Note invernali
Roma, 12 dicembre 2019
Ignorare il tifo, i partiti, le prese di posizioni consunte e consolidate equivale a orizzontarsi in un bosco, di notte. Non è facile, se manca la luce della luna. Ci ho provato, alcune volte; il corpo reagisce dapprima goffamente, a cercare riferimenti non più esistenti; quindi l’occhio si abitua, anche nel fitto delle tenebre, il piede prende confidenza col terreno, si conforma agli ostacoli, le braccia si mutano in tentacoli sensorii; l’orecchio capta sonorità dapprima insondabili. Certo, c’è da vincere la paura. Lo sfiorare d’un ala sconosciuta o lo smuovere delle frasche atterriscono; una sorgente d’acqua, e le sue cascatelle, nel buio, il fragore che ingigantisce nella testa, possono addirittura gettare nel panico più abietto. Perché questo è: panico, come se la Natura volesse possederci e perderci definitivamente, in Sé. Eppure occorre tener duro, a costo di appiattirci al terreno e restare lì, immobili. No, non è facile; il conformismo è una droga potente; il sentiero stabilito dal potere invita a proseguire, sempre: perché inoltrarsi nel bosco?
Siamo talmente assuefatti a prendere posizione all’ombra di tali mascherine - la destra la sinistra la libertà il progresso la reazione - da nemmeno immaginare un mondo deciso da noi stessi, in cui le biforcazioni, i sentieri più sicuri e i pericoli vengono individuati da cippi e segni escogitati dall’esperienza della vita e del passato, senza il comodo di tali meschinità.
Potrei essere più sobrio? La domanda è mal posta. Son sicuro che, nella mia prosa, non dà fastidio qualche parola obsoleta in più e in meno, ma l’assenza dell’attualità.
Cercare l’attualità, spasmodicamente, ricondurre gli eventi alla piccineria di un’iniziativa; cercare, soprattutto, il last minute, il presente spicciolo: in maniera da inscenare qualche gazzarra; e sentirci così al sicuro poiché il fatto quotidiano può ben essere controllato da chiunque. Il fatto quotidiano è stupido, si regge su rapide e ridicole baruffe verbali, di cinquanta parole; ognuno si sente riconfortato: lo scontro incruento e coprolalico assicura dell’esistenza di qualcosa, altrimenti impalpabile, ovvero dell’esistenza della propria personalità, ormai sul catafalco dell’estrema unzione di sé stessi.
Non essere più niente: ecco di cosa si ha davvero paura. Si necessita dell’Altro solo per scongiurare le fitte di un nichilismo incipiente. Allo stesso tempo la dissoluzione attrae: basti osservare come alcuni si gettino nella fanga del dibattito con scomposta inverecondia, vociferando enormità impossibili da dimostrare o guazzabugli di senso che si ereditano da una razionalità ormai dismessa: così come i discorsi degli schizofrenici, un cumulo di metafore infrante, riverbero disperato di anni felici.
Louise Brooks, diva degli anni Venti, un’Americana divenuta europea, scrisse nelle memorie del 1982, pressappoco: il cinema non ha futuro perché allo spettatore è stato insegnato a considerare l’ultima cosa come il meglio, e a ignorare il passato. In tal modo, infatti, il gusto si ottunde, sempre più, come il filo della lama migliore, a passarlo su materia grezza con fare irresponsabile. Il trascorrere delle generazioni aggrava la patologia; l’ultimo uomo si ritrova imbozzolato in una estetica da guscio di noce, cantore di brillocchi e pietruzze da bigiotteria: i veri tesori, intanto, brillano attorno a lui, negletti.
Chi sa passa inavvertitamente, con implacabile logica interiore, dalla proposizione A a quella estrema, F, ignorando i passi intermedi. Tali uomini vengono detti superficiali o emotivi; le loro deduzioni affossate nella stroncatura dell’esagerazione. Ma non è così. Chi sa non può perder tempo ad analizzare ciò che, per lui, è minuzia o cronaca; un uomo di tal fatta salta direttamente alle conclusioni (stavo per dire: alla catastrofe) occhieggiando un particolare, per molti, insignificante. Ex ungue leonem.
