multi-modali (dalle ferrovie alle pipe-lines, dalle dorsali informatiche alle strade) sull’intero territorio di “Russasia”. E con reciproco vantaggio perché la Russia, aggirando l’arretratezza economica in cui si trova, avrebbe la convenienza di ottenere sul proprio territorio siberiano infrastrutture moderne, mentre la Cina avrebbe l’accesso a nuovi mercati per i propri prodotti in cambio di quelli che le mancano (come le materie prime energetiche e pregiate di cui ha costante bisogno), mentre estenderebbe una sorta di propria sovranità allargata sulle infrastrutture finanziate, costruite e messe a disposizione dell’altro partecipante al progetto (cfr. P. Khanna, Connectography. Le mappe del futuro mondiale, 2016). E sarebbe allora un curioso destino quello del Celeste Impero, che oggi si trova protagonista di una nemesi storica: dopo aver costruito la Grande Muraglia per difendersi dai mongoli e dall’Orda d’Oro di Kublai Khan che pure lo dominò, oggi intenderebbe favorire la costituzione di una grande massa geografica continentale in cui sarebbe compreso, a mo’ di suo “nocciolo duro”, il “cuore della terra” – e chi governa il “cuore della terra” governa il mondo, come Mackinder dixit. Ma gli Stati Uniti starebbero a guardare?

Qui e qui le puntate precedenti

Libia - Francesi inaffidabili hanno distrutto la Libia e continuano a pestare melma e ci sono gli euroimbecilli italiani che si sono venduti corpo e anima a questi ladri che rubano all'Africa materie prime in quantità massive

La costante presenza della Francia (Total) nelle corruttele italiane della Val d’Agri: Parigi ambisce a destabilizzarci per dare continuità al progetto EU e per far affari con le sue imprese?

Yahoo Finanza 7 settembre 2018 
di Mitt Dolcino (Scenari Economici)

Mi raccontavano amici del Monginevro che dopo la fine dell’ultima guerra i francesi presero possesso di molti territori entro i confini italici, nonostante la pace. La situazione perdurò mesi, alcuni dicono anche alcuni anni, non volevano andarsene, i pascoli li consideravano loro. Alla fine cedettero, con i soliti piagnistei. Chi li conosce sa che i nostri vicini occidentali sono un popolo invadente, purtroppo invidioso, tanto da addirittura cambiare la data di nascita di Napoleone (secondo Jean Toulard, uno dei massimi storici del condottiero genovese, molto più credibile del cantore ufficiale di Napoleone, quel Chateaubriand che si prestò ad adattamenti nazionalistici della storia del condottiero, ndr) con lo scopo di non mettere in dubbio la francesità dell’Imperatore: in realtà Napoleone Buonaparte era un baldo genovese se proprio non lo vogliamo chiamare italiano, che per farsi ammettere all’alta scuola di guerra di Parigi dovette addirittura farsi cambiare il cognome togliendo la fastidiosa “u” che dava al suo cognome un suono troppo italianeggiante, dunque fu Buonaparte convertito in Bonaparte. Gli italiani, anche ai tempi maestri dello scherno, ancora oggi lo ricordano nel centro di Milano, il famoso Foro Buonaparte, tanto per non dimenticare le vere origini di colui che fu Imperatore di Francia.

Questo per far capire il livello di aggressività franca anche culturale nei confronti del Belpaese, senza citare quante volte si tentò di invaderci.

Oggi la Francia fa vedere il meglio di sé nel caso Total della Val d’Agri: i nostri giudici, intenti a far carriera con condanne esemplari e soprattutto mediatiche comminate ad italiani di grido, sembrano non notare che lo scandalo della Val d’Agri di oggi è del tutto simile nella dinamica a quello del 2008 quando l’AD di Total Italia venne addirittura arrestato, ne abbiamo già scritto*; il processo all’ex AD francese di Total per i fatti di 8 anni fa rischia di arenarsi per prescrizione, strano che per questo caso non venga invocato l’aumento dei termini prescrittivi.


