L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

martedì 10 dicembre 2019

Stati Uniti inaffidabili mentiscono tranquillamente al proprio popolo. Afghanistan diciotto anni di invasione e ci siamo anche noi italiani servi fino in fondo

LUNEDÌ 9 DICEMBRE 2019
L’esercito e il governo statunitense hanno mentito per anni sulla guerra in Afghanistan

Lo ha scoperto lo stesso governo in una indagine interna, ora rivelata dal Washington Post

 
(AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Una lunga e dettagliata inchiesta interna del governo degli Stati Uniti ha scoperto che lo stesso governo e l’esercito statunitense hanno mentito per anni sull’andamento della guerra in Afghanistan, che gli Stati Uniti stanno combattendo ininterrottamente dal 2001. I principali punti dell’indagine sono stati pubblicati oggi dal Washington Post, che da tempo ne era a conoscenza e per circa tre anni ha cercato di pubblicarli chiedendo al governo un’autorizzazione prevista dal Freedom of Information Act (il cosiddetto FOIA, la legge americana che garantisce il diritto di accesso agli atti amministrativi). Il Washington Post ha pubblicato una sintesi dell’indagine soltanto dopo avere ricevuto l’autorizzazione da un tribunale.

L’inchiesta era stata avviata nel 2014, e secondo la descrizione del Washington Post «aveva l’obiettivo di individuare le fallimentari misure applicate in Afghanistan affinché gli Stati Uniti non commettessero gli stessi errori la prossima volta che avrebbero invaso un paese o cercato di ricostruirne uno».

In realtà l’indagine è andata molto più a fondo: nelle circa duemila pagine di interviste prodotte con 400 funzionari, membri dell’esercito e consulenti, è emerso che per anni diversi pezzi del governo hanno consapevolmente diffuso informazioni false sull’andamento della guerra, per evitare di ammettere che non poteva essere vinta (convinzione che hanno da tempo vari analisti). «Qualsiasi dato veniva alterato per presentare il miglior quadro possibile», ha raccontato in un’audizione del 2016 Bob Crowley, un colonnello dell’esercito che lavorò come consulente fra il 2013 e il 2014.


Diversi intervistati parlano inoltre della scarsissima conoscenza che gli Stati Uniti avevano dell’Afghanistan prima di entrare in guerra, poco dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, e della crescente frustrazione per la mancanza di progressi concreti: «Cosa ci stavamo a fare laggiù? Non avevamo la minima idea di quello che ci eravamo impegnati a fare», disse nel 2015 Douglas Lute, un generale che lavorò sulla strategia in Afghanistan per la Casa Bianca sia sotto l’amministrazione di George W. Bush sia sotto quella di Barack Obama.

La guerra in Afghanistan, la più lunga nella storia degli Stati Uniti, iniziò nell’ottobre 2001 in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre a New York e a Washington compiuti da al Qaida, che aveva la sua base nel territorio afghano ed era protetta dal regime dei talebani. Da allora decine di migliaia di soldati americani e afghani sono stati uccisi, e la guerra secondo una stima di qualche mese fa è costata agli Stati Uniti 932 miliardi di dollari. A distanza di 18 anni la situazione in Afghanistan, fra l’altro, non è affatto migliorata: il governo continua a essere debole e disfunzionale mentre ampi pezzi di territorio sono controllati dai talebani, con cui da quasi un anno gli Stati Uniti stanno negoziando – per ora senza risultati – un accordo di pace.


«La nostra intenzione era creare un forte governo centrale: ed era una stupidaggine, perché l’Afghanistan nella sua storia non ne aveva mai avuto uno», raccontava nel 2015 un funzionario del Dipartimento di Stato: «l’arco temporale necessario a creare un forte governo centrale è 100 anni, che noi non avevamo a disposizione». Errori del genere, di cui ci si è accorti solo anni dopo, hanno anche portato a investimenti sbagliati: un funzionario dell’agenzia statunitense per la cooperazione internazionale citato nell’inchiesta sostiene che il 90 per cento dei fondi erogati dagli Stati Uniti sia stato versato in eccesso. Tutto questo mentre diversi portavoce dell’esercito e del governo per anni hanno raccontato di «progressi», a volte anche «significativi».

Al momento né la Casa Bianca né i portavoce degli ex presidenti George W. Bush e Barack Obama hanno commentato l’articolo del Washington Post.

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