Perché i paesi nordici sono i più stupidi? Perché vi si è stabilita, prima di ogni altro paese, la democrazia: nella sua autentica essenza sterminatrice. La democrazia, senza l’ostacolo della storia, dell’arte e dell’appartenenza spirituale, si è sviluppata come un’infiorescenza magnifica a giudicarsi, ma infeconda. E la democrazia, alla lunga, annienta menti e volontà predisponendo al suicidio. La vita del proprio gruppo d’origine, infatti, non viene più riconosciuta, anzi è sentita come estranea; di qui il conflitto tra norma e sangue. La prima vince, il secondo si dilegua. Il sangue, che reclama, in ogni tempo, soluzioni antidemocratiche, è recato nei tribunali da una corte di Menadi furenti e condannato in nome d’una costruzione posticcia e fantasmatica. I giudici, gli esecutori e gli spettatori plaudenti di tale pantomima sono anch’essi delle larve; basta guardarli in faccia.
Uno vale uno? Macché. “Uno per me vale diecimila, se è il migliore”, chiosò l’Oscuro.
Cosa teme la democrazia? Chi organizza la propria vita nel non-voto, nella perfetta indifferenza al tramestio liberale. L’America, quale entità post-apocalittica, ha molto da insegnarci in questo campo.
Si dice: se anche votasse l’1% avremmo costituiti, secondo legge, i nostri Parlamenti e gli apparati amministrativi locali. Certo, ma sarebbero impossibilitati a operare. Il sistema crollerebbe su sé stesso per il minimo raffreddore, venute meno le resistenze immunitarie.
Cosa vogliono i politici? Potere, soldi? No, il vostro voto. La bestia da affamare è quella liberale. L’unica legittimazione è la croce elettorale. Capisco, è difficile ragionare fuori degli schemi democratici. Alcuni Cristiani escogitarono l’appressamento alla morte; noi, più modestamente, un avvicinamento alla libertà.
Il non voto, lo studio assiduo, il tentativo, anch’esso diuturno, di sfuggire ai labirinti burocratici. Nessuno si chiede perché, in tempi di scartafacci, l’esistenza era libera dagli scartafacci e nell’epoca della smaterializzazione e della semplificazione digitale una fattura della società somministratrice d’elettricità rassomiglia a un trattatello universitario?
L’uomo che vota mi ricorda quelle tartarughe d’acqua che salgono i finti scogli dell’acquario, allungando il collo rugoso: nella speranza. Anch’egli, però, come le tartarughe, torna presto a mollo, nell’acqua tiepida e sporca, aspettando la mano benigna d’un padrone sconosciuto che elargisca, svanita l’altra, una speranza novella.
Si dice: l’Italia è troppo grande per fallire! Ma nessuno vuole questo. La si vuole svuotare, dal di dentro, espiantando gli organi uno a uno. Fegato, reni, cornee. Le chiamano privatizzazioni: sono, in realtà, smaterializzazioni, queste sì, assolutamente reali.
Smaterializzare le istituzioni è stato un lavoro, tutto sommato, ben facile. Lasciarne in piedi solo alcune, quelle repressive, volte a boicottare dolosamente chi si sente ancora Italiano, un’astuzia luciferina. Affermare, oggi, d’essere Italiani sollecita inevitabilmente l’attenzione di magistrati, tribunali, polizie, agenzie di spionaggio, centrali usuraie del Fisco. L’oppositore deve aspettarsi, prima o poi, sul proprio cammino, l’apparizione d’una raccomandata dell’Agenzia delle Entrate, d’una intimazione o d’uno scappellotto poliziesco. Son le residue Istituzioni, ammodernate per meglio controllare chi vuol sottrarsi alla Bengodi della Monarchia Universale. Chi insiste non ha alternative: deve fuggire sulle vette innevate; o morire nell’infamia e nella damnatio memoriae.