La cosa interessante è come al solito unire i puntini: partiamo da un ex primo ministro italiano prima ripara in Francia, dopo aver servito in Italia per una decina d’anni, andando ad insegnare alla scuola di geopolitica francese, leggasi servizi segreti d’oltralpe. Lo stesso primo ministro era legato al think tankPD “Nens”, soggetto che ai tempi addirittura studiò la privatizzazione di Finmeccanica, l’azienda della difesa italiana, suggerendo di “alienarla” almeno in alcune sue parti in quanto non sufficientemente grande (vi lascio immaginare a chi consigliò di vendere, …). La cosa bella dei francesi è che non fanno attenzione ai dettagli: il soggetto che per Nens fece l’analisi che consigliava l’alienazione non era un italiano bensì un francese, o meglio una non molto nota ai tempi Lisa Jeanne, francese, ricercatrice della stessa università dove ora lavora Enrico Letta. Della serie, ci prendono per imbecilli.

Oggi vediamo sui media lo scandalo di Total in Val d’Agri che fa dimettere un ministro, senza però guardare indietro alle dinamiche del 2008 che sono del tutto sovrapponibili allo scandalo attuale. Il problema è che i giudici sembrano poco attenti ad analizzare la sostanza che vuole accanto ad un sospetto corrotto anche un sospetto corruttore. E vista la cronaca dei due casi, l’azienda (fattualmente) di Stato francese del petrolio Total è la costante….


A pensarci bene Total è anche la stessa azienda interessata ad impossessarsi dei giacimenti di ENI in Libya, la stessa azienda che subì ai tempi di Scaroni l’azzardo che portò tutti i dirigenti pesanti ex NOC (azienda petrolifera libica) ex Gheddafiani a lavorare a San Donato, ricordo che Sarkozy dovette volare in fretta e furia in Libya per cercare di trovare una soluzione (che non ci fu, i libici sanno bene che gli italiani non sono nemmeno lontanamente traditori come invece costantemente sono i francesi, nessuno in nordafrica si fida dei galli, ndr). Oggi la situazione a Tripoli e dintorni è che la Francia prima ha fatto cadere Gheddafi per cercare un governo meno anti-francese, poi sbaglia i conti in termini di conseguenze e non si accaparra quasi nulla nel post-golpe, dunque cerca di alzare la tensione e fa gran casino con l’attivismo (coperto) targato Isis e legione straniera, finalmente cerca di coinvolgere l’Italia nel caos libico per darle la colpa, il Governo non abbocca e quindi di conseguenza ecco la tremenda incazzatura di Parigi che oggi vediamo trasposta nello scandalo Guidi… Anche questa è una chiave di lettura (guardate la tabella seguente e capirete come molto probabilmente anche le tensioni con l’Egitto sono state create ad arte, ENI in loco è fortissima al contrario di altri, a pensar male…).


Ma vi prego, non fermatevi qui. Prima del casino della Val d’Agri abbiamo avuto il non casualesequestro del peschereccio ligure nel tratto di mare che Parigi ritiene sia suo a seguito del trattato di Caen, trattato chiaramente estorto al governo italiano in un momento di grande difficoltà come concambio dell’approvazione in sede europea della legge di stabilità dell’anno scorso quando rischiavamo la bocciatura.


