Se ancora sussistessero residue certezze sulla natura puramente razionale della geopolitica, la vicenda Fca-Renault ha il pregio di fugarli del tutto. In un’ottica prettamente economico-commerciale, non uno degli attori coinvolti aveva pieno interesse a sabotare l’accordo proposto da Fiat-Chrysler.
Non gli italo-statunitensi, che fondendosi con i franco-nipponici – Renault, almeno per ora, resta burrascosamente “sposata” a Nissan – si sarebbero aperti una porta sull’Estremo Oriente, utile anche in chiave anti-protezionistica. Per Washington sarebbe stato politicamente più difficile e tecnicamente complesso imporre dazi su auto a marchio orientale prodotte da un gruppo di cui Chrysler è parte integrante.
Non Parigi, alle prese con il relativo nanismo e l’insufficiente proiezione estera del suo settore automobilistico, che l’avevano già spinta – in virtù del suo 15% in Renault – a perseguire l’alleanza con Nissan. E forse nemmeno i giapponesi, le cui motivazioni l’Eliseo non ha tuttavia ritenuto di dover sondare, informandoli ad accordo ormai quasi chiuso – salvo poi mandarlo all’aria. Così consumando la plateale vendetta per la vicenda di Carlos Ghosn, l’ex zar di Renault-Nissan in quota francese la cui brutale rimozione per appropriazione indebita da parte delle autorità nipponiche ha colpito il simbolo e lo strumento della pretesa egemonia francese nell’alleanza.
Ma qui il mercato c’entra poco.
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