La puerile femminilizzazione della società ha reso il dibattito un eterno litigio da massaie. L’idealismo, inteso come passo più lungo della gamba, quello che incita al salto nell’ignoto, all’avventura, alla sfida, ha ceduto al passo alla bambagia del praticone. Nessuno prende le cose sul serio; va di moda l’essere umano mezzo cotto: il masscult, che ride di ogni aspirazione alta riconducendo l’empireo al proprio sgabuzzino; il midcult, la cui albagia vive nell’esaltazione d’una cultura effimera e postrema. Nessuno osa più niente, han tutti paura di dire ciò che va detto, anche di fronte al baluginio dell’evidenza. La razionalità stinge nel chiacchiericcio prosaico, da comari; l’accoglimento coatto dell’imbecille nel consesso della Sapienza ha abbassato il livello tanto che, a volte, l’intelligente si vergogna di affermare ciò che impone la logica. Ognuno si riconforta occultandosi alla vista della ragione; ci si accontenta di lavorare alla giornata pur sapendo che l’olio di gomito delle portinaie porterà l’edificio alla rovina.
Se c’è qualcosa di inefficiente ciò va cercato, sicuramente, nell’efficienza quale stile di vita. Per essere efficienti, ci dicono, occorre lavorare almeno dodici quattordici sedici ore al giorno! Il contrario della logica. L’efficiente è quello che opera, invece, riducendo lo spreco dell’esistenza.
Nel dopoguerra si portavano squadre di operai a scavare buche nel suburbio nord; lo stesso facevano quelle del suburbio sud. A metà strada i convogli di camion, ricolmi di terriccio, si incrociavano: quelli del sud andavano a tappare le buche del nord; e viceversa. Tutti erano contenti. L’efficienza assicurata.
Il parassitoide del Ventunesimo Secolo, una sorta di parassita-predatore, ha un rapporto costante e univoco con la vittima ospite. Benché sia la vittima quella, teoricamente, più indipendente (poiché il predatore non può evadere fuori della sua inclinazione biologica: sfruttare), fra i due si instaura, da subito, una reciprocità malsana: colui che subisce, nutre e legittima l’azione del parassitoide, credendo di ottemperare a un dovere; chi sugge, invece, si sente in diritto di farlo.
L’organismo vittima è complesso; il parassitoide semplice: come una bocca dominata dall’istinto unico: divorare.
La simbiosi negativa è detta rapporto democratico (implica concetti come libertà, diritti, giustizia, debitamente rimodulati a svantaggio della vittima); la semplicità del parassitoide-predatore consiste nell’uso dei suddetti concetti, sempre quelli, flautati in loop: l’utopia universale; la passività del paziente-cittadino-elettore riposa, invece, nella rispettosa fede, ormai concretata in tabù, verso queste indimostrabili fole.
Entrambi gli organismi sono destinati alla morte.
Avanzamento della malattia: ripulsa della tradizione, causa pace perpetua, costruzione d’una morale innaturale, sacrificio di sé stessi a tale deità invertita, infiacchimento fisico e depauperamento logico scambiato per progressiva e auspicata incarnazione della nuova Kali, eccitazione fanatica, sfinimento da sabba, catalessi letargica, implosione dell’endoscheletro spirituale, morte.
L’Artista attacca con lo scotch una banana al muro: l’opera è valutata 20.000 dollari; un Compare la stacca e se la mangia provocando fiumi di interpretazioni trasgressive: si sparli purché si parli; il Critico, invece, commenta: “La banana attaccata la muro è un atto di desistenza sessuale. Come i giocatori che, a fine carriera, appendono le scarpe al chiodo. Il messaggio subliminale è, in realtà, un grido disperato: l’artista ci sta dicendo che non scopa più”.
Il candidato, alla luce di tale anamnesi da bar, riconsideri il concetto di reato associativo.
Inutile giudicare l'Artista: come giudicare la muffa sulle pareti scegliendo di vivere in cantina.
Il Tempo, inteso come giornale-quotidiano, se la ride: con la banana e la scopata. Confermando, purtroppo, che la sensibilità del destro medio (leggi: chi, in Italia, si sente, oggi, tale) è davvero quella d’un perfetto coglione.