E come dimenticare il fatto che l’Ammiraglio Giuseppe De Giorgi, Capo di Stato maggiore della Marina, che per l’Italia segue anche l’affare delle fregate italiane vendute al Qatar, sia stato non casualmentetirato dentro lo scandalo Guidi, affare in cui sembra sia intervenuto addirittura il presidente francese Hollande per NON far firmare i contratti per le fregate italiane, fregate targate guarda caso Fincantieri (tutto torna, memento quanto detto prima, Nens, Lisa Jeanne, E. Letta etc.). Guarda caso anche l’Ammiraglio – come noi – si era lamentato delle intemperanze francesi nel tratto di Mediterraneo conteso a seguito del trattato di Caen, su questo sito invocammo l’intervento della Marina non a caso**… Bene ha fatto il governo a difenderlo. Leggete l’articolo sotto e capirete di cosa sto parlando***.
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(Merito di Di Maio)

Va capito che oggi l’attacco all’Italia ed al Governo ripercorre quello che portò al golpe del 2011, un attacco al Paese da parte di interessi stranieri per il tramite di cooptati locali. Chiaro, oggi il Governo rompe le scatole in EU ossia agli europei che si vogliono impossessare dei nostri attivi: da una parte non cede in Libya e dall’altra grida a gran voce l’ottusità – e, fastidio del fastidio, proprio prima del Brexit, che ucciderà l’EU – di questa EU austera, che ottusità alla fine non è ma solo la manifestazione di interessi contrapposti, oggi mandare al tappeto l’Italia significa potersela comprare per un tozzo di pane e quindi poter tirare a campare qualche mese nella più grande crisi economica degli ultimi 100 anni.

E dunque vediamo l’unità d’intenti del blocco franco-tedesco contro gli interessi di Roma, da una parte la Francia affarista che punta ai deals tattici (comprarsi Telecom, Generali, le aziende del lusso, fare concorrenza a Fincantieri, affondare Saipem, prendere i giacimenti ENI in Libya ecc.). E dall’altra la Germania che dopo aver visto naufragare l’insulso – per l’Italia – progetto di acquisizione (fusione) di ENEL punta al bersaglio grosso, dominare l’Europa.

Noi in mezzo, secondo i nostri nemici ad aspettare felici di andare al patibolo.

Eh no, io non ci sto. E per questa ragione cerco di spiegare su questo sito cosa stia realmente succedendo.

Per inciso, visto l’allineamento ad interessi stranieri, se proprio devo, ad un possibile Enrico Letta primo ministro dichiaratamente filo-francese preferisco certamente tenermi Matteo Renzi (ricordando Montanelli del turarsi naso, orecchie, gola ecc.).

Fantomas per Mitt Dolcino
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Libia - Tripoli una incantevole città e la Francia l'ha distrutta, ricominciamo da lì e dall'Egitto di al Sisi

In Libia non tutto è perduto: 
ecco cosa può fare l’Italia

SET 5, 2018 

Se a Roma si trattiene il fiato per il timore di veder scivolare via definitivamente la Libia dalla propria sfera d’interessi, per via dei recenti scontri di Tripoli, a Parigi non si sta certamente meglio. Si sa, quando in ballo c’è la nostra ex colonia le notizie sembrano più appropriate alla politica interna che a quella estera. E questo non solo per più o meno sopite nostalgie della stagione coloniale del ‘900, ma anche per interessi diretti strategici che l’Italia ha ancora nel paese africano. Più volte Roma è sembrata sul punto di perdere definitivamente i propri contatti con la Libia: è accaduto ovviamente con la sconfitta della Seconda guerra mondiale, è accaduto con l’arrivo al potere di Gheddafi che subito ha proclamato una giornata di odio contro gli italiani (espellendo i nostri connazionali dalla Libia), è accaduto poi ovviamente con il rovesciamento di un Gheddafi che pochi anni prima di morire con Roma ha chiuso importanti partite economiche. 

Ma alla fine un secondo schiaffo di Tunisi in salsa tripolina non si è mai assetato del tutto: l’Italia, tra alti e bassi, è sempre riuscita a rimanere a galla tra il Mediterraneo e le dune del Sahara. E adesso? 