I giornali, presunti di destra, fanno a gara a confermare i peggiori pregiudizi di quelli di sinistra. L’alterigia dell’ultimo intellettualoide progressista, insomma, centra il bersaglio; il sinistro, di fronte a tali spettacoli, si sente persino riconfortato: lui, il primo traditore dell’Italia, sciocco, fatuo e avido, la scartina dell’intelligenza, ha campo libero; da tali meschini spettacoli da Bagaglino sente, infatti, la vocazione a considerarsi qualcosa di rilevante. Di fronte a tale enormità provo quasi l’obbligo a subodorare un complotto: i destri a eruttare il proprio scandalo becero-futurista con la mano sulla patta; i sinistri a fintamente scandalizzarsi inalberando una profondità inesistente. Ma non c’è complotto, solo le parti di una farsa che assume i contorni di un dramma silente: ognuno, qui, si è ritagliato un ruolo, al caldo, nella tana tiepida della decadenza, e lo rinfaccia all’altro, in un teatrino con le parti già assegnate. Feltri mena scandalo con rozzezze assortite, il destro si esalta; il sinistro (Franceschini?) si picca dandogli dell’ignorante; e c’è il viceversa: il sinistro celebra la “cultura” (le consuete mezze calzette che fan tanto sdilinquere il sinistrato medio) contro la destra incolta e quest’ultima lo deride salmodiando le inevitabili litanie sui salotti progressisti.
Poi, al riparo dei riflettori, ci si dividono le tartine.
La coglioneria appartiene, in solido, a tutti. E però solo il destro (chi, illudendosi, crede di esserlo) la rivendica con tale delirante e compiaciuta trivialità. Le rodomontate da osteria vanno bene, evidentemente, per sgravarsi da ogni responsabilità. Scorreggiare nelle retrovie del pensiero additando la prosopopea altrui dev’essere assai riposante.
In un terreno della periferia nord-ovest vengono rinvenute statue classiche, frammenti di frontone, bassorilievi, iscrizioni; nella zona si stratificano Etruschi, Romani, protocristiani, civitas tardo imperiali, boschi sacri; la croce si mescola a immagini votive dei Rasenna, tombe a pozzetto a cippi miliari, epigrafi di centurioni a incerte grafie altomedievali. Il terreno andrà all’asta in questi giorni. In un mese di ricerche non ho ancora capito con certezza se vi sono vincoli archeologici o meno; la Soprintendenza, o quel che è, arriva col cappuccino in mano, gravata da appena un secolo di ritardo; fruga, pontifica, ammonisce, intima. Intanto il tribunale, sotto la spinta delle banche, procede alla vendita. Una ventina di figure a latere ingrassa da tale minuscola operazione. A chi vende? Al miglior offerente, ovvio. Un palazzinaro? Un ristoratore? Un camorrista? E chi lo sa.
Il candidato, alla luce di quanto esposto, esamini l’enunciato: “L’Italia potrebbe vivere di cultura” e ne calcoli il grado di ipocrisia almeno sin al quinto decimale.
Qualche giorno fa ho assistito a uno spettacolo teatrale: era, nei propositi, la rielaborazione di Fronte del porto; una nullità impersonava il personaggio di Marlon Brando; la regia, invece, era da imputarsi ad Alessandro Gassman, figlio di Vittorio, il quale, suppongo (la mia è una notazione da critico), abbia visto o solo letto distrattamente le versioni di Fronte del porto. O, forse, alternativa peggiore, le ha lette e viste, ma non gli son piaciute: tanto da eliminarle, nella loro essenza vitale, dalla rappresentazione; che, purtuttavia, per mera comodità (le locandine erano già in stampa), è continuata a chiamarsi Fronte del porto. A teatro, il maggior teatro di Roma, un teatro pubblico, è andato così in scena Fronte del porto, in blanda e fuggevole relazione con Fronte del porto.