I timori derivanti degli scontri di Tripoli

E qui torna in ballo la Francia ed i suoi schiaffi mediterranei, tentati o presunti. Gheddafi in un’intervista concessa nel 2004 a Giovanni Minoli non ne ha fatto mistero: alla domanda se qualcuno è invidioso del rapporto privilegiato tra Tripoli e Roma, il rais ha risposto affermativamente. Ed ancora tra le due sponde del Mediterraneo non era entrato in vigore il trattato di amicizia concluso tra Gheddafi e Berlusconi nel 2008. Nel 2011 è apparso palese che, dietro l’attivismo di Sarkozy nel premere per raid contro la Libia ufficialmente per tutelare i civili durante la primavera araba, vi è stato l’interesse francese a mettere in discussione lo status quo degli interessi italiani nella sua ex colonia. Ed in un’Italia che ancora, seppur in maniera quasi silenziosa, soffre del complesso dello schiaffo di Tunisi operato dai francesi nel 1881, questo non può aver fatto altro che aggiungere ulteriore inquietudine. 

Eppure dopo il rovesciamento del rais siamo rimasti a galla, proprio come dopo gli anni più bui dei rapporti tra il governo italiani e Gheddafi. Tra gli anni Ottanta e Novanta si è sviluppato un matrimonio di interesse tra Roma e Tripoli: l’ex colonia ha fornito gas e petrolio, in cambio l’ex madrepatria ha dato tecnologie e tanto denaro. Poi, per l’appunto, è arrivato l’intervento Nato con la conseguente fine di Gheddafi. Ma anche se gli imprenditori italiani hanno perso appalti, occasioni ed a volte possibilità di recuperare i debiti contratti con Tripoli, l’Eni è riuscita a salvaguardare i suoi interessi. E, con essi, anche quelli petroliferi ed energetici dell’Italia intera. Il timore adesso è che con il caos a Tripoli, dove ha sede il governo riconosciuto e sostenuto da Roma, tutto possa nuovamente essere messo in discussione. E magari, al posto dell’esecutivo di Al Serraj e del vice Maitig (quest’ultimo spesso in Italia negli ultimi anni), vedere un pugno di ribelli filo francesi. 
Le carte che può giocare l’Italia

Ma in realtà il caos piombato su Tripoli non rappresenta il canto del cigno dell’influenza italiana in Libia. O meglio, potrebbe non rappresentarlo nel breve termine. La parola fine, per la difesa degli interessi del nostro paese nell’ex colonia, non è ancora stata scritta. Questo perché se, come afferma Michela Mercuri in una recente intervista pubblicata sul nostro sito, può essere intravisto lo zampino francese e di Haftar (appoggiato anche da Parigi) negli scontri di Tripoli, dall’altro però anche Parigi non può che ammettere di non poter al momento spodestare l’Italia dalla Libia. Gli scontri di queste ore hanno mostrato la Libia per quello che è: un gigantesco puzzle, dove le pedine sono talmente tante da essere incastrate in un equilibrio difficilmente spezzabile. Non ci sono milizie in grado di dettare legge, al massimo ognuna cerca di accaparrasi il proprio: “Si combatte per la ricerca di un posto al sole”, come afferma ancora Michela Mercuri, non certo per le velleità di prendersi carico di un paese ingovernabile. 

Per cui, anche nell’eventualità che per davvero la Francia ha soffiato sul fuoco di Tripoli, Macron non può fare altro che alzare le spalle e cercare al massimo di proteggere i suoi interessi con Haftar. Proprio quest’ultimo poi, non ha come mira quella di diventare semplice pedina di Parigi: anche il generale che comanda in Cirenaica sa bene che senza un minimo compromesso con l’Italia non potrà fare molta strada. Del resto, dietro Haftar c’è pure l’Egitto di Al Sisi.

E proprio l’Egitto può rappresentare una novità importante per Roma. Alessandro Scipione di AgenziaNova, proprio ai nostri microfoni ha manifestato l’importanza per l’Italia di riavvicinarsi al governo di Al Sisi: “L’Italia – afferma – può rimediare, almeno in parte, al disastroso intervento a guida francese nel 2011. L’avvicinamento all’Egitto, in questo senso, potrebbe essere la giusta mossa per arrivare a una soluzione di compromesso”. Il Cairo, che ha in ballo contratto faraonici con l’Eni per via del giacimento di Zohr e di altri che potrebbero essere individuati a breve, potrebbe essere il mediatore perfetto tra Italia ed Haftar. Ed anche qui, lì dove sembrerebbe dominare l’influenza di Parigi, in realtà tutto potrebbe risolversi con un’altra partita finita in parità: un equilibrio che, a lungo termine, avvantaggerebbe chi in Libia è arrivato per primo e quindi, per ovvie ragioni storiche e politiche, per l’appunto l’Italia.

Si sancisce che le mafie sono parte integrante e funzionale del Sistema massonico mafioso politico che tiene l'Italia in ostaggio


“Mafia non è solo sangue. Ma potere, consenso, relazioni…”. Intervista a Bruno De Stefano
06/09/2018, di Domenico Coviello

La criminalità organizzata che investe nell’economia legale miliardi di euro in imprese, centri commerciali e negozi dando lavoro a migliaia di persone; cittadini che in tutta Italia sostengono le mafie perché si mettono in affari con esse e ne traggono benefici; la “trattativa Stato-mafia” che ogni giorno, nel silenzio, in molte parti d’Italia, le istituzioni compiono davvero. Conversazione controcorrente con il giornalista e scrittore Bruno De Stefano – Premio Siani, ultimo libro: “I boss che hanno cambiato la storia della malavita” (Newton Compton) – su cosa è, quanto conta, come influenza le nostre vite lo strapotere di mafia, camorra e ‘ndrangheta.

Lo scorso 3 settembre, 35° anniversario dell’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, è stata tolta la scorta al capitano Ultimo, l’uomo che arrestò Totò Riina, uno dei mandanti dell’assassinio del generale. Come valuta questa scelta?

Totò Riina, arrestato dal capitano Ultimo nel 1993, è morto, e il cognato Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Ultimo non dovrebbe temere, quindi. Invece mi pare di aver capito che si ritenga ancora in pericolo di vita. E sono in tanti che sostengono la stessa cosa denunciando la revoca della scorta a un vero servitore dello Stato. Se così fosse credo che sarebbe gravissimo. Vorrebbe dire avere la certezza che in 23 anni non è cambiato nulla nella lotta alla mafia, perché uno come Ultimo deve ancora guardarsi dal potere di vecchi boss al 41bis.

Capaci e Via D’Amelio rappresenno le stragi più eclatanti e devastanti mai accadute. Come è cambiato da allora il potere mafioso in Italia?

Faccia un passo indietro e si chieda: dopo Capaci e Via D’Amelio nel ’92 e le stragi di Firenze, Milano e Roma del ’93 cos’altro deve accadere perché la mafia venga sconfitta e cessi di esistere? Possibile che esistano boss, come Matteo Messina Denaro, ancora latitanti? Comunque sì, la mafia oggi è qualcosa di diverso da quella stragista che si affermò tanti anni fa.

Perché, quali sono le caratteristiche della mafia oggi?

Non ha più bisogno di sparare; ha un grado di penetrazione totale nell’economia legale in cui reinveste i proventi miliardari del traffico di droga o dei rifiuti aprendo attività imprenditoriali con i crismi della legge; non ci sono più i boss alla Totò Riina né c’è più bisogno della struttura piramidale di comando di un tempo. Mafiosi, ma anche camorristi e ‘ndranghetisti hanno cambiato pelle. Hanno dovuto inventarsi nuovi business, oltre al pizzo o al contrabbando, dopo un’intensa azione repressiva dello Stato. Oggi sono manager. I loro figli studiano, in alcuni casi, a Londra. 