Dopo circa mezz’ora di deambulazioni sul palco, alcune fantasticherie di rabbiosa impotenza presero a girarmi per il cervello: in un caleidoscopio forsennato e omicida; finché, grado a grado, diluita la furia, anche a causa d’una copiosa circonvoluzione dei succhi digestivi, impegnati a decostruire un calzone al forno di consistenza metamorfica, una soporosa deità ebbe a sorprendermi la ragione, non più all’erta: mi feci un sonnellino. Al risveglio, dopo ripetuti colpi di gomito alla mia destra, la bocca lievemente impastata e gli occhi cisposi, stremato da un sogno indefinito a fior di coscienza, mi riassettai sulla poltroncina per riguadagnare il perduto aplomb. Con vivo piacere notai che qualcosa era cambiato in meglio: la pièce, infatti, volgeva al termine. Gli attori tornavano in scena: per l’applauso finale: un po’ gramo, ma, pare, dovuto; anche ai cani che abbaiano. Il protagonista, soprattutto, s’inchinava, ben oltre i novanta gradi, verso i sopravvissuti, quasi tutti lì per deferenza verso il simbolo della cultura di sinistra - Gassman, intendo - a centodieci gradi circa, misurati col goniometro del compiacimento più sciocco, una due tre volte, come una gallina meccanica che becchi una granaglia immaginaria; lui acceso, verginella dopo la prima notte di nozze, da quella stanca ovazione in trentaduesimo: che gli pareva di stare al Globe Theatre, Londra 1601; sessantenni e settantenni, le membra rilasciate per l’ora tarda, sembravano, infatti, più acchiappar mosche che tributare lodi, ma il Nostro non se ne curava, preso da un breve delirio egocentrico, le braccia aperte a simulare un abbraccio ideale, universale, gandiano; finché, con gesto non del tutto inaspettato, a legger bene quel suo panteismo attoriale da saletta di parrocchia, aveva a togliersi l’abito di scena: onde mostrarci una maglietta: la maglietta delle Sardine, nientemeno; nel nome della libertà.
Il nipote di Mirò vende i capolavori del nonno per aiutare i migranti. Senza chiedere nulla al nonno, ovviamente, già cibo per vermi dal 1983. “Credo di interpretare la volontà di mio nonno …”. Credo, egli dice. È in questi casi che il pensiero torna alle immortali parole di Padoa Schioppa sulle durezze del vivere: mi sa che aveva ragione lui.
Cosa ne pensi delle Sardine? Le loro facce mi pare riabilitino Cesare Lombroso, rispondo, distratto; è un giudizio così, a naso, continuo rivolto al mio interlocutore; è allibito? Ma no, solo deluso: credeva di estirparmi qualche moccolo e si deve accontentare d’una pallida stroncatura. In verità dico queste cose, tra il serio e il faceto, solo per recidere ogni empatia, qualsiasi tentativo di ristabilire una comunicazione sociale minima: amo stare solo, infatti. E questo perché solo nella solitudine ci è concesso ancora qualche sprazzo di grandezza. Qui, in tale folla, ogni anelito celeste, persino l’aspirazione a una mediocre e pensosa dignità, pare impossibile. La frenesia trita la contemplazione, la preghiera, il pensiero; in effetti, nessuno pensa più. Meditare un gesto, una mossa, riguadagnare la compostezza. Ciò rimane una chimera. Si è presi, minuto dopo minuto, nelle spire vorticose della futilità spacciata come essenziale. Scoraggiare, quindi, il prossimo, nei suoi laidi inneschi di finta empatia e altruismo, assume il carattere d’un atto doveroso. La minutaglia della cronaca, il pulviscolo della socialità digitale intorbidano la purezza della meditazione; concentrarsi su un obiettivo (leggere la pagina di un saggio, a esempio) richiede, oggi, un dispendio di energie totalmente sproporzionato al fine. Perché di questo stiamo parlando: è più facile lasciarsi andare, seguire la corrente dell’entropia, che erigere nuclei di resistenza. Energia, non altro. La mente, come un antico macchinario disabituato al lavoro, i pezzi decisivi rugginosi e stenti, richiede un quantum di energia vitale troppo alto per