Com’è possibile che però uomini spesso rozzi, senza istruzione né cultura, tengano in scacco intere zone dell’Italia? 

Hanno appoggi più in alto, e a fianco, a loro. Senza voler per forza teorizzare il cosiddetto terzo livello. C’è una larga fetta della nostra società che è connivente, che crea la base di un vasto consenso sociale attorno alle mafie. Oggi, per fare affari, i mafiosi hanno ancor più bisogno di figure professionali che consentano loro di aprire attività legali per riciclare il denaro sporco, ad esempio. Ed ecco allora che il mafioso, il camorrista o lo ‘ndranghetista ha bisogno di avvocati, ingegneri, commercialisti, funzionari di enti pubblici. Non solo di uomini politici e imprenditori corrotti, massoni deviati o uomini di Chiesa compiacenti. Deve saper interloquire con altri poteri, saper intessere relazioni ai piani alti come ai piani bassi. Faccio un esempio storico: Raffaele Cutolo. Il capo della Nuova camorra organizzata negli anni ’80 fa il salto di qualità e diventa un criminale intoccabile perché viene chiamato in causa da altri poteri per risolvere un caso politico: il sequestro, da parte delle Br, dell’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, Ciro Cirillo, che andava liberato. E così fu.


La trattativa fra Cosa Nostra e pezzi dello Stato, fra il 1992 e il 1994, per la quale è arrivata lo scorso aprile una storica sentenza di condanna dal tribunale di Palermo, cosa è stata, come va giudicata?

Nessuno di noi vuole uno Stato che scende a innominabili compromessi con la criminalità organizzata. Credo però che questa materia vada trattata con cautela, freddezza e la maggiore obiettività possibile. Siamo assolutamente certi che la trattativa è stato il male assoluto? Guardi, “trattative”, o se vogliamo chiamiamola una certa “tolleranza”, da parte delle istituzioni vengono messe in campo, di fatto, tutti i giorni in certe zone d’Italia. Lancio una provocazione: possibile che, ad esempio, Scampia a Napoli, arcinota per essere quantomeno una enorme piazza di spaccio, non possa essere liberata del tutto dalla criminalità? Credo che in casi come questo scatti un meccanismo in base al quale si temono conseguenze valutate, a torto o a ragione, per certi aspetti peggiori. Purtroppo, infatti, la camorra, come le altre organizzazioni mafiose, costituisce in alcune zone una sorta di Stato parallello in grado di garantire protezione sociale ed economica a centinaia di famiglie, sia pure sotto la minaccia del terrore più cupo.

Nel suo libro “I boss che hanno cambiato la storia della malavita” lei tratteggia i grandi criminali ma parla anche delle vittime. C’è un profilo che l’ha colpita maggiormente?

Voglio ricordare due ragazzi: Luigi Sequino e Paolo Castaldi, poco più che ventenni. Furono uccisi nel quartiere Pianura di Napoli nel 2000 mentre erano seduti in auto a parlare fra loro. Non avevano nulla a che fare con il crimine. Erano due giovani innocenti. Fu un’esecuzione camorristica: i killer li scambiarono per i guardaspalle di un boss avversario e li trucidarono, crivellandoli di colpi. Per assurdo è quasi peggio di certe vittime di mafia sciolte nell’acido in quanto familiari di boss nemici, a mio avviso. Nel senso che, nell’atroce logica criminale della mafia, lo sciogliere nell’acido è un folle crimine “punitivo”, come avvenne per il piccolo innocente Giuseppe Di Matteo, 15 anni, figlio del boss Santino. Nel caso di Sequino e Castaldi si tratta invece di persone innocenti massacrate solo perché erano fuori casa loro nel momento sbagliato. Ciascuno di noi avrebbe potuto trovarsi al posto loro. Bisogna sempre considerare, inoltre, il dolore di due intere famiglie: distrutte.

Da molto tempo sono in voga in Italia serie tv, fiction e film su mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ci aiutano a prendere coscienza di cosa è il grande crimine organizzato o no?

Se penso alla Piovra degli anni ’80 sì. Era fatta benissimo. Fu quasi “profetica” come serie televisiva, nel senso che ci ha fatto vedere l’evoluzione della criminalità organizzata che poi si verificò negli anni successivi. Dopo, a mio avviso, c’è stato un eccesso. E forse oggi siamo a un punto di quasi inutilità di tutta questa produzione video. Del resto le fiction servono più per creare emozioni che per discernere e capire la realtà. C’è un film, del 2017, che mi è piaciuto per il modo, crudo e senza sconti, col quale ritrae la realtà della vita quotidiana sotto il gioco della camorra: L’equilibrio di Vincenzo Marra (presentato alla mostra del cinema di Venezia 74, ndr.). Guardarlo, anche più di una volta, può aiutare a capire molte cose.

Photo credits: Facebook e Twitter / Bruno De Stefano. Nella foto in primo piano, di Antonio Gibotta, lo scrittore con l’amatissimo gatto Eros

Gli ebrei nelle terre di Palestina sono un cancro da estirpare - gli ebrei curato, armato rifornito di munizioni i terroristi tagliagola mercenari

L'Esercito israeliano ha fornito armi e soldi ai "ribelli in Siria, censurata notizia sul Jerusalem Post


L'IDF ha costretto il Jerusalem Post a rimuovere il suo articolo esplosivo dove di svelava come l'esercito israeliano ha fornito armi e denari ai ribelli siriani. Lo ha ha confermato a RT il caporedattore del quotidiano israeliano.

"Ci è stato detto dal censore militare dell'esercito di rimuovere quella parte dell'articolo", ha dichiarato David Brinn, capo redattore del Jerusalem Post, rispondendo a RT che aveva chiesto conferme su questa censura. Nell'articolo c'è scritto, "L'IDF conferma: Israele ha fornito armi leggere ai ribelli siriani," sostenendo che l'esercito israeliano ha riconosciuto per la prima volta di aver fornito denaro, armi e munizioni ai ribelli siriani. L'articolo è stato rimosso poche ore dopo essere stato pubblicato senza alcuna spiegazione.

Secondo Brinn, l'articolo è stato rimosso "per ragioni di sicurezza evidentemente". L'IDF ha dichiarato a RT che non avrebbe commentato la questione.
L'articolo su Jerusalem Post è stato rimosso poco dopo la pubblicazione, ma una versione dell'articolo può ancora essere letta utilizzando la cache di Google
Nel reportage si spiegava che i regolari rifornimenti di armi leggere e munizioni ai "ribelli" nelle zone che controllavano vicino al confine israeliano facevano parte dell'operazione 'Good Neighbor', che per Israele rappresentava come una missione umanitaria, incentrata sul fornire ai siriani "cibo, vestiti e carburante".

Israele ha armato almeno sette diversi gruppi armati nelle alture del Golan in Siria, secondo l'articolo, tale notizia era stata riferita anche da un altro quotidiano israeliano, 'Haaretz', lo scorso 19 febbraio. L''esercito israeliano, si sottolinea, credeva che fornire armi ai "ribelli" sarebbe stata "la decisione giusta" per cercare di tenere Hezbollah e l'Iran lontani dalle alture del Golan occupate da Israele con tali mezzi.

L'articolo cancellato fa seguito a un'altra importante rivelazione. Lunedì scorso, l'IDF ha confermato di aver effettuato oltre 200 attacchi contro 'obiettivi iraniani' in Siria nell'ultimo anno e mezzo.