l’organizzazione di unità ordinate e logiche; si desidera, perciò, l’emozionalità, l’illogica; un homunculus, posto di fronte a pagine dense di concetti coavvinti fra loro, cede, da subito: o leggiucchia (una riga sì, quattro no) oppure equivoca. Mi è capitato, non infrequentemente, di vedermi rimproverare per delle parole che esprimevano il medesimo senso di marcia dei rimproveri: solo che i destinatari, pur d’alto livello, almeno in apparenza, avevano inteso esattamente al contrario gli enunciati, confondendo fischi per fiaschi; oppure reazione e rivoluzione; magnanimo con egoista; mal interpretando virgole, e punti e virgola; saltando a pie’ pari, causa fretta (per alcuni la fretta è sinonimo di efficienza), il succo del discorso: “Avevo capito che …”, “Qui non si capisce …”, “Allora ti sei spiegato male …”. Col tempo ho abbassato l’asta delle mie aspettative sino a concedermi a una brutale significazione: di questo passo, ne sono convinto, ci si esprimerà a gesti. D’altra parte, basta leggere un manuale di retorica per avvocaticchi degli anni Cinquanta (prosa enfia, iperboli, trucchi verbali) per rendersi conto che gli ambiti della civiltà si stanno restringendo; oggi pochissimi sono in grado d’intendere quelle pur misere esagerazioni; persino una parola come “spettanza” comincia ad annegare nell’oceano della dimenticanza sostituita da “dovuto”, “quanto richiesto” sino a un definitivo ed esemplare “ciò che mi si deve”.
Rimanere soli, anche per sfuggire a un gioco al ribasso, miserabile, che tutto risucchia per volgerlo a sé, nelle more di un calpestìo squallido e senza ritorno.
L’intelligenza di un popolo dorme nel genoma delle sue viscere, ma può consumarsi velocemente, sino a rendersi inservibile. Questi sono tempi accelerati, in una settimana si dismettono le meditazioni di secoli. Il primo dovere, perciò, è quello di preservare.
La solitudine consente inattualità vertiginose, sorprendenti. Gli eventi riacquistano il loro reale valore tanto che, spesso, si è tentati di ignorarli del tutto. Fatterelli nascosti, invece, risaltano contro il bordone sonoro del cicaleccio globale: piccinerie d’alto valore simbolico. Per discernere, però, occorre silenzio e una prossimità umana severamente scelta.
Quando mi aggiro in biblioteca, mi piace spesso gettare uno sguardo alla cronologia dei prestiti. Il volume delle Quarante poesie di Charles Baudelaire, un’agile e benemerita silloge della Einaudi, reca iscritte, nella colonnetta appiccicata all’uopo, nove date: quella del primo prestito, 24 dicembre 2004, e quella dell’ultimo, 19 aprile 2017. In più di tre lustri, presso uno dei più popolosi settori di Roma (duecentomila anime), solo nove persone (una sono io) hanno sentito l’esigenza di leggere: “Ô fins d’automne, hivers, printemps trempés de boue/endormeuses saisons! Je vous aime et vous loue/d’envelopper ainsi mon coeur …”. La domanda non è: perché gli Italiani non leggono più? L’interrogazione capitale consiste, invece, in questo: perché ci hanno instillato, goccia a goccia, tale disprezzo?
Ma sì, è vero. La sconfitta inaridisce. Si diviene cinici, d’un cinismo sistematico quanto sterile. Si fa d’ogni erba un fascio, grossolani e liquidatori. Lo sguardo è più greve, cala la forza di considerare le sfumature. Ci si fa, insomma, più conformisti, in ossequio inevitabile a ciò che, prima, si denigrava. Da incendiari a pompieri il passo è breve.
A volte mi sorprendo a pensare che la regressione sia dettata dalla volontà, fallace, di sopravvivenza. Troppo raffinati per resistere, l’umanità agogna inconsciamente lo stato meduseo, le ruvide chele di Eliot trascinate sul fondo del mare. Ristare, come rettili, al limitare d’una pozza tiepida. Rinunciare alla complessità, ridivenire bocche, semplici apparati di desiderio: magari già siamo il sogno di un Demiurgo Sconosciuto.
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