Notizia del: 06/09/2018

Giulio Sapelli - l’Italia è l’unico Paese nel plesso mediterraneo che ha un Governo che regge saldamente


Altro che rischio default. L’Italia è la più solida in Europa. Parla Sapelli: gli investitori internazionali ci marciano. Francia e Spagna stanno peggio e la Germania non ride 

6 settembre 2018 di Carmine Gazzanni


“Altro che spread. Non c’è pericolo né di default né che i titoli non vengano più acquistati col Governo Conte”. Il ragionamento del professor Giulio Sapelli muove da un assunto: “Quello italiano è il Governo più stabile. Chi investe lo sa bene e ne tiene conto”.

E il rischio spread di cui tutti parlano?

“Guardi, conosco, per quella che è la mia tenera età di 71 anni, che cosa sono le cuspidi del potere finanziario che vedono molto più a lungo periodo rispetto alla borghesia nostrana e soprattutto ai giornalisti mainstream che invece giocano al gioco pericolosissimo, ma per loro redditizio, del default e dell’arrivo della Troika”.

E cosa dicono le cuspidi?

“Non c’è pericolo né di default né che i nostri titoli non vengano più acquistati dagli investitori, perché l’Italia è l’unico Paese nel plesso mediterraneo che ha un Governo che regge saldamente”.

E gli altri?

“Beh, la Spagna ha un Governo minoritario, in Francia anche i ciechi vedono che Macron è in una crisi terribile, neanche Hollande aveva raggiunto un calo di popolarità così inquietante. Non parliamo poi dei Paesi balcanici e della Grecia che è stata dissanguata e che appartiene, di fatto, al capitalismo tedesco”.

A proposito di Germania: anche a Berlino c’è aria di crisi?

“Assolutamente sì. La Baviera è arrivata a imporre un suo esponente di alto livello (Martin Weber, ndr) e confidente di Seehofer, alla cancelliera Merkel, che ha dato la presidenza del Partito popolare europeo e si appresta a dare la presidenza della commissione a un rappresentante della Baviera, a quella regione che nelle guerre di successione spagnole stava con i Borbone mentre la Prussia stava con gli Asburgo. La Germania, insomma, si appresta a vivere una pesante crisi non solo economica ma anche politica”.

Resta l’Italia, dunque.

“Esattamente. Coloro che seggono nel vertice dei grandi fondi d’investimento, soprattutto i fondi pensione che hanno bisogno di stabilità, cosa vuole che facciano? Compreranno titoli italiani sperando che questo Governo duri”.

È normale, allora, che lo spread scenda?

“È normalissimo. Basta ragionare con la propria testa e non con la testa del bancomat al contrario. Solo se ragioni come un bancomat al contrario, ovvero dici le cose in base a ciò che ti infilano dentro, finisci col pensare che lo spread salga”.

Secondo lei, allora, è prematuro dire che questo Governo ha “sconfitto” i poteri forti?

“È ancora prematuro. Peraltro bisogna dire che questo Governo è in realtà fatto da tre parti…”

Quali?

“La Lega, che rappresenta la borghesia nazionale e che non dovrebbe così insistere solo sull’immigrazione che è un grave errore. Deve ricordarsi che rappresenta l’ultimo partito della borghesia nazionale. Poi abbiamo i Cinque stelle che rappresentano quello che io chiamo ‘il popolo degli abissi’, alla Jack London”.

E la terza parte?

“Sono proprio le istituzioni dell’austerità. L’eurocrazia è presente in questo Governo con Enzo Moavero Milanesi, ministro degli Esteri, già ministro del governo Monti, e con Giovanni Tria, che tutto è fuorché un uomo che vuole cambiare le regole europee: il professor Savona è stato esautorato, ahimè. È la prova che questo Governo è nato con i cosiddetti poteri forti”.

Ultima domanda sulla Stabilità: il Governo riuscirà a mantenere tutte le promesse?

“Le dico questo: per fare le Manovre, non si devono annunciare. I ministri non devono più parlare. E poi bisogna sempre ricordare che nel contratto c’è un progetto di Governo e il Governo dura cinque anni. E in cinque anni c’è tempo di fare tutto”.